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venerdì 24 gennaio 2014

Ermeneutica o nuovo realismo?


di GIANNI VATTIMO

In questo video Gianni Vattimo si interroga sui motivi d’esistenza del nuovo realismo.

Il video, prodotto con il contributo di Giacomo Pisani, è stato realizzato grazie alla collaborazione tra MicroMega - Il Rasoio di Occam e il progetto culturale www.filosofiainmovimento.it.

mercoledì 28 novembre 2012

Il nuovo realismo e la sfida dell'esistenza


Per concessione dell'autore, sempre in merito al dibattito sul realismo, pubblico qui un contributo molto interessante di Giacomo Pisani apparso qualche giorno fa sul sito filosofia.it

 

Il nuovo realismo e la sfida dell'esistenza

di Giacomo Pisani

L’incalzare della riflessione sul “nuovo realismo”, a livello nazionale, ci pone di fronte a questioni in cui è implicato il nostro stesso stare al mondo, costringendoci a rifuggire qualsiasi riduzionismo.

Il nuovo realismo di Ferraris (da qualche mese è uscito il “Manifesto del nuovo realismo”) sembra voler rilanciare la sfida col reale nella semplicità di uno schema che riduce gli oggetti in tre classi: gli oggetti naturali, esistenti nello spazio e nel tempo indipendentemente dai soggetti; gli oggetti sociali, la cui esistenza nello spazio e nel tempo dipende invece dai soggetti stessi; e gli oggetti ideali, che esistono fuori dello spazio e del tempo indipendentemente dai soggetti. Ora, per Ferraris, il disincanto dall’illusione postmodernista, che affermando che “non ci sono fatti, solo interpretazioni”, ci ha esposti al populismo e al negazionismo, passa attraverso il ritorno all’evidenza degli oggetti naturali. La costituzione di questi ultimi costituisce l’ “inemendabile”, che eccede qualsiasi costruzione categoriale. L’indipendenza dell’oggetto rispetto agli schemi del soggetto e, in generale, della epistemologia, costituisce dunque un criterio di oggettività che resiste a qualsiasi tentativo di interpretazione e di falsificazione.

martedì 27 novembre 2012

Nuovo realismo o vecchio marketing?

Pubblico qui di seguito, a puro scopo informativo, la replica di Mario De Caro al mio articolo apparso su La Stampa il 22 novembre scorso, nonchè la mia successiva risposta.
GVattimo 


Caro Vattimo, si può filosofare anche sul semaforo


La Stampa, 23 novembre 2012
di Mario De Caro


«Bruto è uomo d’onore» declama ripetutamente il Marcantonio di Shakespeare, nel suo discorso al rumoreggiante popolo romano, attonito per l’uccisione di Cesare e ancora indeciso sul da farsi. Ma in realtà, si sa, con la sua grande prova di eloquenza Marcantonio sta demolendo tutto quanto Bruto ha detto. Le sue lodi sono solo una captatio benevolentiae per i suoi uditori.


Mi dispiace dunque rischiare di apparire un tardo emulatore di Marcantonio se dico che ho sempre ammirato Gianni Vattimo per la chiarezza e la profondità delle sue idee (il suo libro su Heidegger, per esempio, mi è sempre sembrato quanto di meglio mai scritto sul criptico autore di Essere e tempo). Data dunque la mia alta opinione che ho di lui, ho trovato francamente sorprendente l’intervento di Vattimo sulla Stampa di ieri, in cui menzionava la raccolta di saggi Bentornata realtà, che ho appena curato con Maurizio Ferraris per Einaudi.

martedì 17 luglio 2012

È Topolino il filosofo del relativismo

I limiti delle posizioni contrapposte di Ferraris e Vattimo sul pensiero postmoderno
Modellare il reale in forme diverse non è un peccato bensì un dovere della ragione
 
Giulio Giorello, Il Corriere della Sera, 24 giugno 2012
 
Giulio Giorello
Come è morto Ramsete II? Di tubercolosi, dicono gli esperti delle varie discipline che scandagliano il pozzo del passato. Niente affatto, ribatteva il «sociologo della conoscenza» Bruno Latour circa una decina di anni fa: il bacillo responsabile di quella malattia (Mycobacterium tubercolosis) è stato scoperto solo nel 1882 da Robert Koch. Maurizio Ferraris, nel recentissimo Manifesto del nuovo realismo (Laterza), commenta sarcasticamente che «se la nascita della malattia coincidesse con la sua scoperta, si dovrebbero sospendere immediatamente tutte le ricerche mediche, perché di malattie ne abbiamo più che a sufficienza». Ma il bacillo di Koch uccideva prima e può continuare a uccidere anche dopo che è stato individuato, proprio come, indipendentemente dalla consapevolezza dei chimici che l’acqua è un composto di idrogeno e di ossigeno, questa sostanza comunque bagna «e io non potrò asciugarmi — ci dice ancora Ferraris — con il solo pensiero che l’idrogeno e l’ossigeno in quanto tali non sono bagnati».
 
Questa è la tesi del Manifesto: «Non si può fare a meno del reale, del suo starci di fronte. Se c’è il sole, la sua luce è accecante; se la lasciamo troppo sul fuoco, la caffettiera scotta. Non c’è alcuna interpretazione da opporre a questi fatti: le uniche alternative sono gli occhiali da sole e le presine». Insomma, la realtà con cui facciamo i conti, sia nell’impresa tecnico-scientifica sia nell’esistenza quotidiana, è una sorta di «reale che non ha voglia di svaporare in reality».
 
Un grido di dolore non meno accorato si leva da un altro odierno manifesto, Democrazia! (con tanto di punto esclamativo), per la penna di Paolo Flores d’Arcais (Add editore). Solo se manteniamo lo scarto tra cose e parole, possiamo smascherare l’«alchimia» creata dalla propaganda: «La lotta politica per la democrazia e la lotta filologica per il significato della parola sono terreni diversi dello stesso scontro», dichiara Flores, che teme l’arroganza di qualsiasi Grande Fratello. Né vale ribattere che «non ci sono fatti, ma solo interpretazioni», almeno quando si ha a che fare con l’acqua che bagna o con i bacilli che minacciano la nostra salute… Ma che dire quando in gioco sono espressioni come buon governo, virtù politica o democrazia?
 
Per difendere il nostro patrimonio di significati c’è davvero bisogno di un’idea «forte» di verità? Per esempio, occorreva già qualcosa del genere per opporsi ai totalitarismi del Novecento o ce n’è urgenza oggi contro i vari dittatorelli del Medio Oriente, o contro l’ancor più subdolo dispotismo di democrazie in via di avanzata decomposizione? Non basterebbe la tenace volontà di non cedere mai, ovvero la decisione di resistere a qualunque potere che si spaccia per irresistibile?

La questione non è puramente accademica. Un conto sono le verità di «puro buon senso», come direbbe il Kit Carson amico di Tex Willer, o le stesse affermazioni della scienza, un conto la Verità (con la maiuscola), quella invocata, per esempio, da tutti coloro che si sentono assolutamente convinti del «fatto» che Dio starebbe dalla loro parte. Non potrebbero emergere così forme di dominio ancor peggiori di quelle che in nome della fede si vorrebbero abbattere?
Proprio per questo Gianni Vattimo non risparmia le varie manifestazioni di «nevrosi fondamentalista che percorre la società tardo-industriale», tra le quali include il realismo filosofico, che per lui è solo una «possibile ideologia della maggioranza silenziosa», come scrive nel suo Della realtà (Garzanti).
 
 La disputa, non solo italiana, finisce con l’investire i territori elusivi della politica e dell’etica. Per questo essa non si riduce a mere contrapposizioni personali. Il «nuovo realista — precisa Ferraris — non si limita a dire che la realtà esiste», ma insiste sulla tesi che «non è vero che essere e sapere si equivalgono». Il suo avversario potrebbe ricorrere, a questo punto, a Paul Feyerabend (un pensatore che Vattimo ben conosce), piuttosto che ai soliti numi del postmoderno, come Lyotard o Baudrillard, per i quali il reale si sarebbe ormai dissipato come fumo virtuale. Invece, è proprio il realismo che porta acqua alla tesi per cui nell’avventura umana — e non solo nella dinamica della conoscenza scientifica — emergono schemi di pensiero «incommensurabili», in cui cose e parole variano radicalmente di significato. Noi definiamo, infatti, il valore di qualsiasi oggetto dal suo uso, e la portata di un concetto o di un nome dall’impiego linguistico che ne facciamo. Feyerabend l’ha mostrato trattando di come la nuova scienza della natura di Galileo spazzò via l’opposizione degli aristotelici o di come la «sovversiva» fisica quantistica mandò in pezzi la costellazione dei pregiudizi dei fisici più legati alla tradizione. Ma è anche stato estremamente abile nello sfruttare il patrimonio di esperienze e informazioni che ci vengono dal lavoro degli antropologi.
 
