giovedì 30 giugno 2011

Tav: Lettera aperta di Gianni Vattimo al Commissario europeo ai Trasporti e al Presidente della Commissione europea


Lettera aperta

al Commissario europeo ai Trasporti, Sim Kallas

al Presidente della Commissione europea, Manuel Barroso

Egregi Colleghi, Vi ringrazio anticipatamente per l'attenzione che vorrete riservare a questa lettera, che vi scrivo nella mia qualità di deputato eletto nella circoscrizione Italia Nord Ovest. Le vicende della Linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione vi sono ovviamente già note. La costruzione di questa linea, oltre a investimenti dei Paesi interessati, comporta anche un notevole esborso di denaro da parte dell'Unione Europea. La concessione di tale contributo, nei vari accordi che si sono succeduti negli anni, era condizionata dal rispetto di varie clausole, tra le quali l'accordo con le comunità locali toccate dal progetto. Questo accordo, nonostante tutti i tentativi delle autorità e forze politiche italiane decise ad appoggiare la realizzazione, non c'è mai stato. Per aggirare l'ostacolo, governo italiano e governo regionale hanno escluso dai vari tavoli di contrattazione tutti i sindaci e rappresentanti locali contrari al progetto, violando così una delle condizioni esplicitamente previste negli accordi. In reazione a questa esclusione, un gran numero di cittadini della Val di Susa - che dovrebbe pagare i massimi costi per l'impresa (da dieci a vent'anni di scavi con rimozione di materiali ricchi di amianto, in zone con forte vocazione turistica, inquinamento di falde acquifere, distruzione di boschi e terreni agricoli, inquinamento da rumore per citare solo i danni più prevedibili e documentati) - hanno deciso di ricorrere a forme di resistenza pacifica e passiva, acquistando a proprie spese parte dei terreni su cui dovrebbe realizzarsi l'opera e, da vari mesi, occupando le zone destinate agli scavi. Sottolineo: non c'è mai stata e non c'è in Val di Susa una significativa parte della popolazione favorevole al progetto. Le varie trasformazioni, e le relative lungaggini e proroghe di termini che esso ha già conosciuto (sulla cui legalità sussistono forti dubbi) sono appunto dovute alla resistenza della maggioranza assoluta della popolazione locale. Una resistenza alimentata da un motivo elementare ma decisivo: le varie commissioni (come l'Osservatorio istituito da governo nazionale e regione) non hanno mai preso in esame seriamente le ragioni che militano contro la realizzazione della ferrovia, ragioni documentate da ponderosi studi di esperti autorevoli; pretendendo sempre soltanto che i cittadini fornissero suggerimenti sul "come" realizzare l'impresa, presentata, con argomenti puramente ideologici, come necessaria al progresso, sviluppo, agevolazione dei trasporti. Non avendo potuto convincere i cittadini della bontà del progetto, governo nazionale e locale hanno fatto ricorso da ultimo a una imponente operazione di militarizzazione della zona destinata agli scavi. Qualche giorno fa duemila tra agenti di polizia, carabinieri, guardie di finanza, hanno proceduto allo sgombero delle zone occupate dai cittadini che hanno opposto resistenza passiva e pacifica. Lo scopo di questa azione militare era quello di garantire la possibilità di avviare il lavoro di scavo di un primo tunnel entro il 30 giugno, data stabilita perché l'Unione europea erogasse i circa 600 miliardi di euro promessi. Anche il capo del governo italiano ha dichiarato esplicitamente che bisognava avviare i lavori a ogni costo per non perdere i sussidi europei. Imprese e lobby di vario genere (conoscete, egregi Colleghi, la storia delle grandi opere in Italia) cercano in tutti i modi di non lasciarsi sfuggire questa opportunità di guadagni.

Poiché il 30 giugno è ormai vicino, ho chiesto al Commissario Kallas un incontro urgente per illustrargli questa situazione. Con lo scopo di mettere in guardia l'Unione dal rischio di erogare imprudentemente fondi che, sia per l'opposizione legittima delle comunità locali, sia per l'evidente e documentata irrazionalità dell'opera, sono destinati a permettere, nel migliore dei casi, solo l'inizio di un lavoro che sembra fatalmente condannato fallire, dopo anni di rovine ambientali e di spreco di risorse e, non da ultimo, di discredito della democrazia e della stessa Unione.

Sono a vostra disposizione per ogni eventuale chiarimento ulteriore.

Gianni Vattimo

martedì 28 giugno 2011

“Questo è il terreno su cui la Chiesa esercita il suo potere”


Il governatore dello Stato di New York Andrew Cuomo, cattolico, ha firmato la legge che riconosce i matrimoni omosessuali
“Questo è il terreno su cui la Chiesa esercita il suo potere”
di Maurizio Assalto

La Stampa, 26.6.11

Professor Vattimo, ha saputo? Il governatore dello Stato di New York Andrew Cuomo, cattolico, ha firmato la legge che riconosce i matrimoni omosessuali. Invece noi... «Appunto, è la prima cosa che mi viene in mente: e noi? Noi per un bel po’ non avremo non solo i matrimoni gay, ma nemmeno i Dico».
È l’America che si conferma più avanti del Vecchio Continente?
«La differenza è soprattutto tra America e Italia. In Europa esistono tanti istituti simili al matrimonio omosessuale, mentre da noi non se ne può neppure parlare. Mi sembra la dimostrazione del fatto che in Italia c’è una separazione tra politica politichese e opinione pubblica corrente, basti pensare a tanti sondaggi dove anche i cattolici praticanti sono largamente favorevoli al riconoscimento delle unioni civili gay. E mi fa rabbia che la politica ufficiale abbia così paura di dispiacere al Papa da fregarsene di dispiacere ai cattolici. Purtroppo l’etica familiare e sessuale resta il terreno principale su cui la Chiesa esercita il suo potere, e su questo non cede».
Forse però adesso qualche cosa potrebbe cambiare. Noi siamo sempre stati americanofili, in particolare vicini a New York. «Ma nooo! Non ci credo. Credo che quello di New York sia un buon esempio, ma non avrà nessuna influenza. Noi, in quanto filoamericani, continuiamo a bombardare la Libia con la Nato, ma quanto al resto... Piuttosto, l’Italia dovrebbe guardare non a New York si sa, New York è la città del peccato -, ma ad altri Stati americani più arretrati come lo Iowa, che pure ha approvato i matrimoni gay: se li ammette anche uno Stato così poco glamour , allora potremmo ricavarne un buon esempio».
Pensa di fare qualcosa come parlamentare europeo?
«Non ci avevo ancora pensato. Appena tornerò a Strasburgo, a inizio luglio, cercherò di farmi sentire con i colleghi della commissione Libertà, di cui sono membro supplente. Ma ho l’impressione che il Parlamento europeo sia poco sensibile, a dimostrazione che la lobby gay non è così forte come dice Buttiglione».
Sembra sfiduciato. Non sarà che a questa legge non tiene poi troppo neppure lei?
«Sull’importanza della legge non ho dubbi, sul fatto che molti gay la attendano con ansia invece sì. Immagina cosa direbbe Pasolini? Probabilmente non ne sarebbe entusiasta, lui che era così geloso della sua diversità. E tutto sommato io stesso non so che cosa farei. Anche perché ormai non trovo più, posso solo adottare dei bambini remotamente...».

Italy: Vatican Colonialism and Cowardice of Politicians

Interviewed by Repubblica, commenting on New York’s legalization of same-sex marriage, philosopher Gianni Vattimo, MEP, believer, gay activist, was very clear: “Italy is the problem for Europe. It’s not the fault of the Italians, but it’s because of Vatican colonialism and the cowardice of politicians.”

Vattimo attacked the Catholic Church also for its claim that its doctrine is “natural law”, not only about same-sex unions, but also about bioethics, end of life, divorce.

According to the Italian philosopher, despite the majority of Italians support human rights, politicians prefer not to lose the vote and influence of bishops and parish priests.

UAAR | Stefano Marullo | 27th June 2011

Nozze gay: Vattimo, i politici italiani temono il Vaticano

Nozze gay: Vattimo, i politici italiani temono il Vaticano

'Il problema dell'Europa si chiama Italia, non per colpa degli italiani, ma per la colonizzazione portata avanti dal Vaticano e per la codardia dei politici'. Intervistato dalla Repubblica e dalla Stampa il filosofo Gianni Vattimo, eurodeputato dell'Idv, esprime dubbi sul fatto che ci possa essere una svolta in Italia nel riconoscimento delle coppie gay. 'Il problema è l'intreccio tra l'arretratezza politica e una Chiesa che considera i suoi principi come principi di diritto naturale, non solo sulle unioni omosessuali, ma sulla bioetica, sul fine vita, sul divorzio. Principi non negoziabili, anche se la Chiesa si dichiara democratica', spiega Vattimo. In questo contesto 'il politico, pur di non perdere un voto del vescovo o del parroco, preferisce evitare di affrontare la questione, anche se nel Paese la posizione è diversa. In Italia c'è una separazione tra politica politichese e opinione pubblica corrente, basti pensare a tanti sondaggi dove anche i cattolici praticanti sono largamente favorevoli al riconoscimento delle unioni civili gay', prosegue Vattimo. 'Mi fa rabbia che la politica ufficiale abbia così paura di dispiacere al papa da fregarsene di dispiacere ai cattolici. Purtroppo - conclude - l'etica familiare e sessuale resta il terreno principale su cui la Chiesa esercita il suo potere, e su questo non cede'.

http://www.imgpress.com/notizia.asp?idnotizia=61416&idSezione=1

domenica 26 giugno 2011

"Anche in Italia ci vorrebbe una svolta ma i politici hanno paura del Vaticano"

"Anche in Italia ci vorrebbe una svolta ma i politici hanno paura del Vaticano"

La Repubblica, 26 giugno 2011. Intervista di Diego Longhin

TORINO - «Il problema dell'Europa si chiama Italia, non per colpa degli italiani, ma per la colonizzazione portata avanti dal Vaticano e per la codardia dei politici». Il professor Gianni Vattimo, filosofo ed eurodeputato dell'Italia dei Valori, nutre dubbi sul fatto che ci possa essere una svolta in Italia nel riconoscimento delle coppie gay.

