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mercoledì 18 luglio 2012

Ma non è nella natura che si scopre il divino


Ma non è nella natura che si scopre il divino

La Stampa, 5 luglio 2012
di Gianni Vattimo
 
Sarà pur vero che l’evento - solo cosi lo si può chiamare - che ha rotto la quiete uniforme del «tutto» prima della nascita delle cose ha avuto un peso decisivo nel prodursi di quella differenziazione di particelle da cui e’ cominciato, per ciò che ne sappiamo, il corso dell’evoluzione di cui, bene o male che sia, noi siamo per ora il punto di arrivo. Ma parlare del bosone di Higgs come se fosse Dio è davvero un po’ troppo. Non perché si tratti di una bestemmia («Dio bosone» è sicuramente un’espressione che fino a oggi non era venuta ancora in mente a nessun ateo blasfemo, per quanto dotto e accanito). Semmai, esprime un atteggiamento mentale che non ha più quasi alcun ascolto presso teologi, filosofi, uomini di fede. Riflette infatti la convinzione che Dio si possa in qualche modo scoprire in questo o quell’ aspetto della natura. Ma da quando Gagarin, spedito nel cosmo con la navicella, ovviamente atea, dell’Urss ha potuto esplorare il cielo senza trovare Dio, questa aspettativa «positivista» ha perso ogni senso, se mai ne ha avuto uno. Le cinque vie classiche di San Tommaso - quelle che «dimostravano» l’esistenza di Dio a partire dal mondo, di cui Dio sarebbe la causa prima o il motore ultimo - erano bensì molto più sofisticate dell’ ingenuo ateismo di Krusciov; ma anche loro hanno resistito poco all’affermarsi progressivo del convenzionalismo scientifico moderno. Ormai attribuiamo solo all’uomo primitivo - quello per il quale il tuono o il fulmine sono opera di un qualche soggetto supremo l’idea che il mondo materiale debba essere stato prodotto da una volontà originaria ritenuta onnipotente. San Tommaso stesso osservava che dal punto di vista di Aristotele sarebbe stato molto più razionale pensare al mondo come eterno. Se no come avrebbe potuto, una volontà perfetta e sottratta al divenire, e cioè immutabile, decidere, a un certo punto, di crearlo? Il racconto della creazione è un contenuto della fede, cui si crede (chi ci crede) come a un mito fondatore della nostra esistenza individuale e sociale che accettiamo perché sentiamo che senza di esso perderebbe ogni senso ciò che pensiamo e facciamo. Ma quanto a parlarne in termini di scienza fisica non ci prova ormai più nessuno.



Se anche dobbiamo pensare che il bosone di Higgs non c’entra niente con Dio, è però vero che scoperte come quella di oggi hanno un potente riflesso sulla nostra vita, sulla visione del mondo, dunque anche sulla nostra religiosità. E’ una specie di effetto che possiamo solo chiamare «neutralizzante» rispetto alla nostra storia vissuta. Come confrontare i pochi millenni della storia della specie umana con gli sterminati orizzonti delle ere geologiche, del formarsi del cosmo fisico e, appunto, con i minuti seguiti al big bang. La scienza moderna, del resto, si è formata anche e soprattutto criticando il racconto della Genesi, anzitutto contestando il geocentrismo biblico (ricordate il Galileo di Brecht, che ispira a molti l’idea che tutto ormai sia permesso). E ciò non solo per la sconsiderata volontà delle autorità religiose di difendere una cosmologia «rivelata» che veniva progressivamente dissolvendosi; ma anche e soprattutto perché, effettivamente, non era e non è facile pensare alla nostra storia umana in termini di storia della salvezza o anche solo, in termini laici, come storia della civilizzazione, e insieme alla nostra posizione nel cosmo, un battito d’ali di farfalla destinato a durare un attimo e a essere inghiottito dal silenzio cosmico. L’ostinazione con cui la Chiesa ha sempre tentato di contrastare la cosmologia moderna e il suo spirito illuministico riflette la preoccupazione, non così irragionevole, di conservare un senso alla storia umana - e dunque all’etica, alla politica, alla società - di contro al senso nichilistico, leopardiano, suscitato dal sentimento dell’infinito cosmico. Non c’è un’uscita consolante e pacificante da questo dilemma. Noi siamo - storicamente - quell’umanità che ha anche scoperto, se cosi è, il bosone di Higgs; ma questa scoperta è un momento della nostra storia. Non è una constatazione risolutiva, ma è con questa condizione duplice, librata tra storia e natura che dobbiamo fare i conti. 
 

venerdì 30 settembre 2011

Torino spiritualità: l'Europa, il tramonto di Spengler, la scienza


Vattimo, dialoghi sull’Apocalisse
Soltanto l’Europa si sente al tramonto
La Repubblica - Torino, 28 settembre 2011. Di Enzo Carnazza