Qui in poche righe non possiamo addentrarci nei dettagli. Ci limitiamo allora all’apologo narrato da Merrill de Maris (sceneggiatura) e Floyd Gottfredson (soggetto e matite) per la Walt Disney, Il selvaggio Giovedì (1940) — che il lettore del «Corriere» ha avuto modo di apprezzare negli allegati «Gli anni d’oro di Topolino» (2010). In breve, i nervi del nostro Topo sono messi a dura prova da Giovedì, capitatogli in casa per sconvolgere l’uso abituale di cose e termini. Così, il preteso «selvaggio» scambia la pelliccia leopardata di una superba dama per l’animale vero e proprio e non esita a colpire con la sua lancia le prosperose natiche della signora. Per non dire che impiega vetri, penne, matite, ciabatte, eccetera in modi nuovi ma a lui perfettamente funzionali.
 
 In questo modo, la lancia di pietra del selvaggio Giovedì non solo mostra quanto convenzionali e fragili siano alcuni dei nostri più consolidati valori, ma manda in pezzi… anche le tesi opposte dei due miei cari amici, Vattimo e Ferraris. Se è vero che essere e sapere non coincidono, che questo scarto è una delle più forti molle per l’innovazione nella scienza e nell’arte e che tutto lascia aperta una via di scampo nel mondo stesso della politica, cercare schemi concettuali «incommensurabili», escogitare usi e dunque significati nuovi, modellare in maniere differenti il reale che pure così ostinatamente ci resiste, non è un peccato bensì un dovere della ragione, una genuina esperienza di libertà, che vale più di qualsiasi imbalsamata «verità».

mercoledì 20 giugno 2012

"Il pensiero debole è ancora forte" (Pier Aldo Rovatti)

La Repubblica, 16 giugno 2012

Pier Aldo Rovatti
Non possiamo far finta che non si stia combattendo un sintomatico conflitto di idee. Esso esisteva ancor prima che venisse alla superficie attraverso articoli, saggi e libri. Con il Manifesto del nuovo realismo (Laterza) Maurizio Ferraris ha il merito di averlo fatto emergere e di avere surriscaldato la scena. Umberto Eco, nel suo intervento intitolato Di un realismo negativo (in “alfabeta2”, n. 17, e su questo stesso giornale), ha stemperato i toni. Gianni Vattimo, pubblicando (da Garzanti) Della realtà, cioè quello che ha detto e scritto nell’ultimo decennio, ha documentato la propria dissidenza filosofica con la consueta chiarezza, ed è a partire da questo libro che vorrei esprimere alcune mie considerazioni.
Lascio perdere le punte polemiche (per esempio, Vattimo che pubblica sul manifesto una lettera a Eco, e Ferraris che gli risponde contestualmente, come a dire «se vuoi parlare con me, fallo direttamente»). E vengo subito al conflitto delle idee: in gioco mi pare soprattutto la domanda «dove sta andando la filosofia?» e, più precisamente, «che fine stanno facendo il “sociale” e il “politico” in questa svolta di pensiero? ». Nessuno dei contendenti si sogna di dichiararsi “contro il realismo”: da una parte, però, si propone di salvare il nocciolo “ontologico” della questione sbarazzandosi di tutto quanto è avvenuto dal ’68 a oggi, dall’altra si valuta con preoccupazione quel che si perderebbe procedendo così.
A detta di Vattimo si rinuncerebbe al potenziale di trasformazione che la filosofia può ancora avere e che anzi, proprio adesso, in tempi in cui la crisi tende a comprimere anche gli spazi di pensiero, dovremmo cercare di attivare e valorizzare. Il suo punto di vista è netto: per lui rischiamo di ingabbiarci in un atteggiamento ultraconservativo dal sapore accademico, se togliamo alla filosofia quel mandato sociale e politico costruito in decenni di lavoro ermeneutico e fenomenologico, attraverso la rilettura critica di Nietzsche e di Heidegger, gli apporti mutuati dalla microfisica del potere di Foucault e dal decostruzionismo di Derrida, senza dimenticare il ruolo non marginale giocato da Benjamin. Tutto questo percorso – che ora si vorrebbe devitalizzare (omologandolo in un generico postmodernismo) – conduce secondo Vattimo proprio a una descrizione critica della “realtà”, nella sua complessità ma soprattutto nei suoi dispositivi oggettivanti e che limitano la libertà dei soggetti in quanto cittadini in lotta per i loro diritti.
 
Umberto Eco
Come è noto, anche se non mi sono mai del tutto identificato filosoficamente con Vattimo (per formazione e scelte specifiche), ne condivido nella sostanza l’impianto (cfr. in Della realtà soprattutto le “Lezioni di Glasgow” del 2010): è una posizione che permette, nell’attuale conflitto di idee, di vedere bene i rischi del disboscamento in atto e soprattutto di illuminare il tratto più sorprendente di questa “pulizia” culturale, e cioè la rimozione della soggettività. Sembra infatti che il realismo ora rilanciato voglia e possa fare a meno della soggettività, quasi fosse inglobata o sottintesa e non una questione aperta e cruciale. Un realismo senza soggetto, per dir così, chiude o comunque squalifica come irrilevanti i problemi che, secondo Vattimo (e secondo me), dovrebbero invece essere considerati vitali per il discorso filosofico: quelli, per esempio, dell’identità e dell’alterità e di cosa può significare oggi socializzazione o legame sociale; oppure quelli della prossimità e della distanza e di cosa, appunto, può voler dire “soggetto” nel momento in cui è chiaro che nessuno può essere più padrone a casa propria e che l’idea di individuo neoliberale sembra ormai andare in frantumi.
Ipotizzo che Vattimo si sia rivolto a Eco (nella lettera che ho sopra ricordato) perché gli attribuisce una sensibilità sull’intera questione, nonostante il fatto che Eco appaia schierato nel campo avverso. Una sensibilità innanzi tutto “storica”: una cautela nel buttar via il bambino con l’acqua sporca, salviamo almeno l’insegnamento in fatto di “ironia” che ci arriva da quella stagione che ora vorremmo frettolosamente cancellare. E poi una sensibilità verso un “realismo minimo”, inteso come un limite «che non ci garantisce che noi possiamo domani possedere la verità».
 
Maurizio Ferraris
Ecco gli ulteriori e imprescindibili fronti della battaglia in corso, molto evidenti nel libro di Vattimo: la storia e la verità. Storia significa provenienza, genealogia, processo sociale attraverso cui si forma la coscienza politica del presente e al di fuori del quale la parola “critica” e anche la stessa parola illuminismo (invocata da Ferraris) rischiano di restare parole senza spessore. “Verità” (con le virgolette!) vuol dire appunto negazione della pretesa di possedere una volta per tutte la verità (senza virgolette). Le due questioni sono ovviamente intrecciate: per combattere le pretese di chi ha creduto o ancora crede di avere in mano la verità, occorre che gli “eventi” vengano ogni volta attraversati dalla storicità e che i soggetti storici ne siano i responsabili effettivi, concreti, politici: tutti i soggetti, non solo quei supposti “funzionari dell’umanità” che chiamiamo filosofi.
Vattimo ha costantemente combattuto questa battaglia e continua a farlo anche in Della realtà. Qualcuno ritiene che sia ormai passato il suo tempo. A me pare lampante che la sostanza del suo programma filosofico sia ancora incisiva, oggi – forse – ancora più di ieri.

venerdì 20 aprile 2012

Da Bush a Monti: fatti o interpretazioni?


Da Bush a Monti: fatti o interpretazioni?
«Alias-D» dell’1 aprile recensiva il libro di Maurizio Ferraris «Manifesto del nuovo realismo» (Laterza), contro gli effetti ubriacanti del pensiero debole e postmoderno. A Ferraris, che propugna un ritorno filosofico (e politico) al mondo dei «fatti», replica qui Gianni Vattimo, con una «lettera aperta» a Umberto Eco, suo interlocutore ideale. Gli risponde Ferraris.