Si continuerà a far polemiche su una pubblicità Ikea e sullo slogan "siamo aperti a tutti i tipi di famiglia"?
«Il problema è l'intreccio tra l'arretratezza politica e una Chiesa che considera i suoi principi come principi di diritto naturale. Non solo sulle unioni omosessuali, ma sulla bioetica, sul finevita, sul divorzio. Principi non negoziabili, anche se la Chiesa si dichiara democratica. Il politico, pur di non perdere un voto del vescovo o del parroco, preferisce evitare di affrontare la questione, anche se nel Paese la posizione è diversa».
La maggioranza è a favore delle unioni gay?
«Basta guardare i sondaggi. Non vogliamo usare la parola matrimonio perché infastidisce. Va bene. Sarebbe importante un riconoscimento legale. Anche i cattolici sono d'accordo. Anche io mi considero un cristiano, non tanto praticante perché la Chiesa pensa che sia un bandito...».
La maggioranza politica non corrisponde a quella reale?
«No, ma è una cosa che accade sempre più spesso. Si vincono i referendum, ma poi si perde in parlamento».
Tra i politici italiani vede un Cuomo o un Obama che possa infrangere la codardia?
«Difficile, non vedo nessuno».
L'ex primo cittadino di Torino, Chiamparino, aveva partecipato alle nozze tra due lesbiche per riportare l´attenzione sul tema. Una spinta da parte dei sindaci avrebbe un effetto?
«Chiamparino ha fatto bene e si è dimostrato aperto. Ma quanti sindaci sono disposti a seguire il suo esempio? Pochi».
L'oncologo Veronesi ha esaltato l'amore gay come scelta consapevole, più evoluta del rapporto etero. È d'accordo?
«Alcune argomentazioni hanno un loro senso. Veronesi dice che nell'amore gay si cerca la vicinanza di pensiero e sensibilità con l'altro, mentre l'amore etero è strumentale alla procreazione. In una battuta sfido a trovare un maschio normale che voglia assomigliare alla sua signora. Poi si possono avere figli con tecniche diverse, senza ricorrere a strumenti biologici. Attenzione però a non esagerare. E lo dico come gay. Non c'è una superiorità nell´amore gay rispetto all'amore etero».
Lei si sposerebbe?
«Sono per una legalizzazione. Non è un problema di matrimonio nel senso classico. Pasolini oggi sarebbe a favore delle nozze? Ho dei dubbi perché tra i gay prevale la difesa della propria diversità. Altra cosa è un riconoscimento legale dell´unione, che varrebbe per le coppie omosessuali come per quelle etero».

sabato 25 giugno 2011

La construcción de la verdad

La construcción de la verdad

“Entre uno que miente por el amor del proletariado y otro que miente por amor a las putas, como Berlusconi, hago una diferencia”, afirma en este diálogo el filósofo italiano, para quien, de la religión a la política, “decimos que encontramos la verdad cuando nos pusimos de acuerdo”. De paso por Buenos Aires, Vattimo analiza las ideas centrales de sus dos últimos libros y reflexiona sobre la relación entre eso que llamamos verdad y el poder.

POR Hector Pavon - hpavon@clarin.com

Ñ; Clarín.com

Gianni Vattimo va en auto a Ezeiza y lleva una valija que prácticamente no abrió. Estuvo sólo unas horas en Buenos Aires. Las cenizas volcánicas le impidieron llegar a tiempo para cumplir con su agenda y estuvo detenido en el tiempo en Río de Janeiro. Apenas llegó a Buenos Aires, compartió un panel con Ernesto Laclau, Jorge Alemán y Jorge Coscia en la Casa del Bicentenario, dentro del ciclo “Debates y combates “ de la Secretaría de Cultura de la Nación.

En su bolso de mano trae dos libros recientes de su autoría: el diálogo con el antropólogo francés René Girard ¿Verdad o fe débil? y Adiós a la verdad .

Dos libros que interrogan lo verídico y lo cruzan con la vida y el mundo de hoy.

En el camino de retorno, Vattimo lleva en sus manos un puñado de papeles que componen la ponencia que leerá en Londres. Tema: la plegaria. De ella habla al referirse a la verdad en un corte transversal con la filosofía, la política, la religión y la ciencia. Mientras recorremos la geografía común internacional en la ruta hacia el aeropuerto, Vattimo brinda un relato verdadero. Una interpretación creíble.

En su libro “Adiós a la verdad” dice que la cultura actual se ha despedido de la verdad. ¿Es realmente una mala noticia?

Yo sostengo que hay algo bueno en el sentido de que, si llamamos verdad a la intuición inmediata de los principios primeros de los que todo depende, el hecho de no tener más la ilusión de lo que es la verdad, es casi como decir adiós a la violencia. ¿Me comprende? Casi todas las violencias históricas más graves no se limitan a ser reacciones emotivas de uno. Hitler no fue alguien que odiaba simplemente a los judíos. Encontró una teoría general que estableció: necesitamos matar a los judíos. Lo que significa que en la violencia histórica siempre hay un plus de carga teórica. Empezando por esa frase que se le atribuye a Aristóteles: soy amigo de Platón pero soy más amigo de la verdad .

Esa es la historia de la verdad. Eso es lo que la Iglesia siempre dijo cuando quemaba a los herejes durante la época de la Inquisición: no tenemos nada en su contra pero antes que violar el derecho o la verdad, matémoslos. Podemos imaginar que Aristóteles habría podido decir: desde el momento en que Platón enuncia errores yo lo discuto, si después continúa trato de acallarlo y si sigue, quizá por el honor de la verdad, lo mato. Hoy ocurre que quien produce violencia se justifica con una razón metafísica. Por ejemplo el bombardeo sobre Irak; todas las guerras llamadas humanitarias no son guerras normales. Es como si uno dijera: hay un pedazo de tierra, que nos disputamos, hagamos una guerra para quedárnoslo. No. Decimos que los otros son criminales y nosotros los matamos, los ajusticiamos, los metemos en la cárcel. Incluso en la política mundial hoy no hay nadie que diga: esos son nuestros enemigos porque tienen el petróleo que nos sirve. Para bombardear Libia se acusa al gobierno de violar los derechos humanos. Sí, pero se violan en muchísimas otras partes del mundo. ¿Por qué bombardean sólo ahí? La ideología de la criminalización del disenso es la que triunfa en la globalización. Y ése es sin duda uno de los motores del discurso sobre la verdad. El otro es que, teniendo en cuenta estos hechos objetivos políticos, sociales, de esas experiencias colectivas, la filosofía asumió que la verdad definitiva, esa que pretende ser la evidencia primera y última, es sólo un acto de fuerza hasta cierto punto. Se establece en base a un poder, por ejemplo con el poner fin a las preguntas de los niños. ¿Quién creó a Dios? ¿Quién creó el mundo? Llega un momento en que el padre le dice: Basta, no hagas más preguntas. Ese es el concepto de los primeros principios. Se puede preguntar hasta cierto punto. ¿Por qué? Porque el resto es natural, es así y no se puede discutir más.

Pero, ¿quién es el que decide que no se puede discutir más?

Eso nunca es un acto teórico; es un acto de fuerza. Es decir, la verdad objetiva pertenece a quien ostenta el poder, fundamentalmente. Siempre he compartido la idea de metafísica de Heidegger. Es decir, la idea de que hay una verdad objetiva que todos debemos reconocer y que no tiene en cuenta la idea, en cambio, de que nosotros siempre interpretamos. Siempre somos sujetos interesados frente a algo que ya es un evento, no es la estructura objetiva del ser. Son sucesos históricos, otras personas que nos dicen algo que nosotros podemos aceptar o rechazar. Esa es la interpretación. Ahora, Heidegger siempre criticó la metafísica pensándola así pero no era claramente consciente de que lo que él estaba criticando era la autoridad. Descartes mismo, cuando dice “pienso luego existo” realiza un acto de conciencia de un principio absoluto. Pero en definitiva, se lo ve perfectamente por la continuación del discurso. ¿Por qué debo pensar que la evidencia de conciencia sea un signo de verdad? Porque está Dios que no me engaña. De nuevo hay un principio de poder que garantiza que la verdad de la evidencia de una proposición que yo pienso es signo de verdad, pero no por sí misma. Justamente porque hay una autoridad que la garantiza.

Esa autoridad, ¿está vigente?