Torino Spiritualità 2011, tema: il senso della Fine, del limite; il bisogno e la paura di un'Apocalisse intesa come rivelazione dei tempi ultimi. Ne parliamo con Gianni Vattimo, filosofo, docente universitario e parlamentare europeo.
Non è significativo che proprio in questo momento, caratterizzato da crisi finanziarie e sociali molto serie, si torni a parlare di Apocalisse, sia pure nei termini filologici di Rivelazione più che nel senso corrente di catastrofe attesa?
«Ci si chiede: ha senso parlare in questi termini oggi? E che cosa dobbiamo ricavare da questo modo di vedere il mondo? In realtà non mi stupisce affatto che si parli del nostro tempo in termini escatologici. Le epoche che avvertono il cambiamento si sentono sempre tutte all'ultima spiaggia. Non si sa dove si vive, non si in quale direzione ci si muove. Per questo ci si sente apocalittici. D'altra parte, non è una novità. Dal 1945 al 1955 il mondo ha vissuto sotto l'incubo della bomba atomica e la sensazione di una fine vicina non era affatto meno acuta. Negli Anni Novanta del secolo scorso accadde la stessa cosa. È una caratteristica della modernità. Quando i tempi cambiano velocemente, per le scoperte scientifiche per esempio, accade di sentirsi inadeguati».
Non solo paura, ma anche bisogno di cambiamento, allora.
«Certamente. E infatti tanto più constatiamo l'assenza di cambiamento, tanto più vengono esasperati i termini escatologici di cui parlavamo. Perché la verità è che non cambia mai niente. Guardi, quando mi assento dall'Europa magari per una settimana senza la possibilità di leggere i giornali, torno e trovo tutto esattamente come prima. Il tempo sembra scorrere rapido, ma in realtà il cambiamento non c'è».
La svolta che non c'è ne rende urgente il bisogno?
«Da cultore di Heidegger, sostengo che l'Essere ti cambia. Ma non c'è nessun Evento in grado di cambiare la nostra vita».
Non c'è qualche cosa di specifico nel senso di smarrimento dei giorni nostri, soprattutto se confrontato con le paure della metà del secolo scorso?
«La diversità fondamentale è che queste paure sono limitate all'Occidente, direi all'Europa. Il senso di smarrimento di cui parliamo non c'è in Cina, non c'è in India. Meno che mai lo riscontriamo in America Latina, dove al contrario c'è una grande fiducia nel futuro. E tuttavia l'epoca attuale richiama per certi versi gli anni Venti del secolo scorso. Crisi della finanza, globalizzazione, incertezza diffusa, segnali di xenofobia. Le ultime scoperte, sia pure da confermare, sulla velocità dei neutrini mettono il crisi la fisica di Einstein non meno di quanto Einstein stesso mise in crisi il sapere scientifico dell'epoca precedente».
L'uomo dunque non spera più di migliorare?
Oswald Spengler
«Se ci limitiamo all'Europa, è vero quel che lei dice. Il nostro sembra essere un mondo dal quale non ci si possono aspettare miglioramenti. Oswald Spengler scrisse nel 1918 Il Tramonto dell'Occidente: c'è qualche cosa di simile a noi nell'uomo descritto da Spengler. Un uomo che non spera di migliorare, ma che punta a conservare semplicemente quel che ha. Un mondo al tramonto. Ma, ripeto ancora, questo può essere vero soltanto per questo mondo, per questa Europa. Il resto del pianeta è un'altra cosa. Anche perché gli eventi non davano ragione a Spengler. Lei parlava di Einstein. Non so se sia un caso che la teoria della relatività generale nasca a Zurigo negli stessi anni in cui proprio a Zurigo emergono le avanguardie artistiche. Erano espressioni di un mondo che stava cambiando».
Non le sembra eccessivo il ruolo attribuito alla scienza e alla tecnica, ormai tentate di dire la loro anche in discipline riservate fino a ieri a filosofi e teologi?
«Guardi, il ruolo della scienza è favorito dal prestigio sociale degli scienziati. Le tecniche e la finanza muovono risorse economiche che premiano il loro lavoro a scapito delle altre discipline. Basta vedere che cosa accade nelle nostre Università: le Facoltà umanistiche non hanno un centesimo, ormai. Lo scienziato oggi è un divo, ma solo per il prestigio sociale di cui gode, per gli interessi economici e finanziari collegati alle sue attività. Non per la capacità della scienza di offrire risposte all'uomo del nostro tempo».

sabato 10 settembre 2011

Scienza, filosofia, postmoderno


Deboli e forti: cari filosofi, non idolatrate la scienza 
Il dubbio è essenziale per la conoscenza
Nicla Vassallo - Il Fatto Quotidiano, 9 settembre 2011