Il Manifesto, 8 aprile 2012

Il ritorno della realtà come ritorno all’ordine – Gianni Vattimo

Caro Umberto, vorrei entrare subito in medias res (ahi!, le cose stesse!) per discutere il tuo saggio sul «realismo negativo». Due cose preliminari. Primo: davvero qualcuno dei nuovi realisti pensa che un postmoderno utilizzi un cacciavite per pulirsi un orecchio o il tavolo su cui scrive per viaggiare da Milano ad Agognate? Spesso gli esempi paradossali finiscono per essere presi troppo sul serio, e diventano caricature delle quali sarebbe meglio sbarazzarsi. Secondo: ricordi Proudhon? In una estate di molti anni fa, nel deserto di temi con cui riempire i giornali, qualcuno tirò fuori Proudhon del tutto a freddo, aprendo un dibattito inconcludente che si trascinò per un po’ e poi svanì nel nulla. Il nuovo realismo mi sembra un fenomeno del tutto simile, anche se minaccia di durare più a lungo, per ragioni che hanno probabilmente da fare con il generale clima di «ritorno all’ordine» di cui è massima espressione il governo dei «tecnici».

Quali sono le ragioni del «ritorno della realtà» contro la «sbornia post-modernista»? A chi importa «tornare alla realtà» e respingere la tesi di Nietzsche secondo cui «non ci sono fatti, solo interpretazioni, e anche questa è un’interpretazione»? Certo, tu risponderai subito che questa domanda è impropria: è la verità o falsità della tesi che ci deve interessare, non a chi piacciano o dispiacciano. Ma dovresti anche ammettere che così costringi subito Nietzsche ad accettare che ci sia quella famosa verità oggettiva di cui si sta discutendo. Così, verità oggettiva sembra essere, per i nuovi realisti, il «fatto» che «il postmoderno è fallito». Davvero questo fallimento è un fatto e non un’interpretazione? La forza della tesi di Nietzsche, anche e soprattutto per chi non vuole prostrarsi davanti al mondo com’è e identificare senz’altro l’esser-così-delle-cose con il bene e la norma da «rispettare», sta tutta nel domandare, ad ogni enunciazione, «chi lo dice?». Il concetto di ideologia di Marx, ma tutta la cosiddetta scuola del sospetto (Marx, Nietzsche, Freud), dovrebbe averci insegnato qualcosa. Già, dirai, però Marx smascherava l’ideologia proprio in nome della verità oggettiva. Ma questa per lui era il patrimonio del proletariato («chi lo dice?»), non l’essere stesso identificato con ciò di cui non si può assolutamente pensare il contrario, cioè quello che tu chiami «il mondo» con i suoi «fatti». I «fatti» non parlano da sé, anche indicarli semplicemente con un dito è già un atto linguistico. Il realismo (vecchio, credo; perché sarebbe nuovo?) si è sempre fatto forte del «fatto» che ci deve essere qualcosa, il «dato», che limita l’interpretazione, come dici tu, e che non dipende dall’interprete. Neanche il più fanatico postmodernista assume semplicemente che le «cose» siano create da chi le vede. Se piove mi bagno, se sbatto in un muro mi faccio male al naso. E allora? Lo zoccolo duro dell’essere sarebbe questo? Heidegger ha costruito tutta una filosofia a partire dall’insoddisfazione per la «metafisica», cioè per quel pensiero che identifica l’essere con questo zoccolo. E l’insoddisfazione era fondata non sulla scoperta che l’essere non è «zoccolo» ma, poniamo, pantofola o aria; bensì sulla impossibilità di prender sul serio la libertà, in un mondo fatto di durezze e di zoccoli identificati semplicemente con l’essere stesso… 
 
John Searle
La domanda «chi lo dice?», ha anche una ovvia portata etico-politica. I nuovi realisti (che sempre mi rinfacciano il nazismo di Heidegger) dovrebbero spiegare perché uno dei loro profeti sia John Searle, onorato da Bush come il massimo filosofo USA. Qualcuno di loro avrà un analogo riconoscimento dal governo Monti-Napolitano? Certo, di fatto (!) i nuovi realisti hanno il massimo ascolto nella opinione pubblica (ossia pubblicata) mainstream, rispondono alla richiesta di restaurare valori «veri» e, in definitiva, disciplina sociale. Anche tu sei preoccupato di trovare «garanzie» per proporre interpretazioni accettabili dagli altri. Appunto, «gli altri». Proprio perché non ci sono fatti, solo interpretazioni, il solo «zoccolo» contro cui urto e di cui devo tener conto, senza garanzie, sono le interpretazioni degli altri. Per convincerli non ho nessun garanzia «oggettiva»: solo certi valori condivisi, certe esperienze comuni, certe letture che abbiamo fatto, persino – ormai ne sono consapevole – certe appartenenze di classe. La pericolosità dell’ermeneutica è tutta qui: insegna che la sola interpretazione sicuramente falsa (limiti dell’interpretazione!) è quella che non riconosce di essere tale, che pretende di parlare dal punto di vista di Dio e dunque rifiuta di negoziare, pensando di possedere la verità vera. Ma anche la verità di una proposizione scientifica è tale solo se gli altri, coloro che ripetono l’esperimento, hanno gli stessi risultati. C’entreranno lo zoccolo e il muro? Ma dove sarebbero, se non in queste interpretazioni?

domenica 18 marzo 2012

¿Seguimos siendo posmodernos?

¿Seguimos siendo posmodernos?

Hace 30 años, Gianni Vattimo acuñó el concepto de “pensamiento débil” como rasgo de la posmodernidad. En diálogo con Maurizio Ferraris, reexamina sus ideas y las actualiza.

POR Maurizio Ferraris Y Gianni Vattimo

27/02/2012,  Ñ, Revista de Cultura: El Clarín, La Repubblica. Traduccion de Cristina Sardoy.