El mundo posmoderno entró en crisis porque ya no hay una autoridad central. La filosofía europea avanzó como filosofía del progreso, de la historia, de la verdadera humanidad mientras existió el eurocentrismo, pero cuando los pueblos que nosotros llamábamos primitivos se rebelaron y nos impusieron dejar de llamarlos así, fue muy importante el papel de Lévi-Strauss que utilizó la lingüística de Saussure para describir las culturas como organismos de signos, de normas, etcétera, cada uno con su propia legitimidad. Si la cultura de los llamados salvajes del Amazonas pudo durar tanto es porque rige y tiene los mismos derechos que la nuestra. Las culturas no están todas sometidas a una sola. Terminó la época del universalismo general del pensamiento europeo. Y eso es lo que Nietzsche describe como el nihilismo, la muerte de Dios, etcétera. Ya no se puede hablar de la verdad, sino de las verdades.

¿Por eso concluye que la verdad absoluta es más un peligro que un valor?

Decididamente sí, en el sentido de que nunca he visto a un nihilista haciendo una guerra por la religión, pero he visto a muchas iglesias o incluso personas con principios metafísicos, hacer guerras, Bush, el papa, los papas del Renacimiento, las Cruzadas, todo, siempre se hizo en nombre de la verdad. Y en nombre de Dios lo cual es todavía peor.

Tenemos una verdad absoluta y otra interpretada. En ambos casos es algo peligroso porque surge la dominación como consecuencia directa de la imposición de las dos verdades...

Primero, la verdad absoluta es, sin ninguna duda, falsa porque no quiere reconocer que es verdad interpretada. Luego, cuando alguien dice “te estoy diciendo la verdad”, tenés que prestar atención de no creerle. Si alguien te dice: Y o lo pienso de esta forma, puede convertirse en un problema de negociar, en cambio, si te dice: Yo lo pienso así y es tu jefe, es difícil que negocies; si él te dice “yo lo veo así”, tenés que estar atento. Siempre se puede disentir, pero depende de la relación de poder que tengas. Ese discurso del jefe y la verdad, la interpretación y el dominio, siempre es un problema referido a si podemos prescindir de la verdad absoluta. Hay un dicho italiano para bromear sobre quienes le temen al relativismo: “Eh, señora mía, ya no hay más religión”. Lo que quiere decir, ya no hay verdad absoluta. ¿Cómo hacemos? Para vivir en sociedad, necesitamos un acuerdo. Y mejor que sea una verdad democrática que una autoritaria. Ese es el verdadero problema. En el Leviatán, Hobbes dice que salimos del estado de guerra de todos contra todos atribuyendo el poder a un soberano. Ese soberano hoy es elegido a partir de un acuerdo sobre una Constitución. O sea que siempre hay un momento autoritario en la existencia, incluso en el nacimiento. Nadie me preguntó si quería nacer o no, pero nací, ahora debo hacer de la necesidad virtud, como se dice. Y por lo tanto es necesario imaginar en cierto modo esa situación: que ninguno de nosotros vive nunca desde el origen, es decir, ninguno de nosotros vivió nunca el pasaje de la guerra de todos contra todos al estado cultural, al estado político. Sino que vivimos en una situación en la cual esa imagen determina nuestra vida. Es decir, nos movemos dentro de una condición en la cual estamos de acuerdo, pero digamos que hasta cierto punto. Yo no puedo aceptar todo lo que la sociedad me impone. Por otra parte, los que quieren imponerme esto también me dicen “entonces, sé un salvaje”. Calma. Yo me convierto nuevamente en un salvaje cada tanto para discutir la constitución, los principios, las leyes, etcétera. Es decir, no discuto que tenemos necesidad de la verdad. La verdad sería una forma de última instancia, como un tribunal, que debemos no obstante instituir, es decir que debemos fundar democráticamente, y no aceptarla como si fuera un hecho natural. Toda la lucha moderna contra el derecho divino de los reyes, por ejemplo, era ésa. La idea de que tiene que haber un soberano, porque de lo contrario no se hace ni el código vial, debe surgir de que ese soberano dependa más de nosotros, no del hecho de que ya está ahí y de que tiene el derecho de Estado. Todo esto es importante porque se puede invertir lo que nosotros siempre pensamos: nos pusimos de acuerdo porque encontramos la verdad. Lo cierto es lo contrario: decimos que encontramos la verdad cuando nos pusimos de acuerdo. Es toda otra perspectiva que implica mucho más la libertad de los individuos y de las comunidades incluso.

Bush, Obama, Berlusconi, Zapatero, por ejemplo, construyeron una verdad política. Ahora, política y verdad es un matrimonio bastante complicado, ¿no?

Sí, lo que yo digo es que estos señores han justificado su autoridad con pretensiones de verdades objetivas. Como máximo, se puede pensar que una autoridad democrática como la de Obama no dice que debemos bombardear a Irán porque somos los buenos y ellos los malos. Es un poco más respetuoso de los derechos humanos pero no tanto. Yo no me escandalizo por el hecho de que la verdad se construya también políticamente. Entre uno que miente por el amor del proletariado y otro que miente por amor a las putas como Berlusconi hago una diferencia. Es decir, no digo que todos deberían ser absolutamente objetivos pero no sólo decir la verdad porque se convierte en un círculo vicioso porque, ¿quién establece si es verdad lo que dicen?

Luego, establecer la verdad es una decisión personal...

Yo decido estar a favor o en contra de una construcción de verdad social cuanto más la comparto. Depende de los grupos, las clases que la sostienen. Por ejemplo, en Italia tuvimos un referéndum por la energía nuclear. ¿Debo votar a favor o en contra? La primera respuesta que daría sería: escuchemos a los científicos. Pero los científicos no siempre están de acuerdo entre ellos. Entonces elijo al mejor, pero ¿y la autoridad para decidir eso? Finalmente, ¿qué hago? Elijo al científico que encuentro todos los domingos en misa o que es hincha de mi equipo. Elijo por afinidades. Es un discurso siempre de grupos y no es tan horrible porque ¿quiénes son los que no quieren aceptar la idea de que yo elijo siempre en base a afinidades históricas, culturales y amistosas? ¿A quién le parece escandalosa esa visión de la verdad? A los que ostentan el poder. Los que tienen el poder quieren que la verdad sea objetiva. Yo dije, una vez: tiene que haber una verdad objetiva porque de lo contrario no se puede ejercer el poder. Lo digo todavía. Ahora voy a Londres a dictar una conferencia sobre la plegaria a un grupo de teólogos. Les digo que paradójicamente Dios debe existir para justificar el poder de la Iglesia. O sea: decir que Dios existe objetivamente. No es que no se pueda dudar, es sólo un modo para afirmar el poder de los que hablan en su nombre. Que Dios no exista para todos, francamente, no podría importarme menos. Importa si cuenta para mí. Y todo eso me parece bastante importante. La verdad objetiva es siempre una función del poder que pretende que no es interpretación sino que es pura verdad. Y uno empieza a luchar un poco más contra esos tipos de autoridad absoluta.

Ahora, ¿qué pasa cuando la libertad tiene la capacidad de proponer una verdad contraria al sentido común?

Ese sí que es un problema. Todos los que me objetan dicen: ¿pero cómo? Si no existiera la verdad objetiva metafísica no podrías rebelarte contra el poder porque cuando lo hacés, lo hacés en nombre de una verdad diferente de la que sostiene el poder. Sí, pero puedo perfectamente pensar que cuando reivindico los derechos humanos, por ejemplo, en la Revolución Francesa contra los reyes, ¿los reivindico por amor al hecho de que son derechos humanos o los reivindico por amor a los que están a mi alrededor, apresados por esa autoridad? Una vez más, el revolucionario que se cree autorizado por el conocimiento de la verdad es tan peligroso como el autoritario en sí porque significa que en determinado momento en que rige la revolución no se permite hablar a nadie. En el fondo el estalinismo fue eso. Ahora pensemos si Stalin se puede reducir a esas cosas. El comunismo soviético, cuando se vuelve poder, fatalmente, creo, debe defenderse de los ataques de los países capitalistas pareciéndose cada vez más a sus enemigos incluso en el plano de la economía. Porque Stalin hizo una revolución industrial en 40 años. En los 50, Rusia competía con Estados Unidos en la carrera espacial y en el 17 era todavía un país agrícola, con caballos que arrastraban los trineos. Para llegar a ese punto tuvo que haber baños de sangre, transporte de poblaciones, defensa incluso contra la desunión interna del régimen, las purgas estalinistas, todas esas cosas.

Y esa ¿es una verdad correcta?

No la justifico, digo solamente que, entre otras cosas, todo eso nos salvó del nazismo porque sin Stalingrado, con los tanques armados, etcétera, el nazismo todavía seguiría vivo y en pie. Por lo tanto, ni siquiera la idea de que debo tener una justificación para rebelarme debe llevarme a pensar que entonces tiene que existir la verdad objetiva. Si no, me expongo al riesgo de convertirme en Stalin, dicho brutalmente.

Todos los días leemos en la prensa mundial, por ejemplo, toda la verdad: investigación especial…

Como WikiLeaks.

... sobre la política, toda la verdad sobre el mundo del espectáculo, sobre el fútbol…

Sobre Strauss-Kahn.

... ¿cuál es la idea, el concepto de verdad de los medios?