¿Seguimos siendo posmodernos o estamos acaso por convertirnos en “neorrealistas”, volviendo al pensamiento fuerte? El debate filosófico está abierto. Gracias, asimismo, a la conferencia que se llevará a cabo en Bonn, Alemania, el año próximo sobre el “New Realism” en la que participarán, entre otros, Umberto Eco y John Searle.
Maurizio Ferraris. Los últimos años enseñaron, me parece, una amarga verdad. Que la primacía de las interpretaciones sobre los hechos, la superación del mito de la objetividad, no tuvo los resultados de emancipación que imaginaban filósofos posmodernos ilustres como Richard Rorty o vos mismo. No sucedió, por lo tanto, lo que anunciabas hace 35 años en tus excelentes clases sobre Nietzsche y el “devenir fábula” del “mundo verdadero”: la liberación de las restricciones de una realidad demasiado monolítica, compacta, perentoria, una multiplicación y deconstrucción de las perspectivas que parecía reproducir, en el mundo social, la multiplicación y la liberalización radical –creíamos entonces– de los canales televisivos. Ciertamente, el mundo verdadero se transformó en una fábula, es más, se ha convertido en un reality , pero el resultado es el populismo mediático, donde –siempre que se tenga el poder– se puede pretender hacer creer cualquier cosa. Esto, lamentablemente, es un hecho, aunque los dos desearíamos que fuera una interpretación. ¿Me equivoco?
Gianni Vattimo. ¿Cuál es la “realidad” que desmiente las ilusiones posmodernas? Hace once años, mi dorado librito La sociedad transparente tuvo una segunda edición con un capítulo agregado escrito después de la victoria de Berlusconi en las elecciones. Yo ya constataba la “desilusión” a la que te referís; y reconocía que si no se daba esa prescindencia de la perentoriedad de lo real que había prometido el mundo de la comunicación y los medios masivos contra la rigidez de la sociedad tradicional, era sólo a causa de una permanente resistencia de la “realidad”, pero justamente en la forma del dominio de poderes fuertes (económicos, mediáticos, etcétera). Por lo tanto, toda la cuestión de la “desmentida” de las ilusiones posmodernas es sólo una cuestión de poder. La transformación posmoderna alcanzada realistamente por quien consideraba las nuevas posibilidades técnicas no se logró. De este “hecho”, me parece, no debo aprehender que el modernismo es una mentira; sino que estamos a merced de poderes que no quieren que la transformación sea posible. ¿Cómo confiar en la transformación, empero, si los poderes que se le oponen son tan fuertes?
M.F. Tal como lo planteás, el poder, es más, la prepotencia, es lo único real en el mundo, y todo el resto es ilusión. Te propondría una visión menos desesperada: si el poder es mentira y sortilegio (“un millón de puestos de trabajo”, “nunca se meterán las manos en los bolsillos de los italianos”, etc.) el realismo es contrapoder: “El millón de puestos de trabajo no se vio”, “se metieron las manos en los bolsillos de los italianos, y cómo”. Por eso, hace 20 años, cuando lo posmoderno celebraba sus fastos y el populismo se calentaba los músculos al costado de la cancha, maduré mi vuelco hacia el realismo (lo que ahora llamo “New Realism”), posición en ese tiempo totalmente minoritaria. ¿Te acordás que me dijiste: “¿Quién te manda hacer eso?”? Pues bien, simplemente la constatación de un hecho verdadero.
G.V. Si se puede hablar de un nuevo realismo, éste, al menos por mi experiencia de (pseudo) filósofo y (pseudo) político, consiste en constatar que la llamada verdad es una cuestión de poder. Por eso me animé a decir que quien habla de la verdad objetiva es un siervo del capital. Siempre debo preguntar “quién lo dice” y no confiar en la “información” ya sea periodística-televisiva o incluso “clandestina”, ya sea “científica” (nunca existe la ciencia; hay ciencias, y los científicos, que a veces tienen intereses en juego). Pero entonces, ¿en quién confiaré? Para poder vivir decentemente en el mundo debo tratar de construir una red de “compañeros” –sí, lo digo sin pudor– con los cuales comparto proyectos e ideales. ¿Buscándolos dónde? Donde hay resistencia: los anti-IVA, la flotilla de Gaza, los sindicatos anti-Marchionne. Sé que no tengo un programa político verosímil, y ni siquiera una posición filosófica “presentable” en los congresos y las conferencias. Pero ahora soy “emérito”.
M.F. Para ser un resistente, aunque sea emérito, tu tesis de que “la verdad es una cuestión de poder” me parece una afirmación muy resignada. Es como afirmar: “La razón del más fuerte es siempre la mejor”. Personalmente estoy convencido de que justamente la realidad, por ejemplo, el hecho de que es cierto que el lobo está en el monte y el cordero en el valle, por lo tanto no puedo enturbiarles el agua, es la base para restablecer la justicia.
G.V. Yo diría más bien: constatemos el fracaso, práctico, de las esperanzas posmodernas. Pero, ciertamente, no en el sentido de volvernos “realistas” pensando que la verdad certificada (“¿por quién?” nunca un realista se lo pregunta) nos salvará, después de la resaca ideal-hermenéutica-nihilista.
M.F. No se trata de volvernos realistas, sino de serlo de una buena vez. En Italia, el mainstream filosófico siempre fue idealista, como bien lo sabés. En cuanto a la certificación de la verdad, hoy hay un sol ligeramente velado por las nubes y eso lo certifico con mis ojos. El 15 de agosto de 1977 Herbert Kappler, ex coronel de las SS nazis y responsable de la ejecución de las fosas Ardeatinas, huyó del Hospital Militar de Celio. Esto me lo dice Wikipedia. Ahora, supongamos que empezaras a preguntarme: “¿Será cierto? ¿Quién me lo prueba?” Se pondría en marcha un proceso que de la negación de la fuga llegaría a la negación de las ejecuciones, y después de todo lo demás hasta la Shoah. Millones de seres humanos asesinados y yo preguntándome sin parar “¿quién lo certifica?”
G.V. Es obvio (¿verdadero?, bah) que para desmentir una mentira debo tener otra referencia. Pero ¿te preguntaste alguna vez dónde está esa referencia? ¿En lo que “ves con tus propios ojos”? Sí, funcionará para entender si llueve; pero ¿para decir en qué dirección debemos orientar nuestra existencia individual o social?
M.F. Obviamente no. Pero decir que “la llamada verdad es una cuestión de poder” tampoco me dice nada en esa dirección, como mucho, me sugiere no abrir más un libro. Hace falta un doble movimiento. El primero, justamente, es el desenmascaramiento, “el rey está desnudo”; y es verdad que el rey está desnudo, de lo contrario son palabras al viento. El segundo es la salida del hombre de la infancia, la emancipación a través de la crítica y el saber (normalmente el populismo sin exagerar intolerante con respecto a la universidad).
G.V. Quien dice que “existe” la verdad siempre debe indicar una autoridad que la sancione. No creo que te contentes ahora con el tribunal de la Razón, con el que los poderosos de todas las épocas nos engañaron. Y que a veces, lo admito, sirvió también a los débiles para rebelarse, sólo a la espera, empero, de instaurar un nuevo orden donde la Razón volvió a ser instrumento de opresión. En suma, si “existe” algo como lo que llamás “verdad” es sólo o decisión de una auctoritas , o, en los casos mejores, resultado de una negociación. Yo no pretendo tener la verdad verdadera; sé que debo rendir cuenta de mis interpretaciones a quienes están “de mi parte” (que no son un grupo necesariamente cerrado y fanático; solamente no son nunca el “nosotros” del fantasma metafísico). En cuanto al llover o no llover, y también sobre el funcionamiento del motor del avión en el que viajo, puedo incluso estar de acuerdo con Bush; respecto de hacia dónde tratar de dirigir las transformaciones que la posmodernidad hace posibles no nos pondremos de acuerdo y ninguna constatación de los “hechos” nos dará una respuesta exhaustiva.
M.F. Si la ideología de lo posmoderno y del populismo es la confusión entre hechos e interpretaciones, no hay duda de que en el enfrentamiento entre un posmoderno y un populista será muy difícil constatar hechos. Pero es de esperar, muchos signos permiten presagiarlo, que esta estación llegue a su fin. También la experiencia de las guerras perdidas, y luego de esta crisis económica, creo que puede constituir una severa lección. Y con lo que afirmo abiertamente que es una interpretación, espero que la humanidad necesite cada vez menos someterse a las “autoridades”, justamente porque salió de la infancia. Si no es en base a esa esperanza, ¿qué estamos haciendo aquí? Si decimos que “la llamada verdad es una cuestión de poder”, ¿por qué los filósofos hicimos al revés de los magos?
G.V. Decís muy poco acerca de dónde buscar las normas del actuar cuando el modelo de la verdad es siempre el dato objetivo. No tenés ninguna duda sobre “quién lo dice”, siempre la idea de que mágicamente los hechos se presentarán por sí mismos. La cuestión de la auctoritas que sanciona la veritas deberías tomarla más en serio. Tal vez yo me equivoque al hablar de compañeros, pero ¿vos creés realmente que hablás from nowhere ?

domenica 19 febbraio 2012

E Vattimo sbeffeggiò l'Essere: "è come un mobile con le tarme"

Edoardo Camurri recensisce «Della realtà. Fini della filosofia», edito da Garzanti (pp. 220, euro 18), in uscita il 23 febbraio 2012.

E Vattimo sbeffeggiò l'Essere: "è come un mobile con le tarme"
Il pensatore critica le posizioni del "nuovo realismo" 
Corriere della sera, 17 febbraio 2012. Di Edoardo Camurri 
 