Digamos que usan la idea de verdad, a veces, cuando son honestos, sobre la base de testimonios directos. Es decir: hablé con Beckham que me dijo que traiciona a la mujer. Entonces, yo lo informo. Y eso para mí no está tan mal. El problema es que decir también una verdad sobre un hecho determinado, como diría Marx, puede ser desviante porque olvida todo el cuadro. En realidad, una verdad parcial, la verdad objetiva sobre un hecho parcial, a veces lo es, pero los diarios viven justamente de eso. Por ejemplo, dicen la verdad sobre Beckham, sobre el fútbol, sobre el espectáculo, pero no dicen en general quién es el dueño del diario. No lo escriben. Este diario pertenece a Berlusconi: Ça va sans dire. Ahora, esto es un modo no de despreciar la verdad descriptiva. Yo estoy contento cuando un diario me dice que llueve cuando llueve y no, que no llueve, obviamente. Prefiero eso. Pero no me conformo y ese es el principio de la transformación social. Después en lo que se refiere a las verdades de hecho siempre hay criterios para verificar. Por ejemplo, la verdad jurídica, cuando un tribunal termina condenando a alguien, ¿sabemos si fue realmente él el asesino? No, pero hay un sistema de verificación y falsificación por el cual según esos cánones, podemos decir que es verdad que fulano mató a la viejita. Y lo condenamos. Pero alguno puede decir, ¿pero qué pasó? En el fondo en nuestra vida social que haya una verdad convenida de alguna manera es útil porque tenemos criterios para establecer en los casos individuales como cuánto cuesta el taxi. Hay principios. Todo eso funciona muy bien para la vida práctica. Cuando se pretende, no obstante, modelar en base a las verdades, los valores, ahí hay diversidad de consideraciones.

¿Y en la política?

En la política la diferencia de opiniones no se puede superar tomando a un científico que nos diga cómo son las cosas. Incluso los economistas no están de acuerdo: sólo acentuar un hecho más que otro, quizá significa mandar a la ruina a Grecia o Portugal. Por eso, siempre existe ese margen de libertad de interpretación, que se puede sólo mediar con el consenso interpersonal, no con el ver objetivamente. Por ejemplo, no es que si se repite un experimento científico, va a implicar que las cosas son “así”; quiere decir que hay más gente que cree. ¿Eso significa que después de 100 experimentos conozco mejor la caída de la manzana? No. Quiere decir que no se desmiente, que funciona. Hasta Popper podría estar de acuerdo con eso. O sea que siempre hay una componente de consenso, de escucha del otro que justifica el coloquio interpersonal que nos hace hablar de verdad, entre comillas, “objetiva”, pero sólo una verdad subjetiva compartida y funciona muy bien.

¿Cómo se coexiste con la verdad de la religión?Esa que se manifiesta contra el divorcio, el aborto, los homosexuales, la fecundación in vitro...

Eso es una porquería. ¿Cómo decirlo? El problema es reducir los absolutos, incluso en el campo de las religiones. Allí donde las religiones se presentan como principios de verdad absoluta son en general religiones autoritarias. Como decir: Dios debe existir objetivamente porque si no el poder de la Iglesia no tiene base. Pero cómo, ¿debemos decir que Dios existe sólo por amor al Papa? No. De hecho es así porque hasta la madre Teresa de Calcuta decía que cuando se ponía a rezar le venían todas las dudas sobre la existencia de Dios, de Jesucristo. Pensemos si eso lo dijera el Papa, ¿vos le ordenás a la gente que no use preservativo, que no aborte, en base al hecho de que hay Dios o no? Por lo tanto, estos discursos sobre la ética de parte de las religiones son indicaciones generalmente útiles. Los diez mandamientos de Moisés sirvieron durante mucho tiempo en la vida de la gente que trataba de no matar, de no traicionar a la mujer o al marido... Ok. Pero que eso se convierta en un principio de una imposición incluso para las leyes civiles... Es decir: cuando la Iglesia ordena a sus fieles que no forniquen, es asunto de ellos; pero si lo ordena a todos, en nombre del hecho de que conoce la verdad de la naturaleza humana, es simplemente un hecho de autoritarismo. A veces el Papa habla de la antropología bíblica... ¿y con la astronomía bíblica cómo hacemos dado que Galileo fue perseguido en nombre de la astronomía bíblica? Ahora de la astronomía no se habla más, afortunadamente, pero se sigue diciendo que en la Biblia hay una antropología, una doctrina sobre el hombre, sobre lo que debe ser, y esa es otra estupidez. La Biblia no es un manual ni de antropología ni de astrología, no es nada de eso, no es siquiera un manual de teología. No es que nos explique cómo hizo Dios y entonces estamos más contentos. Nos dice que si queremos salvar el alma debemos hacer esto y aquello. Si creemos en la Biblia lo hacemos, pero no podemos tomar los principios del Vaticano y aplicarlos a la ley italiana porque esos son los principios de la naturaleza del hombre. ¿Cuáles son? Tonterías.

Usted habla también del cristianismo hedonista. ¿Retoma a Michel Onfray? ¿Onfray?

Quizá lo he sobrevaluado un poco. Es muy simpático, pero no sé hasta qué punto. Salió un libro de un teólogo americano llamado Fox, un ex dominico que fue expulsado de la orden, que escribe un libro titulado: En el principio fue la alegría y trata de transformar el negativismo de la ética cristiana en un hecho positivo. Yo creo que me gusta más un cristianismo hedonista que uno punitivo. ¿Debería ser mejor? ¿Por qué, si yo estoy haciendo el amor no debo pensar que Dios me ve? La gente se esconde. Si tengo una relación sexual, debo esconderme porque si no Dios me ve. No digo que podría hacerlo en la Iglesia, pero sólo por respeto a las convenciones. Del mismo modo que no hago mis necesidades en público: voy a un baño. Ahora, hay cosas que efectivamente no parecen decorosas desde el punto de vista de la relación con Dios. Masturbarse mientras se reza. A mí me ha pasado de pensar en rezar incluso si una noche llegando a un local equívoco... ¿Por qué no? Digamos que como no soy el padre eterno, no soy Dios, no puedo hacer como si todo esto no valiera nada, trato de atenerme a la disciplina social, al respeto por los otros, está bien; después si tengo que involucrar a Dios cada vez que uso o no uso el preservativo, francamente, me parece incluso una ofensa. ¿Qué tiene que ver? ¡Que se ocupe de sus asuntos!

Tav: aut aut da Europa, mentre NoTav si appellanno a Bersani

Tav: aut aut da Europa, mentre NoTav si appellanno a Bersani

Bruxelles avverte Italia e Francia con una lettera, in merito all'infrastruttra ferroviaria Torino-Lione. La Ue rilancia la scadenza del 30 giugno prossimo, sotto la minaccia della perdita di un'ulteriore fetta dei finanziamenti stanziati per l'infrastruttura ferroviaria. Per quanto riguarda il nostro Paese, in passato già 9 milioni di euro erano stati tagliati da Bruxelles, per i ritardi accumulati. E' "giunto il momento che Italia e Francia prendano le misure concordate e tanto attese, come prova del loro impegno su questo progetto di rilevanza europea" fa sapere l'esecutivo Ue, nella lettera firmata dal commissario Siim Kallas. E la Ue indica il 30 giugno non solo come termine per avviare i cantieri per il cunicolo della Maddalena a Chiomonte, ma anche per siglare un nuovo accordo tra Italia e Francia e approvare il progetto preliminare della Torino-Lione. Il nuovo out out scalda l'atmosfera in Val di Susa, dove ormai è chiaro che a giorni ci sarà il blitz delle forze dell'ordine per smantellare il presidio No Tav di Chiomonte. E proprio a Chiomonte ieri sera il consiglio comunale ha approvato all'unanimità un ordine del giorno che rifiuta il ricorso alla violenza. Oggi i No Tav della Val Sangone si sono appellati al segretario del Pd Pierluigi Bersani, "venga a discutere con noi" a Chiomonte, "difendiamo la nostra economia, non siamo quattro gatti, ne' degli esaltati" scrivono i No tav . E intanto un appello del fronte No Tav a cui avevano aderito Gianni Vattimo (Idv) e Giorgio Airaudo (Fiom), contro le forzature per aprire i cantieri ha conquistato quasi 900 adesioni, fanno sapere gli organizzatori. Tra le firme anche quella del sindaco di Napoli, Luigi De Magistris.

giovedì 23 giugno 2011

Uno dei 10 che salva l'Italia


Mi si perdoni il narcisismo...
La fotografia compare alla pagina http://www.lettera43.it/foto/18312/2/gianni-vattimo.htm#view, sul sito di Lettera 43, in riferimento ai "10 gay che salvano l'Italia oggi" (libro di Daniela Gambino di cui si è già data notizia in questo blog).

sabato 18 giugno 2011

La posta del fegato (giugno 2011)

La posta del fegato - Rolling Stone, giugno 2011

Caro Professore, leggo che parte una sua nuova rubrica dedicata all’ira. E ci vedo una contraddizione per una persona che ha fondato l’idea di “pensiero debole”. Cosa resta di quell’idea? Quando non possiamo non dirci incazzati, ha senso parlare di un individuo “indebolito”, fragile. O mai come adesso può tornare utile? Cesare C.