«Non ci sono fatti, solo interpretazioni. Anche questa è un'interpretazione» tuonava più di un secolo fa quella bestia bionda di Friedrich Nietzsche, e oggi Vattimo continua a ripeterlo con una certa acribia anche se (a eccezione forse di qualche bramino) in molti si ostinano (loro malgrado) a sperimentare quanto la realtà sia dura a morire. Se si legge il suo ultimo libro, Della realtà. Fini della filosofia (Garzanti), la volontà di Vattimo di dissolvere la realtà è così radicale che finisce con il dissolvere perfino la realtà di un suo ex allievo, e ora durissimo rivale, come Maurizio Ferraris sostenitore del cosiddetto «nuovo realismo». Insomma, Vattimo non lo cita mai, per quanto sia evidente che uno dei principali obiettivi polemici del libro sia proprio l'esistenza di Maurizio Ferraris in quanto tale. Si potrebbe obiettare: ma questa forma di gossip teoretico cosa c'entra con un testo e con la sua analisi critica? In teoria nulla, se non fosse che è lo stesso Vattimo a giustificare una lettura sospettosa delle diatribe filosofiche: «Persino il richiamo all'oggettività delle cose come sono in sé stesse pesa solo in quanto è una tesi di qualcuno contro qualcun altro, e cioè in quanto è una interpretazione motivata da progetti, insofferenze, interessi anche nel senso migliore della parola» (p. 95).
Chi, come chi scrive, ha frequentato a lungo le lezioni di Vattimo, si divertiva molto a sentire il maestro riassumere la sua posizione con l'affermazione: «L'Essere è camolato», un modo piemontese per dire che l'Essere ha le tarme. Con Heidegger, Vattimo sostiene: la conoscenza non è adeguazione di un soggetto all'oggetto, l'Essere della filosofia non va pensato come un ente o come un dio presente che sta dinanzi a noi (o più spesso sopra di noi in posizione di dominio).
L'Essere è un progetto dentro il quale l'uomo è da sempre gettato. Esempio: se scrivessimo che esistono gli ippogrifi, ci prendereste per scemi non perché avete esplorato in lungo e in largo e nel tempo e nello spazio l'universo al punto da escludere radicalmente l'esistenza di questi animali metà cavalli e metà grifoni, ma perché viviamo in un mondo nel quale si sa già, in partenza, e sulla base di qualche confortevole pregiudizio, che gli ippogrifi non esistono. Quando si nasce si ereditano un linguaggio, delle credenze e dei significati che consentono all'uomo di articolare un discorso all'interno del quale (e questo è un interessante paradosso su cui Vattimo spesso si concentra nel suo libro) ci si può perfino illudere di essere realisti. Scrive Vattimo in Della realtà. Fini della filosofia (p. 46): «In quanto esistenti, dunque, noi siamo sempre bestimmt, intonati, orientati secondo preferenze e repulsioni, mai semplicemente-presenti ( vorhanden ) in mezzo agli oggetti (...). Questa è l'idea di esistenza come "progetto"».
Non stupirebbe, a questo punto del discorso, intravedere però qualche manina alzata pronta a obiettare: quello che sostiene Vattimo è un fatto, non un'interpretazione; si sta contraddicendo, anche lui finisce col descrivere obiettivamente la struttura dell'Essere. Ed è questa osservazione, una variante dell'obiezione antica contro lo scetticismo (affermare l'impossibilità della verità è una verità), a rendere conturbante Della realtà. Fini della filosofia. Perché Vattimo risponde innanzitutto rivendicando, con Nietzsche, il carattere interpretativo della sua posizione per poi chiedersi un po' stupito (p. 85): «L'argomento logico contro lo scetticismo ha mai convinto qualcuno ad abbandonare le sue "convinzioni" scettiche?». Non siamo all'anything goes, all'idea che tutto vada bene, ma all'insistenza che un «banale errore logico» non possa liquidare l'approdo nichilista a cui è giunta la storia della filosofia, il destino dentro il quale l'uomo è gettato e dove tenta di progettare la realtà che più desidera. Nulla di nuovo. Ma forse qualcosa di noioso e di inquietante. Noioso perché, come scriveva il grande poeta polacco Czeslaw Milosz, il nichilismo è ormai diventato una prerogativa della cultura di massa, nonché il segno di riconoscimento delle menti ordinarie; e inquietante perché grazie a idee come queste, e stranamente in nome di un'istanza di libertà comune alle avanguardie dei primi del Novecento, Heidegger divenne nazista e Vattimo, che lo difende dicendo che si autofraintese, oggi invita a boicottare Israele, abbraccia Fidel Castro («Gli ho preso il viso tra le mani - raccontò - con qualche lacrima agli occhi»), sostiene che con l'11 settembre: «Gli americani hanno fatto esperimenti sul proprio popolo»; eccetera.
Se si rigetta la possibilità di una teoria vera e propria, il rischio è concepire il pensiero come sostanzialmente asservito e dipendente dalla vita o dalla storia e, senza voler fare una reductio ad Hitlerum (una teoria non è confutata dal fatto che le è capitato di essere condivisa da Hitler), sembra che la posizione di Vattimo, ragionevole in teoria (l'Essere è camolato), in pratica corra il rischio di dimenticarsi dell'Essere per assolutizzare le camole e i rosicchiatori della realtà. Non è una situazione tanto allegra anche perché l'alternativa (classica e platonica) per sfuggire a questo pericolo non è più allettante: non divulghiamo nel dettaglio come stanno le cose, il nichilismo, eccetera, perché questa visione è incompatibile con la vita e al suo posto edifichiamo miti e nobili menzogne dentro i quali costruire un mondo decente ma falso. Entrambe le posizioni sono insieme conservatrici e rivoluzionarie. Scrive ancora Vattimo in Della realtà. Fini della filosofia (p. 109): «Proporre un diverso ordine storico-sociale, anche a partire dall'insoddisfazione per alcuni aspetti del paradigma vigente, è possibile non certo con argomenti "cogenti" di tipo ostensivo - "ti mostro che" - ma solo con discorsi edificanti - "non ti pare che sarebbe meglio se"».
Tutto finisce quindi col dipendere da una decisione. E la decisione può essere più o meno efficace a seconda di quanto siamo spregiudicati o di quanto siamo capaci di porci in ascolto dell'essere e dei progetti che l'essere ha in serbo per noi. Liberati dalla realtà, finiamo così con il diventare vittime della propaganda.

giovedì 22 dicembre 2011

Inattualità del pensiero debole, la risposta di Rovatti a Ferraris

Riporto qui fedelmente la pagina dell'editore Forum dedicata a Inattualità del pensiero debole, il nuovo libro di Pier Aldo Rovatti.

E’ da pochi giorni in libreria, per il momento solo a Udine, “Inattualità del pensiero debole” di Pier Aldo Rovatti, nuovo titolo della collana vicino/lontano, edita da Forum. Il volume entra a caldo nella recente polemica nei confronti del pensiero debole – polemica sollevata lo scorso agosto sulle pagine di “Repubblica” da Maurizio Ferraris - e di fatto costituisce una replica alla sua presa di posizione. Verrà presentato domenica 11 dicembre a Roma (alle 14, nella Sala Turchese del Palazzo dei Congressi dell’EUR) in occasione della Fiera della piccola e media editoria. Introdotti da Norma Zamparo, direttore editoriale di Forum, ne discuteranno l’autore, Pier Aldo Rovatti, docente di Filosofia teoretica e contemporanea all’Università di Trieste, e il giornalista Marco Pacini, direttore della collana, nonché ideatore del progetto vicino/lontano. Nel volume Pier Aldo Rovatti, dialogando con lo studioso steineriano triestino Alessandro Di Grazia, risponde alle obiezioni di Maurizio Ferraris, di Umberto Eco e di altri esponenti del “nuovo realismo”, fautori di una “piccola crociata” verso un’intera stagione culturale. Il volume si apre con un necessario preambolo, per fornire al lettore le coordinate per orientarsi nel contesto specifico della polemica. Vengono ripubblicati due articoli, comparsi questa estate su “Repubblica” e “il Piccolo” a firma di Rovatti – con Gianni Vattimo padre del pensiero debole – che costituiscono una prima replica a Ferraris e, al contempo, un’introduzione ai temi portanti della filosofia del pensiero debole. Dopo trent’anni, Rovatti conferma la particolare consonanza con il pensiero critico di Michel Foucault, rivendicando il valore che conserva ancora oggi il suo pensiero come bussola di orientamento. In una cultura spettacolarizzata e al tempo stesso accademizzata, in contrapposizione alla visione concreta e fattuale della verità sostenuta dai nuovi realisti, Rovatti sostiene la necessità di una critica radicale al concetto di ‘verità’, al fine di rimettere al centro del discorso i temi del potere e del soggetto. Attraverso una visione della storia e dell’attualità caratterizzata dalla pietas e dall’assenza di dogmi ontologici, lo sviluppo del ‘pensiero debole’ diventa lo strumento critico che può consentire alla società contemporanea di risollevarsi culturalmente e tentare di affrontare la ricerca della verità “senza menare colpi d’ascia a vuoto”. Tuttavia è proprio la situazione sociale contemporanea, i fallimenti culturali e valoriali che hanno caratterizzato gli ultimi vent’anni e i cui effetti influenzeranno la nostra quotidianità per molto tempo, a portare l’autore alla conclusione che, oggi, il ‘pensiero debole’ è inattuale. Il ‘pensiero debole’ è uno strumento critico che non siamo in grado di utilizzare, ma potremmo esserlo in futuro. Con le parole dell’autore “Il pensiero debole […] è un ‘pensiero positivo’ che propone la pratica di un’etica minima: una linea di resistenza contro ogni genere di nuova barbarie, sulla quale attestarsi per non cedere sul diritto di essere cittadini. Una soglia di civiltà – direi – da difendere strenuamente e rispetto a cui non indietreggiare. Da qui discendono uno stile di vita e un impegno nella società. L’indignazione diffusa, il ‘se non ora quando’ che non vale solo per il movimento delle donne, l’esigenza inderogabile di reagire alle condizioni di precarietà, l’urgenza di una scuola che funzioni, indicano con evidenza quali siano i ‘soggetti’ interessati a sottrarsi alla gelatina populistica che ormai ci avvolge. Quasi tutti. Ed è a loro che il pensiero debole si rivolge chiedendo che ciascuno si faccia carico della propria supposta ‘impotenza’, non affidandosi alle ideologie ma praticando, giorno per giorno, una valorizzazione e una socializzazione dei propri bisogni.”
Pier Aldo Rovatti insegna Filosofia teoretica e Filosofia contemporanea all’Università di Trieste. Ha studiato fenomenologia a Milano con Enzo Paci iniziando fin dagli anni Sessanta a collaborare con la rivista di filosofia e cultura «aut aut», di cui è direttore dal 1976. Collabora con i quotidiani “Il Piccolo” e “la Repubblica”. Coordina il Laboratorio di filosofia contemporanea e l’Osservatorio sulle pratiche filosofiche a Trieste. È membro del comitato scientifico di vicino/lontano. Tra le sue ultime pubblicazioni: Possiamo addomesticare l’altro? La condizione globale (2007); Etica minima. Scritti quasi corsari sull’anomalia italiana (2010); Noi i barbari. La sottocultura dominante (2011). Nel 2010 è uscito il primo volume a lui interamente dedicato (René Scheu, Il soggetto debole. Sul pensiero di Pier Aldo Rovatti, Milano: Mimesis, 2010) che contiene anche la prima storia dettagliata della ricezione del pensiero debole.
La collana ‘vicino lontano’ è edita da Forum ed è diretta da Marco Pacini con la consulenza scientifica di Stefano Allievi, Giovanni Leghissa, Giangiorgio Pasqualotto, Pier Aldo Rovatti e Davide Zoletto. Si propone di forzare il linguaggio e i confini della comunicazione accademica e specialistica per raggiungere anche il grande pubblico, con contributi rigorosi e allo stesso tempo facilmente fruibili, per rompere le barriere dei luoghi comuni, degli stereotipi e delle semplificazioni mediatiche che ostacolano una vera comprensione del reale.
In catalogo vi sono 11 titoli. Tra gli autori Carlo Galli, Slavoj Žižek, Renzo Guolo, Marco Cicala. “Inattualità del pensiero debole” sarà nelle librerie di tutta Italia a partire dalla fine di gennaio. E’ invece già in vendita a Udine presso le librerie Friuli, Moderna, Tarantola, Cluf, Friullibris

domenica 4 dicembre 2011

Corrado Ocone e la filosofia classica tedesca

Restituiteci la filosofia classica tedesca, please

Il vero rimosso della polemica tra neorealisti e postmoderni, è la dialettica che ci insegna a tenere aperto uno spazio di comunicazione fra prospettive e idee diverse, ad avere consapevolezza che anche chi consideriamo in “errore” può essere portatore di qualche elemento di “verità”.

di Corrado Ocone. Il Riformista, 3 dicembre 2011

L'intervento di Filippo La Porta su Ragioni di domenica scorsa, nonostante il suggestivo accostamento di democrazia e verità, si presta ad alcune obiezioni di fondo. Più in generale, è proprio il dibattito attuale fra neorealisti e postmodernisti che lascia profondamente insoddisfatti. A ben vedere, in entrambi gli schieramenti c’è un rimosso, un macigno che ostruisce la strada e che non può semplicemente essere scansato deviando. Il rischio è che ci si perda per davvero. Per chiarirmi io stesso e per chiarire a voi il senso di questa insoddisfazione e anche la natura del grande rimosso, propongo in questa sede un itinerario in tre tappe, che vanno a ritroso nel tempo, e una conclusione.
Prima tappa: estate 2011. Che un’epoca della storia delle idee fosse finita lo avevamo capito da un po’. Quest’estate però la conferma ci è arrivata dal mensile inglese Prospect che ha pubblicato un lungo e persuasivo articolo del critico letterario Edward Docx con un titolo che era una campana a morto: «Il postmodernismo è finito». Lo spunto era una esposizione che è tuttora in corso al Royal and Albert Museum di Londra e che permette di storicizzare un’epoca, gli ultimi trent’anni approssimativamente, in cui non solo le arti, ma anche la filosofia, i comportamenti, gli stili di vita hanno assunto un tono ben determinato.
Jean-François Lyotard

Del postmoderno anzi, a ben vedere, si può addirittura fissare una data di nascita, un momento in cui giunge a consapevolezza. È il 1979, l’anno in cui cioè il sociologo Jean Francois Lyotard pubblica con il titolo La condition postmoderne un agile rapporto sullo stato del sapere nel mondo contemporaneo che gli è stato commissionato dall’Unesco
In esso egli parla di fine delle metanarrazioni, cioè della crisi irreversibile di quelle dottrine che avevano fino allora preteso di dare un senso unitario alla realtà: l’illuminismo, l’idealismo, il marxismo. Al loro posto, Lyotard vede all’opera una positiva pluralità di linguaggi e di saperi, una frammentazione e una dispersione del senso che, a suo dire, può coincidere con l’emancipazione umana, con la libertà da ogni costrizione di vita e di pensiero. È l’immagine gioiosa di Zarathustra che danza. E comunque un richiamo a quel prospettivismo che aveva portato Nietzsche a dire che «non ci sono fatti ma solo interpretazioni».
Come sia andata a finire, è dato sapere. Come ammette lo stesso Vattimo, che con il filosofo americano Richard Rorty e altri tentò di dare una base filosofica al nuovo “spirito dei tempo”, non fu previsto che, nel deserto delle ideologie, una sarebbe tuttavia sopravvissuta e avrebbe soppiantato ogni altra. Più pericolosa delle altre, perché si sarebbe presentata come una non ideologia. Non è un caso che il trentennio del postmoderno abbia coinciso con quello del neoliberismo, cioè con il tracimare in una mistica dell’idea di Mercato. E non è un caso che oggi anch’essa sembra finita, almeno da un punto di vista teorico: la crisi finanziaria del 2008, che ancora tutti ci avvolge, ne ha mostrato fin troppo bene i vizi e i limiti.

Seconda tappa: ottobre 2010. Fra i critici più eminenti del postmoderno in Italia si segnala Maurizio Ferraris, con le cui posizioni La Porta si mostra particolarmente simpatetico. Allievo di Vattimo, autore di una importante Storia dell’ermeneutica (1988) tradotta in più lingue, Ferraris, a partire dall’inizio degli anni Novanta, matura una svolta radicale del suo pensiero: uccide metaforicamente il proprio Padre-Maestro e va elaborando una sua autonoma prospettiva realista o neo-realista.

Richard Rorty

Un anno fa ho avuto l’onore di essere invitato a Napoli da Ferraris ad un seminario in cui ha presentato a un ristretto numero di studiosi la sua critica del postmoderno. L’ho trovato molto persuasiva. In modo inconsueto per un filosofo, Ferraris ha proiettato delle diapositive illustrative. In una c’era una foto di Rorty accompagnata da tre icastiche affermazioni, che cito a mente: 1) la verità e la realtà sono concetti violenti, dispotici, vanno eliminati; 2) bisogna essere “teorici ironici”, cioè non prendersi sul serio e non credere fino in fondo a se stessi e a quanto si dice; 3) bisogna promuovere una “rivoluzione desiderante”. Dopo aver commentato, Ferraris ha cambiato diapositiva: nella successiva le tre frasi restavano le stesse, ma al posto di Rorty compariva la foto di Berlusconi. Più chiaro di così?
Terza tappa: 2009. I problemi per me sorgono quando Ferraris illustra la pars construens del suo pensiero, quando spiega in che senso e in che modo egli vuole ristabilire l’idea di realtà e il concetto della verità. Qui il riferimento d’obbligo è al suo libro di maggior impegno fra gli ultimi pubblicati, quello con intento sistematico: Documentalità, uscito da Laterza nel 2009. In esso Ferraris ci offre un “catalogo del mondo”, che per lui è un mondo di oggetti, fatti bruti, tutti ben distinti e separati: oggetti naturali, ideali, sociali, secondo la sua classificazione. Il rapporto fra oggetti e mondo è quello fra contenuto e contenitore. Con un gusto oserei dire quasi snobistico, egli butta al mare tutto il pensiero moderno successivo a Kant, recuperando un concetto di “natura” alquanto astratto: fra i razionalisti cartesiani da una parte e i teorici della decostruzione e del postmoderno dall’altra è come se, per lui, non ci fosse proprio nulla. La sua prospettiva è quella che in linguaggio tecnico si chiama “realismo ingenuo” in quanto non tiene conto della svolta che la filosofia ha subìto con la “rivoluzione copernicana” di Kant: quella “svolta trascendentale” che ci porta ad affermare che non esiste o non ci è dato attingere una “realtà in sé” con la ragione, perché la realtà è sempre mediata nella conoscenza dai nostri schemi concettuali. In questo senso si parla di “presupposto oggettivante” come di un pre-giudizio che non regge ad una attenta riflessione.
Immediate conseguenze del modo di pensare di Ferraris sono due: la logica può essere solo quella formale delle scienze; la verità non è altro che la vecchia adaequatio rei et intellecctus, quella “corrispondenza” perfetta che in San Tommaso aveva correttamente un garante di ultima istanza nel Padreterno.
Ricapitolando: per Ferraris la realtà e la verità esistono, ma come mondo di oggetti già dato e come “esattezza” di tipo matematico del discorso. Non come storia e come articolazione razionale di un discorso su di essa. Ulteriore e non inessenziale conseguenza: il mondo dei sentimenti, delle passioni, dell’immaginazione, dell’intuizione, non può avere nessuna virtù conoscitiva.