Caro Cesare C., anche nei periodi in cui mi sono sentito più vicino al “debolismo” e alle sue implicazioni etiche ho sempre pensato, e detto, che per diventare deboli ci voleva molta forza. È vero però che non sempre la debolezza del pensiero debole mi è apparsa sotto la medesima luce: alle “origini”, erano gli anni del terrorismo rosso e nero, io pensavo che l’emancipazione a cui guarda la filosofia non potesse in alcun modo confondersi con la presa del potere per mezzo della lotta armata. Il soggetto debole a cui pensavo era piuttosto l’Oltreuomo di Nietzsche, che ha sufficiente spirito di “superiorità” e di distacco per esercitare una certa ironia anche contro se stesso e le proprie pretese di far valere i principi. Del resto, nella debolezza teorizzata era anche inclusa la diffidenza verso ogni forma di assolutismo dei principi, e invece una propensione verso la carità, che allora chiamavo pietas, una sorta di condivisione dei limiti che ci fa guardare agli altri con una certa tenerezza, come verso ogni vivente che è destinato a morire e che, finché è vivo, attraversa tanti momenti di sofferenza legata alla peribilità di tutto; un po’ come suggerisce il detto “sunt lacrimae rerum”, che non so di dove venga ma che esprime una certa mesta accettazione della condizione umana. Anche adesso, del resto, non mi sento di lamentarmi troppo dei miei mali e della mia mortalità, li accetto come atto di solidarietà con gli altri viventi. Noto di passaggio che questo atteggiamento mi ispira anche in rapporto all’eros e al desiderio, alla “carne”: non sei più giovane e attraente, vorrai mica diventare come il Gustav von Aschenbach della Morte a Venezia che, ma forse accade solo nel film, si trucca in vari modi per poter avvicinare il suo amato Tadzio; o, peggio, come qualche ben più vicino e reale mio coetaneo che usa le sue ricchezze per circondarsi di amanti, vere o finte che siano. Mi rendo conto che, messa così, l’etica del pensiero debole scivola nel patetico e nel lamentoso. Dunque lasciamo da parte lamentazioni e compassioni. Che non sono tutte messe fuori gioco per quanto riguarda la (mia) vita privata; ma che certo, almeno sul piano teorico, hanno sempre più lasciato il posto alla indignazione che traspare dal mio testo “inaugurale” uscito nel numero scorso. Che è successo? Direi che sempre più, non per ragioni “filosofiche” (del resto, anche il pensiero debole era profondamente ispirato alla attualità) ma per il corso del mondo, il debolismo ha perso le sue connotazione psicologiche, anche se non etiche, ed è diventato una filosofia della storia, una idea dell’emancipazione umana realizzabile solo attraverso la riduzione della violenza, certo anche accettando quel tanto di violenza che è richiesta per non cedere ai soprusi, per non lasciare che i deboli (noi, anche) siano sempre sopraffatti dai forti come agnelli sacrificali. Debolezza è diventata qui soprattutto il riconoscimento della propria finitezza storica: non sono Dio, non posso pretendere di stare al di sopra delle lotte storiche, sono sempre gettato in un mondo e in una condizione che, ancora una volta, mi obbliga soprattutto alla solidarietà con il mio prossimo. E la solidarietà con il mio prossimo non è dettata puramente e semplicemente dalla mia finitezza storica, per la quale, forse, dovrei solo pensarmi e agire come una parte, un contendente interessato e basta. C’è un elemento di universalità anche nella solidarietà di classe, è come il quantum di universale che riesco a esperire e praticare. Non si ama mai tutta l’umanità, ma se ne ama una parte perché la si vorrebbe amare tutta. Si badi che questo è anche sempre il problema della filosofia: parlo da individua limitato e anche da soggetto “trascendentale”; so che la mia verità è mia, ma la presento, la offro agli altri come l’universale che riesco a pensare; e dunque sempre anche senza nessuna volontà di imposizione. È così, o dovrebbe essere così, la democrazia: prendo il potere se le elezioni me lo danno, ma sempre riconoscendo la possibilità all’opposizione di conquistarlo a sua volta: è il senso della Costituzione, quello che sembra mancare tanto a chi ci governa oggi in Italia. Dunque mi indigno e mi incazzo, e lotto anche con i mezzi di cui dispongo, restando fedele all’ideale di un mondo dove la violenza sia ridotta al minimo… Può un soggetto debole – e cioè consapevole dei propri limiti, ironico anche verso se stesso – essere un buon rivoluzionario (giacché è di questo che si tratta quando mi indigno, in fondo)? Io penso addirittura che solo un soggetto debole, intimamente plurale, niente affatto “cartesiano” (cioè convinto di possedere una verità inconcussa e indubitabile), possa essere un buon rivoluzionario; Stalin non era “debole”, temo nemmeno Lenin. Forse il Che, forse Castro, forse Evo Morales. Non abbiamo prove storiche che un tale tipo di rivoluzionario sia possibile; ma certo, paradossalmente, sarebbe necessario.


Laclau y Vattimo debatieron sobre hermenéutica y estructuralismo



Laclau y Vattimo debatieron sobre hermenéutica y estructuralismo

El filósofo italiano Gianni Vattimo y su par argentino Ernesto Laclau, debatieron sobre hermenéutica y estructuralismo en el último encuentro del ciclo "Debates y Combates", organizado por la Secretaría de Cultura de la Nación en la Casa del Bicentenario. También disertaron el psicólogo Jorge Alemán y el titular de la Secretaría, Jorge Coscia.

En sus intervenciones, Laclau y Vattimo se refirieron extensamente a polémicas propias del campo de la filosofía, como la presunta objetividad de la metafísica y el descreimiento en la existencia del inconciente, posición sostenida por Vattimo.

Vattimo defendió a la verdad como camino a la libertad


Vattimo defendió a la verdad como camino a la libertad

Fue durante una jornada especial del ciclo Debates y Combates, organizado por la Secretaría de Cultura de la Nación. Participaron del encuentro Jorge Coscia, Ernesto Laclau y Jorge Alemán. Todos cantaron La Internacional y la Marcha Peronista.

http://www.prensa.argentina.ar/2011/06/17/20761-vattimo-defendio-a-la-verdad-como-camino-a-la-libertad.php

El ciclo de reflexión "Debates y Combates", que sentó a intelectuales y funcionarios nacionales a la mesa de un debate político y filosófico, terminó el martes. Pero la nube de cenizas había impedido que el italiano Gianni Vattimo llegara a Buenos Aires para sumarse y es por eso que ayer se realizó un encuentro especial.

“La verdad es lo que nos hace libres, pero no porque cuando la conozco me genera libertad, sino porque me sirve para la acción”, enfatizó Vattimo, quien compartió la charla con el secretario de Cultura, Jorge Coscia; el filósofo Ernesto Laclau y el psicoanalista Jorge Alemán en la Casa Nacional del Bicentenario.

Fue un encuentro apasionado que culminó con los invitados de lujo cantando a viva voz la Internacional Socialista y la Marcha Peronista. Luego llegó hasta una interpretación semiótica, por parte de Ernesto Laclau, de dichas canciones.

A su turno de reflexión, Laclau reivindicó la Metafísica como forma de conocimiento de la realidad. Y Vattimo manifestó que, según él, la Metafísica “es la teoría de las clases dominantes para mostrar lo maravilloso que es el mundo”.

“Tengo muy poca confianza en el hecho de que el pensamiento a partir de categorías, pueda aportar al cambio social. Las categorías sólo sirven para describir acontecimientos”, dijo el filósofo italiano.

“La herramienta más adecuada para abordar la realidad es la hermenéutica que permite entender procesos y no sólo descubrir acontecimientos”, entendió. Y consideró que “lo más esperanzador de las últimas décadas son los gobiernos progresistas de América latina porque pueden construir una resistencia a la tentación que supone el poder y el dinero norteamericano.”

Organizado por la Secretaría de Cultura de la Nación, con el acompañamiento de la Universidad Nacional de San Martín, el Centro de Estudios del Discurso y las Identidades Sociopolíticas (CEDIS), el Voluntariado Universitario y el Fondo Económico de Cultura, el ciclo contó con las exposiciones de Ernesto Laclau, Gianni Vattimo, Carlos Zannini, Jorge Coscia, Jorge Alemán, Marcela Cardillo y Juan Manuel Abal Medina.

Debates y Combates fue un esfuerzo colectivo de reflexión destinado a producir teoría política en el contexto de las actuales transformaciones que recorren América latina, para contribuir a la consolidación y la profundización del nuevo protagonismo social, político y cultural.

Así, asumiendo el desafío ineludible de lo político, el ciclo intentó producir una crítica, un lenguaje alterno y también una superación del discurso liberal individualista, dominante en los medios de comunicación de masas y en el debate contemporáneo sobre la naturaleza de la democracia.

Entrevista con Gianni Vattimo

El sociólogo Luis Martínez Andrade (Puebla, 1981), columnista de Círculo de Poesía, entrevista al filósofo italiano Gianni Vattimo, uno de los referentes de la cultura de nuestro tiempo. Dios, kenosis, pensamiento débil, ecología, posmodernidad, América Latina, son algunos de los tópicos abordados en este documento imperdible.

Círculo de Poesía 16.6.2011

En el marco de mi investigación sobre la relación entre la ecología y la religión realizamos la siguiente entrevista con uno de los filósofos más importantes en la actualidad, nos referimos a Gianni Vattimo (Turín, 1936) quien realizó estudios de filosofía en Heidelberg. Influido por el pensamiento de Nietzsche, Heidegger y Gadamer es uno de los principales protagonistas de la hermenéutica. Exponente del pensamiento débil (pensiero debole). Asimismo es Doctor Honoris Causa por la Universidad de Palermo, La Universidad de La Plata y la Universidad Nacional Mayor de San Marcos. Su obra ha sido traducida a más de diez lenguas entre las que destacan el portugués, el alemán, el francés, el inglés, el catalán. Algunos de sus trabajos publicados en español son: Creer que se cree (Barcelona, Paidós, 1996), Introducción a Heidegger (Barcelona, Gedisa, 1996), El fin de la modernidad: nihilismo y hermenéutica en la cultura posmoderna (Barcelona, Gedisa, 1998), La sociedad transparente (Barcelona, Paidós, 1998), El Sujeto y la máscara (Barcelona, Península, 2003), Diálogo con Nietzsche (Barcelona, Paidós, 2002), Nihilismo y Emancipación. Ética, Política, Derecho (Barcelona, Paidós, 2004), ¿Ateos o creyentes? (Barcelona, Paidós, 2009), Adiós a la verdad (Barcelona, Gedisa, 2010).

Luis Martínez Andrade

¿Cuál es la concepción de Dios en Gianni Vattimo?

La pregunta es, efectivamente, difícil. La primera respuesta es: no lo sé. Pero desde que era un chico católico-ortodoxo, no sé por qué, pienso que por razones filosófico-personales, por un lado, como homosexual no podía aceptar lo que decía mi director de consciencia: “tú tienes que aceptar que eres como la sombra en el marco del cuadro, de la pintura”, pensaba: ¿Yo soy la sombra? ¿Tengo que aceptar que soy deforme? No me gustaba mucho la idea. Eso por una parte. Por otro lado, estudiando a los autores, principalmente Nietzsche o Heidegger, asimilé su “crítica de la metafísica objetiva”, es decir, la idea de que “el ser” puede ser descrito y, por tanto, puede ser un objeto evidente para el espíritu; lo que me parece una blasfemia. El ser no se da como una entidad. Obviamente todo ello acompañó una reflexión sobre Dios. Finalmente siempre cito una frase de Dietrich Bonhoeffer –no sé si quiere decir la misma cosa–, pero es significativa: “un dios que existe no existe” (Einen Gott, den es gibt, gibt es nicht). No hay algo como un dios que “hay” porque ese “hay” es un objeto entre los otros y, por consiguiente, yo estoy frente a él como otro. Siempre tuve esta polémica de un lado, ético-moral contra los preceptos de la Iglesia católica y, por el otro, acompañada por esta intolerancia frente a la idea objetiva de Dios como alguien que se puede conocer. Por ello, cuando alguien me pregunta ¿qué es Dios? Absolutamente no lo sé. Si pudiera definirlo no sería Dios, sería algún ídolo.

Empero cuando hablo sobre Dios, el pensamiento más próximo que me viene al espíritu, es el infinito de Schleiermacher. Yo estudié mucho a un filósofo alemán que fue uno de los fundadores de la hermenéutica moderna que se llama: Friedrich Daniel Schleiermacher y, en unos de sus escritos de juventud, De la Religion. Discours aux personnes cultivées d’entre ses mépriseurs, donde él plantea la cuestión de ¿qué es Dios? Responde: es el infinito, es decir, no tiene límites. No tiene definición. Pero lo que experimento en mi vida es la libertad. Siento como una capacidad para elegir A o B y esto no puede derivar de un dios espinosista o clásico menesteroso sino de una iniciativa libre. En suma, Dios es la experiencia de mi libertad. En otras palabras, con mi libertad no soy creado para mí, me encuentro siendo libre. Lo que puedo imaginar es que hay una iniciativa libre que me ha puesto en libertad. Soy llamado a ser libre por alguien que es libre a su vez. El dios de los filósofos griegos ¿cómo podría crear seres libres? Si él mismo estaba determinado. Por ejemplo, toda la trama de Sein und Zeit de Heidegger es ¿cómo puedo existir como existente si “el Ser” es una estructura menesterosa? No existe la historicidad. Pienso que si hay historicidad es porque existe variabilidad, libertad, posibilidades y, todo esto, él lo llama un comienzo. Es decir, antes no había nada, se hace una deducción geométrica. Obviamente, alguien como Baruch Spinoza diría que la idea de la libertad es una ilusión. ¡Pero cuidado! ¿Quién me lo dice? ¿Cómo se atreve este señor a sostener que mi experiencia vital y básica es ilusoria? Pienso que en filosofía es importante porque sólo con una iniciativa libre se funda una realidad histórica y no una realidad repetitiva, una realidad deductiva y, por tanto, no se explica nada. También lo ligo a la lucha contra los poderes puesto que quienes sostienen que la realidad es algo objetivamente dado, son los poderosos. Ellos son los únicos que lo deciden. Por ejemplo, cuando Aristóteles habla del “tercer hombre”. Decimos: hay un hombre que es la imitación de un hombre ideal pero la conexión entre los dos tiene que ser hecha por un tercero. Y así se procede ad infinitum. Sólo cuando alguien decide quedarse, se queda. Prácticamente, la cuestión de los principios es así. ¿Por qué no puedo ir más allá de los principios? En la tradición judeo-cristiana los principios fueron puestos por Dios, es decir, “el Ser” tiene que ser reconocido como tal y no preguntar más por qué es creado por Dios. Pero esto es, una vez más, una identificación de Dios con la necesidad de lo que es, con la estructura metafísica del poder. Preguntar sin límites –por qué o quién– es típicamente histórico, social y religioso; lo restante es metafísico. Hay principios. “Tú no puedes ir más allá”. “Es necesario quedarse”. Pero ¿por qué es necesario quedarse? La metafísica me parece absolutamente ligada a una estructura de poder que te impone silencio y sumisión. Cuando pienso en las motivaciones de Heidegger, en la época que redactaba Sein und Zeit, no sólo eran motivaciones de entender “al Ser” sino motivaciones para comprender cómo la sociedad de la época manifestaba los síntomas de la organización total-positivista-industrializada. El “Ser” como objetividad parecía necesariamente dar lugar a una sociedad de dominación. Heidegger compartía las motivaciones de las vanguardias intelectuales de inicio del siglo XX, no le interesaba aceptar “lo real como es” sino inventarlo. El mismo arte abstracto nació de esta manera.

En la época que Heidegger escribía “Sein und Zeit” acompañaba dicha redacción de lecturas de las Cartas de San Pablo…

Sí, en efecto. Heidegger está interesado en una concepción de la temporalidad que no sea lineal. En el cristianismo primitivo, Heidegger encuentra la realización de la temporalidad auténtica, es decir, de una temporalidad que está entre “la salvación ya llegada” y “la salvación prometida”, la escatología. Esto significa vivir la temporalidad, no como series de momentos en los que uno aniquila al otro, sino como una tensión entre lo que ya pasó y lo que es prometido. Dicha imagen inspiró a Heidegger en su redacción de “Ser y Tiempo”, y que refiere a que uno no está determinado, sino que uno es libre de tomar la herencia del pasado para realizar elecciones ulteriores. La tensión entre el pasado que no se puede cambiar –lo que Nietzsche identificó con “la piedra del pasado” sobre la espalda de Zaratustra–, y el pasado que nos es ofrecido para nuestra libertad y que, en consecuencia, nos permite tomar decisiones. Obviamente, no puedo cambiar la Segunda Guerra Mundial pero puedo interpretarla de una manera que me conduce a no aceptar a George Busch y aceptar a Evo Morales…

En Credere di credere (Creer que se cree) usted desarrolla el concepto paulista de kenosis para ligarlo al pensamiento débil, es decir, el momento en que Dios abandona su posición para adentrarse a la temporalidad humana, en otras palabras, por amor se cambia la existencia eterna por la existencia temporal-humana, la de la corrupción. Sin embargo, para Slavoj Zizek, deberíamos entender la kenosis bajo los ojos de Schelling, esto es, pensar que tal vez dicho descenso fue para Dios una ascensión. Por tanto, la eternidad podría ser entendida como un estadio inferior en el que la temporalidad humana irrumpe como la posibilidad real de apertura ontológica. ¿Por qué no suponer que “el abajamiento” no fue para Dios un acto de gracia sino la única manera de acceder a la plena realidad, liberándose de las sofocantes constricciones que impone la eternidad…?

Una vez más, en esta lectura que realiza Zizek de Schelling, es menesterosa. Sigue siendo una perspectiva que parte de la necesidad. Si no es un acto de gracia ¿qué es? Es una pulsión hacia su ser ya dado. Lo puedo aceptar en el sentido de que no me interesa saber por qué Dios se ha kenotizado. Si lo hizo porque me ama, o porque lo necesitaba… o porque no era diversamente, pero un Dios que no puede ser diversamente me parece que no es Dios sino, una vez más, es un principio metafísico. El ser de la metafísica que parte del postulado: “ha tenido que hacer esto por”… Incluso, hablar como Zizek en este discurso me parece algo victimario… Hablo de Dios en la medida que viene hacia mí en la forma de un Dios kenotico, pero no sé si en sí mismo precisaba liberarse… Todo esto me parece demasiado idealismo alemán.

En un contexto de pluralismo religioso, ¿Cómo argumentar que el catolicismo es un pensamiento débil?