Maurizio Ferraris

Una conclusione. Ecco allora chiarito il motivo della mia insoddisfazione. Il dibattito fra neorealisti e postmoderni tiene fuori tutta la filosofia classica tedesca. E tiene in conseguenza fuori anche la tradizione italiana che in modo sempre critico e autonomo su quelle basi si era fondata. È un problema solo teorico? Non credo. Come Ferraris ci ha mostrato con il gioco delle diapositive, ogni scelta teorica ha un correlato pratico. Il pensiero non è mai innocente.
L’autore che non è assolutamente tenuto presente o quanto meno non è preso sul serio in tutta la sua forza e vigore speculativo è Hegel, il pensatore che ci ha mostrato come la realtà e la verità esistono, ma anche come non siano delle cose pallide ed esangui, degli oggetti separati che stanno lì fuori ad aspettare che noi li incrociamo e “rispecchiamo”. Prima di tutto la realtà è un processo e non un risultato. Poi è un insieme interrelato di forze concrete, reali, storiche, in tensione dialettica tra loro. “Il vero è l’intero” e questo intero è “totalità organica”: non un semplice aggregato di oggetti, ma un insieme di elementi storici in progresso e interdipendenti. Confacente alla realtà è una logica che non si limiti a separare astrattamente gli elementi, ma sappia vederne anche le intercorrelazioni reciproche: che sia confacente nel pensiero al movimento dialettico o storico del reale. In definitiva, è la dialettica il vero rimosso di questa polemica e anche del pensiero italiano degli ultimi anni. È come se, a un certo punto, si sia voluto buttare via con l’acqua sporca dell’utopismo marxista anche il bambino del suo canone di interpretazione storica.

Benedetto Croce

Ovviamente da integrare con altri canoni, come ci ha insegnato Croce, ma comunque assolutamente da non ignorare. Anche perché la dialettica ci insegna a tenere aperto uno spazio di comunicazione fra prospettive e idee diverse, ad avere consapevolezza che anche chi consideriamo in “errore” può essere portatore di qualche elemento di “verità”, a non opporci in modo astratto a chi la pensa diversamente da noi ma a cercare di mediare e integrare le loro posizioni nelle nostre perché la verità esiste ma non è monopolio di nessuno.
Lo stesso Croce, il punto più alto della nostra tradizione filosofica e storicistica, mostrò come sia in Hegel sia in Marx ci fosse un momento in cui la dialettica si contraddiceva e si chiudeva: lo Spirito assoluto nel primo, la futura società comunista nel secondo. Ma le contraddizioni dei grandi dovrebbero essere smascherate, non dovrebbero servire per occultare le loro conquiste.
E come dimenticare che ci fu anche chi come Guido De Ruggiero, a mio avviso non a torto, individuò in Hegel, nella sua idea di conflittualità produttiva emergente dall’analisi del rapporto servo-padrone, addirittura un padre del liberalismo? E finì per dedicargli un capitolo centrale della sua Storia del liberalismo europeo, un volume che, a dimostrazione del carattere cosmopolita di quella nostra cultura, fu subito tradotto dal grande “crociano” di Oxford Collingwood per i tipi della Cambridge University Press, avendo una diffusione enorme e comparendo per molto tempo nelle bibliografie sul tema. Lo stesso marxismo italiano, pur con tutti i suoi limiti, grazie soprattutto a Gramsci, si era costruito su una solida base storicistica, in una linea di continuità di pensiero che da Machiavelli e De Sanctis giungeva a Labriola e Croce.

Siamo sicuri che tutto questo sia un passato da dimenticare? Come non vederne la solidità e il rigore di pensiero e azione? A mio modo di vedere non si può cambiare, né andare incontro al futuro, se non ci si confronta con questa nostra identità, se non si ha il coraggio di superarla anche ma comunque restando alla sua altezza.

Pensiero debole o nuovo realismo? Rassegna stampa

La querelle tra pensiero debole, postmoderno e nuovo realismo, che i lettori del blog hanno seguito via via che si sviluppava, è riecheggiata sulle pagine culturali di diversi quotidiani nelle ultime settimane. La discussione ha trovato molto spazio anche sui blog e nei forum; ma il punto di partenza rimane il dibattito uscito sui giornali cartacei e sui periodici, che qui ricostruiamo in ordine cronologico (e i cui testi sono reperibili su questo stesso blog). Segnalateci gli eventuali articoli che ci siano sfuggiti in questa rassegna.

Ultimo aggiornamento: 6 dicembre 2011.

- Il 19 luglio, MicroMega pubblica un numero del suo "Almanacco di filosofia", con una sezione intitolata "verità/Verità", che ha in qualche modo aperto il dibattito. L'indice del numero è disponibile qui.
- L'8 agosto, Maurizio Ferraris pubblica su Repubblica un articolo sul "ritorno del pensiero forte", che si può leggere qui.
- Il 19 agosto, su Repubblica esce il dialogo tra Gianni Vattimo e Maurizio Ferraris, su pensiero debole e nuovo realismo. Lo potete trovare qui
- Il 22 agosto, Giuliano Ferrara interviene dalle colonne del Foglio. Lo trovate qui.
- Nei giorni successivi, il dibattito prosegue con interventi on-line, parzialmente ripresi da Repubblica, il 26 agosto. Gli articoli (Raffaella De Santis, Pierfranco Pellizzetti, Pier Aldo Rovatti, Paolo Flores d'Arcais, Paolo Legrenzi, Peta Bojanic) sono tutti reperibili qui.
- Accanto all'inserto "Domenica" del Sole-24Ore, che pubblica un breve intervento il 28 agosto (per ora non disponibile on-line), sul Riformista del 30 agosto esce un articolo di Corrado Ocone, che riprende i recenti dibattiti americani sul postmoderno. Il testo di Ocone si può leggere qui.
- Il giorno dopo, 31 agosto, Emanuele Severino risponde alla querelle Vattimo-Ferraris dalle colonne del Corriere. Il testo dell'articolo è reperibile qui.
- Nei giorni successivi intervengono Riccardo Chiaberge sul Fatto Quotidiano (2 settembre, reperibile qui) e Vittorio Possenti su Avvenire (con un articolo pubblicato il 3 settembre, reperibile qui).
- Sempre il 3 settembre, su Repubblica esce l'articolo di Edward Docx che ha animato il dibattito americano sul postmoderno, di cui parlava Ocone sul Riformista. Il testo di Docx è reperibile qui.
- Il 7 settembre è Bruno Gravagnuolo a intervenire, su L'Unità. L'articolo è reperibile qui.
- Il 9 settembre, ancora sul Fatto Quotidiano, interviene Nicla Vassallo. Il suo testo si può leggere qui.
- Il 10 settembre, Eros Barone commenta il dibattito su VareseNews. La sua lettera è disponibile qui.
- L'11 settembre compare l'articolo di Roberto Gramiccia su Liberazione. Qui il suo articolo. e qui un nuovo contributo a sua firma, pubblicato il 18 settembre.
- Il 12 settembre interviene Alain Finkielkraut, intervistato da La Stampa. Il testo è disponibile qui.
- Intervistato, Maurizio Ferraris torna sul pensiero debole il 16 settembre, su Left-Avvenimenti. Il testo è reperibile qui.
- Il 18 settembre Liberazione pubblica gli interventi di Francesca Rigotti e Roberto Gramiccia. I testi sono disponibili qui.
- Sul Manifesto del 22 settembre compare l'intervento di Guido Traversa. Qui l'articolo.
- Ancora il 22 settembre, Simona Maggiorelli intervista Salvatore Veca su Left-Avvenimenti. Qui troverete il testo.
- Il 27 settembre è la volta di Carlo Rovelli, su Repubblica. L'articolo è reperibile qui.
- Il 5 ottobre L'Unità pubblica un articolo di Mico Capasso; il testo è disponibile qui.
- Costantino Esposito torna sul tema in un articolo su L'Avvenire, il 20 ottobre. Il testo è reperibile qui
- Il 3 novembre, Giacomo Pisani interviene su GoBari. Il testo è disponibile qui.
- Il 7 novembre, Corrado Ocone intervista Gianni Vattimo sul Mattino. Ecco il dialogo completo.
- Nel mese di novembre, arriva anche in edicola il nuovo numero di Alfabeta2, che raccoglie altri interventi sul tema. Qui c'è l'indice completo del fascicolo.
- Il 3 dicembre, Corrado Ocone interviene su Il Riformista. L'articolo è disponibile qui.