Por ejemplo, lo que siempre han dicho los cristianos protestantes es que el catolicismo es mucho más tolerante: la idea de redención, el perdón de los pecados a través de la confesión. Por una parte es verdad que no te salvas con tus propias fuerzas como decía Lutero. Incluso las indulgencias, que eran las cosas más terribles de la Iglesia en la época de Lutero, muestran que el catolicismo es muy tolerante. El catolicismo es débil porque se funda en la idea de la “encarnación” y de la “kenosis”. Como Iglesia o doctrina eclesiástica me parece muy poco débil, en el sentido, que hay toda una estructura metafísica como el tomismo. Pienso que el catolicismo en sí mismo es muy abierto al pensamiento débil porque la tradición tiene mucha importancia. La diferencia entre Lutero y los católicos es que para Lutero todo está en la Escritura. Indudablemente debemos respeto a la Escritura pero nosotros pensamos que la verdad de la religión radica en la Escritura y en la tradición. La tradición como interpretación. Observo en el catolicismo una posibilidad de debilidad o de libertad más grande que en el protestantismo. De hecho, por razones histórico-políticas, la Iglesia ha sido mucho más rígida que el protestantismo porque es un Estado en Italia que ha tenido mucho poder político. Dilthey incluso decía sobre San Agustín que no sólo era un filósofo sino que fue también un obispo y, como obispo tenía responsabilidades en la caída del Imperio Romano. La Iglesia continuó coronando a los emperadores. Por ejemplo, en el Medioevo. Todo esto no tenía nada que ver con el Evangelio. En este sentido existe una contradicción permanente entre la práctica de la Iglesia católica que es autoritaria, dogmática y, necesariamente, metafísica en el sentido que para imponer precisa sostener que su filosofía es la filosofía de la naturaleza como tal, por ejemplo, el matrimonio es naturalmente indisoluble. ¿Por qué? Jesús nunca habló de esencias, no hay esencias naturales. La idea de una metafísica fuerte que define exactamente qué es la naturaleza del hombre, del matrimonio, de la sexualidad, de la familia es imprescindible para un poder autoritario. Ahí se unen los dos claramente. Sin embargo, el catolicismo con la idea de tradición, de transformación de los dogmas, de interpretación viviente por la comunidad y no por la jerarquía puede debilitarse. Cuando hablo de debilitación me refiero a la idea de que el Ser se da substrayéndose en estructuras fuertes. El ser, no la entidad, es lo que acontece. Me parece que es en la frase última de la primera sección, párrafo 44, de Sein und Zeit, donde Heidegger dice: “Hay ser y no entidades en la medida en la cual hay la verdad”. El Ser se afirma en su verdad, en la medida en que las entidades pierden su pretensión de imponencia. Esto vale también para la ética porque una ética ascética significa no pretender ser siempre el primero o vencer a los otros para mi propia afirmación, incluso, en lo que refiere a la naturaleza, en lugar de explotarla debemos dejarla, que las cosas sean. Esta idea de debilidad no es una aniquilación. El ser se afirma en la medida que los seres no lo obscurecen. Es muy ascética esta visión, es decir, para ser auténtico debo reducir mi pretensión de entidad y propiedad…

René Girard sostiene que el cristianismo develó los mecanismos victimarios de las religiones naturales. ¿La conquista de América no estableció, con soporte en el cristianismo, un nuevo mecanismo victimario donde lo no-europeo es reducido a no –civilizado, por tanto, es desechable?

Obviamente como europeo me parece que existe un pequeño marco de negatividad en la ontología débil ¿Por qué? Decimos lo que está enfrente de mí, no es la fidelidad “al ser” como ser sino “al ser” como aconteció. A mi juicio, “el ser” aconteció como universalismo colonialista. Cuando hablo de pensamiento débil no solamente lo digo como si “el ser” de suyo se me develaría como negatividad sino que, en esta situación, puedo pensar al “ser” como crítica del universalismo y de la positividad de la ontología tradicional. No tengo una imagen positiva del “ser”, quizá porque soy un europeo, a sustituir por la negativa del “ser” universalista opresor del pasado; sólo tengo la posibilidad de luchar para deconstruir, destruir, reducir el poder de esta visión del ser.

Por otra parte, me parece que Enrique Dussel como pensador latinoamericano comprometido quizá se siente llamado a la construcción de una nueva ontología positiva. Me interesa mucho lo que hace él. Pero como heideggeriano europeo yo tengo la tarea de deconstruir la ontología sobre la cual se construyó mi imperio: eurocéntrico, colonial y opresor. El pensamiento débil es incluso una manera de reaccionar, de contestar y de responder la pregunta ¿cómo se expresa “el ser” hoy en Occidente? Yo soy muy respetuoso de lo que los otros pueblos pueden inventar. Por el momento, yo solo puedo hacer esto. Me parece incluso teóricamente importante. Cuando Dussel me habla del modo de vida de las comunidades andinas, le pregunto: ¿dónde está escrito? Tienes que vivir aquí, me responde… (risas).. No puedo cambiar mi residencia (risas)… Cuando tengo esta discusión con Dussel, me parece que él tiene una nostalgia universalista. La ontología de los europeos era falsa porque era una manera de oprimir. Ahora construyamos una ontología verdadera. No. Cada uno construye una ontología en su propio histórico definido y no puede pretender al universalismo.

En junio pasado, en Venezuela, Dussel regresaba de China y mencionaba que se tenía que sustituir a la tradición occidental. Ahora teníamos que construir una historicidad centrada sobre el Oriente. Explicaba que los chinos habían descubierto América antes que Colón. No tengo ningún problema como italiano… (risas)… Pero, siempre lo veo lanzado en una dirección de construcción ontológica universalista alternativa. Yo soy fiel a la idea de Heidegger de que no es posible construir una nueva metafísica para sustituir a la antigua, sino solamente podemos deconstruirla.

La obra de Vattimo ha sido muy bien recibida en América Latina. Incluso usted ha sostenido diálogos con pensadores como Mauricio Beuchot (Hermenéutica analógica) o con Enrique Dussel (Filosofía de la liberación). ¿Qué importancia y límites encuentra en el pensamiento que se está desarrollando en Latinoamérica?

Yo creo que este pensamiento corre el riesgo de reproducir el pensamiento europeo. La primera vez que encontré a Dussel, enfatizaba que Hegel era un bandido o que no tenía razón. ¿Ésta es la aportación de América Latina al pensamiento? Pensaba. Parece que existe una dependencia colonial, tal vez demasiado marcada, en el pensamiento latinoamericano, cuando por ejemplo, Dussel quiere construir una ontología demasiado universalista expresa un atavismo que él recibió en su formación de sus estudios de filosofía europea.

En una ocasión fui invitado por el Instituto cultural de Japón, pedí un encuentro con filósofos. Lo que encontré fue gente que había estudiado en Alemania –a los mismos autores y los mismos textos – o a monjes budistas. Pero no encontré una figura comparable al filósofo que conocemos, el profesor de universidad. Tal vez la idea de filosofía parece ligada a una tradición lingüístico-cultural que condiciona muchísimo. Lo que me interesa de Latinoamérica es lo que puedo recibir para cambiar mi perspectiva filosófica profundamente. Esto lo espero profundamente porque América Latina está más cercana a mí de lo que está el Japón. Existen lenguas comunes como el español o el portugués. La base de la hermenéutica sostiene que debe existir una cierta familiaridad y un cierto extrañamiento para que yo pueda aprender algo. Si no sé absolutamente nada, no puedo aprender nada; pero si me repites lo que yo ya sé, no me interesa.

En América Latina tenemos muchas cosas en común como el cristianismo o las lenguas. Por otra parte, también existen experiencias interesantes. Por ejemplo, efectivamente, la vida comunitaria de los pueblos andinos es muy diferente. Pienso también en el socialismo cubano donde no hay la estructura de las elecciones democráticas de tipo norte americano pero hay mucha vida de base donde la gente discute y decide qué enviar al parlamento, me parece que es un testimonio de una tradición comunitaria diferente al del individualismo europeo. Pienso en Morales en Bolivia o en Chávez en Venezuela, que aunque no ha destruido el Estado democrático tradicional (pues hay elecciones y una burocracia) pero que estimula a “las misiones” que son grupos de ciudadanos comprometidos con las tradiciones comunitarias. Esto me interesa en Latinoamérica.

América Latina es un subcontinente rico en recursos naturales, joven y con bastantes actitudes progresistas. Una vez dicté una conferencia en Ecuador que se titulaba: “Latinoamérica como futuro de Europa”. Europa podrá salvarse si se convierte en una entidad menos eclipsada y dependiente del Atlántico Norte si emerge un bloque –como el latinoamericano– con el que compartamos afinidades; por razones de tradición o de lengua, pero con autonomía de los Estados Unidos. Todo lo que se produce en América latina me interesa… Tengo los libros de Dussel, pero tengo la sospecha que ya está infectado por la enfermedad universalista… (risas)

Por otra parte, América latina es la única posibilidad para Europa. Recuerdo que cuando eligieron a Lula –por ahí del 2000– yo ya me encontraba en el Parlamento Europeo y se dio una gran fricción. Incluso, la derecha que era intolerante de la influencia norteamericana diviso la posibilidad de una alternativa en Lula. Yo sigo en esta perspectiva: si América Latina desarrolla una estructura más socialista y una fuerza comunitaria o un bloque latinoamericano representará la única y verdadera posibilidad para Europa…

La ecología profunda se mostró reticente al cristianismo, pues sostenía que éste fue uno de los principales responsables de la crisis ecológica que estamos viviendo. La idea del hombre como Señor del jardín (antropocentrismo) permitió una actitud agresiva contra la naturaleza. ¿Cuál es su opinión? ¿Es la ecología profunda un pensamiento débil?

Obviamente, el cristianismo como se conoce ha sido la ideología de los vencedores, en el Occidente y en la modernidad. No sé a dónde vamos a buscar lo que la Iglesia llama hoy: la antropología bíblica. Yo no creo que exista una antropología bíblica o una astrología bíblica… Todo lo que está ligado a un cristianismo que sugiere una actitud de explotación sobre la naturaleza está íntimamente relacionado con el cristianismo metafísico del autoritarismo católico; si no de un Antiguo Testamento que cada vez me parece más extraño. Yo soy muy polémico en contra del estado de Israel en su política de destrucción de los palestinos, etc. Elaborando este pensamiento empecé a desarrollar una antipatía frente al dios del Antiguo Testamento porque es un Dios guerrero, celoso… el dios que mataba. Básicamente, el problema es este: un cristianismo anti-ecológico es el cristianismo imperial y metafísico que ha incluido algunos elementos de la antropología del antiguo testamento pero que no tiene nada que ver con Jesús. Es difícil definir una esencia del cristianismo que sea anti-ecológico, esta esencia ha sido definida por la modernidad o por la tradición católica que ha estado ligada a la metafísicamente griega o los poderes explotadores capitalistas del mundo. El desafío ecológico puede ayudar al cristianismo a reconstruirse auténticamente, por ejemplo dejar de lado la violencia del Antiguo Testamento y la conexión con la metafísica griega para descubrir, principalmente, el principio de la caridad.

La posmodernidad, como era del fin de los meta-relatos o como época donde la verdad no es una estructura metafísicamente constituida sino un evento, ha sido el contexto para la emergencia del New Age. El pensamiento de Joaquín de Fiore (tercera era) o de san Francisco de Asís (canto cósmico) se ha reactualizado en propuestas como la hipótesis Gaia (Lovelock). ¿Hasta qué punto dichas propuestas están en concordancia con el pensamiento hegemónico que culpa a los hombres y no al sistema? ¿En qué medida el New age es cómplice de un sistema (capitalista) que disimula su presencia?

Sí. Conozco muy poco el New Age pero sus manifestaciones están ligadas a una sociedad del consumismo. En principio soy favorable, posmodernamente, que cien flores florezcan –como decía Mao–. Como católico siempre fui educado a desconfiar de las sectas, pero como ahora sé que las sectas compiten con la Iglesia, por ello, ahora estoy abierto a ellas. Las sectas son formas de religiosidad múltiples. Sin embargo, desconfío del New Age porque me parece poco conflictual: “todo va, todo viene”. Hay un pasaje en el Así habló Zaratustra de Nietzsche donde Zaratustra predica “el eterno retorno de lo igual”, los animales que lo acompañan celebran ese “todo va, todo bien”. Zaratustra dice: ¡cuidado! Yo he tenido que morder la cabeza de la serpiente para realizar este mundo de libertad. Por ello, el New Age me parece comprometido con el capitalismo en el sentido que no piensa instituir una sociedad más libre sino que intenta utilizar los medios del capitalismo avanzado. Por una parte es interesante, pero limitado. Por ejemplo, los medios de comunicación. Celebramos que hay 100 canales de televisión. Sin embargo, si observamos cuidadosamente 50 de ellos pertenecen a un dueño y los otros 50 a otro. En la posmodernidad, existen posibilidades que se apuntan a nuevas formas de vida; pero en ocasiones se olvida o se omite el momento de la lucha. ¿Cómo se establece? Cuando Habermas habla de una sociedad dialógica donde no hay nada violento porque todo es acordado… Pero para establecer una sociedad donde exista el dialógica ¿Qué podemos hacer? ¿Es suficiente el diálogo? El problema, incluso en la construcción de una sociedad del diálogo, implica un momento de violencia y de fuerza, ésta es una cuestión que el New Age olvida. Todas las teorías sociales que conciben al capitalismo avanzado como un sistema que puede auto-conservarse o auto-reformarse son teorías ilusorias, ideológicas y conservadoras. Precisamos una teoría del conflicto básico. Desafortunadamente, pero es así.

¿Cómo interpretar la sentencia nietzscheana que sostiene que no hay hechos sino interpretaciones? Para Enrique Dussel, dicha postura es eurocéntrica puesto que no parte desde las víctimas. Para otros, como Slavoj Zizek, dicha sentencia debe leerse desde una postura “partisana-parcial”, donde la “verdad” al encontrarse inscrita en una sociedad de clases, no puede ser tratada de manera laxa, por ello, según Zizek dentro de la multiplicidad de opiniones existe un “conocimiento verdadero” y que éste es accesible, desde una posición partisana interesada. ¿Cuál es su opinión al respecto?

Me parece que la idea que afirma que no hay hechos sino interpretaciones es de suyo una revolución contra los poderes. Los que defienden la realidad de los hechos son los que están bien en dicha estructura metafísica. La metafísica como afirmación que hay “una Verdad”, hay hechos, hay algo estructuralmente dado: es la metafísica de los poderosos. Por tanto, la noción de que no hay hechos, sólo interpretaciones, es desde ya una opción para la lucha de clases porque si hay interpretación cuál voy a elegir ¿la más verdadera? No lo sé. Elijo la interpretación que comparto con la gente que se parece a mí. Cuando tengo que elegir una interpretación y no elegir lo ya dado, inmediatamente, estoy de lado de los oprimidos. Ningún rico dice: yo comparto la posición de los sindicatos… Hay un profundo sentido revolucionario en esta idea de la interpretación porque implica necesariamente una toma de partido, dicha toma de partido básicamente puede ser contra los poderosos, es decir, contra los que dicen que hay hechos. La otra vez dicté una conferencia titulada “Del pensamiento débil al pensamiento de los débiles”, donde expuse que nadie que sea fuerte o que tenga el poder creerá que “el ser” se debilita. Los poderosos son metafísicos por definición. Solamente los que no tienen poder pueden pensar débilmente. ¿Recuerda a Walter Benjamin en sus Tesis sobre la filosofía de la historia? Sólo los que están bien son los que piensan que la historia es racional: “yo tengo el poder y la verdad”. Son los otros, los débiles quienes se rebelan.

Entrevista publicada en la revista Metapolítica. No. 72 (Enero-Marzo, 2011)


giovedì 16 giugno 2011

Un giorno da pecora, 10 giugno 2011


Un giorno da pecora, 10 giugno 2011.

Alessandro Benetton dice che voterà SI ai referendum, Gianni Vattimo non andrà all' Europride, Gian Antonio Stella voterà SI però vuole un alternativa.

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Interrogazione alla Commissione sulle violenze della polizia a Barcellona

Interrogazione con richiesta di risposta scritta E-005789/2011 alla Commissione

Articolo 117 del regolamento

Gianni Vattimo (ALDE)

6 giugno 2011

Oggetto: Violenze della polizia a Barcellona, Spagna

A Barcellona, il 27 maggio scorso, 350 "Mossos d'Esquadra" e un centinaio di agenti della "Guardia Urbana", inviati "per motivi d'igiene e sanità pubblica"[1] , hanno sgomberato con l'uso della forza la Plaça Catalunya, dove dal 15 maggio migliaia di persone manifestavano pacificamente contro la crisi politico-sociale in cui la Spagna versa ormai da qualche anno[2] . Le immagini e i video, che hanno fatto il giro del mondo nei giorni scorsi[3] , mostrano episodi di grave violenza ad opera della polizia catalana nei confronti di manifestanti inermi[4] . Gli scontri hanno causato 121 feriti, i quali hanno riportato soprattutto lesioni legate ai colpi di manganello ricevuti dagli agenti di polizia. Il Washington Post ha affermato che le forze di polizia hanno "trascinato" e "picchiato i manifestanti, alcuni dei quali hanno riportato ferite sanguinanti sulle mani e sulla testa, e arti fratturati"[5] . Il ministro degli Interni della Generalitat de Catalunya, Felip Puig, difendendo l'azione della polizia, ha dichiarato che anche a posteriori riprenderebbe "la stessa decisione", ovvero quella di ordinare lo sgombero della piazza[6] . Già più volte, nel corso degli ultimi anni, le forze di polizia di alcuni Stati membri si sono rese protagoniste di un uso sproporzionato della forza nei confronti di dimostranti pacifici che partecipano a manifestazioni organizzate da cittadini, non ultimo in occasione delle manifestazioni studentesche in Italia nel dicembre scorso.

L'Unione europea e gli Stati membri sono tenuti a rispettare la libertà d'espressione (articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU); articolo 11 della Carta dei diritti fondamentali (CDF) e quella di riunione pacifica (articolo 11 CEDU; articolo 12 CDF), mentre le istituzioni europee sono tenute a promuovere l'applicazione degli articolo 2, 6 e 7 TUE.

Proprio nel momento storico in cui i nostri vicini arabi ci ricordano quotidianamente l'importanza di tali principi e valori, l'UE ed i suoi Stati membri non possono permettersi di negarli sul loro territorio.

La Commissione è a conoscenza di tali fatti? La Commissione non ritiene opportuno dover ribadire l'irrinunciabilità delle libertà summenzionate, come contemplate non solamente nella Carta dei diritti fondamentali, ma anche dagli articoli 2 e 6 TUE? Quali sono le iniziative che la Commissione intende intraprendere per richiamare i governi resisi protagonisti di queste violazioni?


[1] http://www.Ine.es/espana/2011/05/27/govern-defiende-carga-actuacion-mossos/1080981.html

[2] http://www.ilpost.it/2011/05/27/gli-scontri-di-barcellona/

[3] http://www.20minutos.tv/video/bmunFKLO-brutalidad-en-la-plaza-de-cataluna/0/desalojo-en-barcelona/

[4] https://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=Geg_6Xoy04s#at=20

[5] http://www.washingtonpost.com/business/121-injured-as-spanish-police-clash-with-protesters-in-makeshift-camp/2011/05/27/AGSJimCH_story.html

[6] http://www.Ine.es/espana/2011/05/27/govern-defiende-carga-actuacion-mossos/1080981.html