Segnaliamo che la discussione è proseguita anche sul sito di MicroMega, con interventi (cliccate sui nomi per leggerli) di Franca D'Agostini (28 agosto), Adriano Ardovino (28 agosto), Mauro Barberis (30 agosto), Michele Martelli (1 settembre) Francesco Saverio Trincia (5 settembre), Emilio Carnevali (5 settembre), Carlo Augusto Viano (6 settembre), Edoardo Ferrario (7 settembre), Sossio Giametta (8 settembre), Giovanni Perazzoli (20 settembre), Gianni Mula (4 ottobre), Nicola Acocella (11 ottobre).

Richiamiamo anche, infine, altri articoli pubblicati (solo) sul web: quello di Simone Regazzoni, su Affari Italiani il 2 settembre; quello di Gianfranco Marrone su Doppiozero, 12 settembre; quello di Corrado Ocone, uscito su QdR il 13 settembre; un intervento di Carlo Sini, raccontato da Affari Italiani, il 3 ottobre; quello di Francesca Recchia Luciani, pubblicato su Santippe il 22 ottobre.

martedì 8 novembre 2011

Dibattito tra pensiero debole e new realism: intervista a Gianni Vattimo


Il Mattino, lunedì 7 novembre 2011


Vattimo: “Il postmoderno? Sconfitto ma non fallito”
di Corrado Ocone

Si discute molto in queste settimane sul postmoderno, anche perché una mostra londinese (è al Royal and Albert Museum) ne ha decretato la fine. Ma cosa è il postmoderno? Quale è stato il tempo del suo dominio? Esprimeva un’esigenza ancora viva o appartiene inesorabilmente a un tempo che non è più? Per affrontare queste e altre questioni, un colloquio con Gianni Vattimo, che del movimento è stato uno dei più importanti rappresentanti a livello mondiale, è quanto mai opportuno. A maggior ragione considerando il fatto che Garzanti proprio in questi giorni manda in libreria una nuova edizione de La fine della modernità (192 pagine, 11 euro), l’opera in cui Vattimo nel 1985 illustrava la sua versione di postmoderno: il cosiddetto “pensiero debole” 

“Di postmoderno in verità - osserva Vattimo - si cominciò a parlare in un vasto ambito, dalle arti alla società, alla filosofia, da quando nel 1979 uscì un fortunato pamphlet di Lyotard intitolato La condition postmoderne.”

Quale era la tesi?
“Quello di Lyotard era un rapporto sul sapere contemporaneo. In esso si prendeva atto della fine delle metanarrazioni, cioè della crisi delle dottrine che avevano cercato di affermare una visione unitaria della realtà, soprattutto l’illuminismo, l’idealismo e il marxismo. Di fronte alla frammentazione e alla pluralità dei linguaggi e dei saperi che ne scaturiva il suo atteggiamento era positivo, non di chiusura.”

E lei accettò subito questa impostazione
“Non solo. In linea con le mie ricerche cercai di dare uno sfondo filosofico, o meglio storico-ontologico, a questa situazione, soprattutto mostrando come la mia interpretazione di Nietzsche e Heidegger fosse solidale con il nuovo orizzonte. Già nel ‘36 Heidegger aveva definito il nostro tempo 'l’epoca delle immagini del mondo'. E altrettanto nota è l’affermazione nietzschiana che “non esistono fatti, ma solo interpretazioni.”

Qualcuno come Maurizio Ferraris, che è stato suo allievo ma poi ha elaborato una visione neorealista, osserva che senza ancoraggio ad in’idea forte di realtà e verità, anche in politica, si può dire ogni cosa senza darne conto a nessuno. Cosa risponde?
“Rivoltando l’argomento. Se io credo che la realtà sia scritta da sempre in un linguaggio determinato e che nostro compito sia solo quello di individuare la grammatica del mondo e analizzare i linguaggi quotidiani per chiarificarli e riportarli all’ordine dato, non posso pormi nemmeno il problema di cambiare la realtà e umanizzarla. Devo accettarla e basta.”

Ammetterà però che, lungi dal verificarsi una crescita delle possibilità di emancipazione e degli spazi di libertà, in questi anni si sia assistito al trionfo selvaggio del neoliberismo?
“In effetti, noi ci eravamo illusi che fossero finite le metanarrazioni, ma non avevamo considerato che quella basata sugli interessi proprietari, e quindi sul consumismo e l’omologazione dei mercati,  sarebbe sopravvissuta e avrebbe trovato il campo libero per dominare in modo assoluto. Anche se, da questo punto di vista, devo dire che già un critico molto fine come Jameson, che aveva definito il postmoderno la cultura del tardo capitalismo, ci aveva avvertito.”

Anche Habermas aveva criticato il postmoderno e lo avevo visto come una sorta di resa della ragione al presente, riproponendo il “progetto incompiuto della modernità”
“Con un rischio però, di costruire una nuova metafisica o metanarrazione, quella dei diritti umani. I quali, come molti casi concreti di giustizia internazionale o di cosiddetti interventi umanitari stanno a dimostrarci, può diventare a sua volta causa di nuove discriminazioni, neocolonialismo e imperialismo occidentale.”

Crede oggi che il postmoderno sia fallito?
“No, non lo credo affatto: semplicemente non è riuscito, non ha funzionato. La liberazione della comunicazione che auspicavamo, ad esempio, è stata ostacolata. La liberazione è qualcosa che si può fare, anche se c’è qualcosa che resiste.”

Oggi lei si è riavvicinato a Marx e al comunismo? Non è un ritorno ad una concezione forte?
“Il mio è un rivoluzionarismo anarchico. Non credo affatto nel comunismo interpretato in modo rigido come una concezione generale del corso storico, come una meta da realizzare che un giorno ci renderà tutti felici. La riconciliazione non ci sarà mai, ma ad essa bisogna tendere. Credo in una sorta di rivoluzione permanente.”

Nella polemica fra neorealisti e postmodernisti mi ha impressionato il fatto che sia lei sia Ferraris avete saltato del tutto la tradizione dell’idealismo: come se questo momento del pensiero non ci fosse mai stato.
“Da parte mia non c’è stato dolo. Anzi le dirò di più: oggi mi sento particolarmente vicino alle posizioni di Benedetto Croce. D’altronde, l’ho detto più volte anche a proposito dell’affermazione “non ci sono fatti ma solo interpretazioni”: per capirne il senso bisogna pensare allo ‘spirito oggettivo’ di Hegel. Quella che chiamiamo realtà non è affatto qualcosa di inesistente, ma è la trama delle culture, delle tradizioni e dei sistemi di pensiero e di linguaggio ereditate. Una trama frutto delle azioni dei tanti individui che ci hanno preceduto e che cambierà ulteriormente con le nostre nuove azioni. Non era stato forse il filosofo vostro concittadino a dire che lo spirito assoluto era ciò che è morto, mentre quello oggettivo era ciò che rimaneva vivo in Hegel?”