Il cosiddetto “new realism” in filosofia si trasforma in una qualche coniazione nazionale con nuove appendici (si veda, per esempio, l’amico Maurizio Ferraris, ma non solo), mentre, almeno nella terminologia, non lo è: basti ricordare il volume The new realism: cooperative studies in philosophy, Macmillan, uscito nel lontano 1912. Il gergo “pensiero debole” di Pier Aldo Rovatti e Gianni Vattimo, col conseguente “pensiero forte”, permane, invece, molto italiano: non si discetta internazionalmente, a largo spettro, di “weak thought” e “strong thought”. Le tre espressioni hanno, in ogni caso, rivissuto momenti di gloria, grazie a un dibattito, su più di una testata giornalistica, di bravi filosofi professionisti e dilettanti che si piccano di filosofare. A padroneggiare si è rivelata, tutto sommato, la pomposità con cui si sfoggiano vocaboli: “fatti”, “verità”, “interpretazioni”, “oggettività”, “nichilismo”, “post–moderno”, “senso comune”, “valori”, e via dicendo; parimenti, si è ricorsi alla scienza, non sempre a proposito.
Il costante appellarsi alla scienza, con tanto di fautori e detrattori al seguito, rimane l’effettivo problema di un’invadente ignoranza che consente di sposare (per esempio) la neuro–filosofia, senza saper quasi nulla di cervello, forse pure di filosofia. Regredendo fino uno scientismo, che auspicavamo superato da tempo: come si riesce, tuttora, a pensare che le tante nostre esplorazioni e incursioni debbano praticarsi solo col metodo scientifico, pena l’insensatezza? Eppure lo si pensa e lo si propaganda, tradendo tutta quella salubre filosofia della scienza che sul metodo riflette, con una Susan Haack, tra l’altro, che lo considera un mito proprio dello stesso scientismo. Tentiamo di sostenere la scienza, e finanziare la ricerca, invece di decimarla, senza concessioni intellettuali a scientismo e cinismo, consapevoli dell’implausibilità di un unico metodo scientifico per ogni scienza. Idolatrarla significa invece banalizzarla, oppure travisarla, misconoscendo il suo intrinseco fallibilismo, caratteristica comune a tutte le imprese conoscitive.
Banalità e travisamenti appartengono alla cattiva divulgazione che spaccia teorie scientifiche (pure pseudo–scientifiche, con pseudo–scienziati che fanno di tutto e di più; lo stesso vale a proposito dei pseudo–filosofi) per verità incontrovertibili dalle giustificazioni certe. Torniamo, piuttosto, a parlare sul serio di fatti e valori, oltre che di analogie, metafore, metodi, incertezze, progressi, scoperte, soluzioni di problemi, nel tentativo di comprendere le scienze. Già, perché non si dà un’unica scienza. E in filosofia appelliamoci a queste scienze, con cognizione di causa, cosa che s’impone, del resto, nel trattare di realismo ingenuo e scientifico. Impieghiamo metafisica e teoria della conoscenza, da sempre discipline principe, per chiarire le questioni normative e valoriali, sollevate anche dalle scienze, che ci premono, in quanto esseri umani, la cui natura consiste, stando ad Aristotele, nell’aspirare alla conoscenza. Saggiamolo noi stessi con un “esperimento mentale” (a cui le stesse scienze ricorrono; non esistono solo quelli empirici): immaginiamo di perdere ogni conoscenza e domandiamoci, ammesso che vi riusciamo ancora, cosa ci rimane, se non la nostra integra brutalità di dantesca memoria. E subito dopo dubitiamo, ovvero applichiamo un sobrio scetticismo, a noi nonché alle scienze. Il dubbio risulta indispensabile per la conoscenza e la democrazia, insieme all’autorevolezza – a ognuno il proprio lavoro, con coscienza, senza la superbia autoritarista di riferire ciò di cui si è inesperti. Cosicché la filologia, non altro, è consigliabile alla francezizzante presunzione di chi aderisce allo slogan di Jacques Derrida “il n’y a pas de hors–texte”, sempre che si disponga delle competenze.
Pensiero debole o forte, infine, con andirivieni vari e contrapposizioni a iosa? Mah, senza confondere il primo con l’ermeneutica, meglio realizzare che, a dispetto di Richard Rorty, non è mai morta la filosofia incentrata sulla teoria della conoscenza, né è mai nata quella incentrata sull’ermeneutica: le critiche rortiane alla teoria della conoscenza non reggono, mentre gli esseri umani non possono concedersi di rinunciare a conoscere, e, al fine di stabilire se davvero conoscono, occorre stabilire che cos’è la conoscenza. Dopodiché s’indagheranno i rapporti tra conoscenza da una parte e interpretazioni e schemi concettuali dall’altra, nonché si vaglierà quanto una delle fonti conoscitive, l’osservazione, osservazione scientifica inclusa, risulti “theory–laden”.

giovedì 21 aprile 2011

Le centrali atomiche, la trasparenza e i limiti della scienza

Le centrali atomiche, la trasparenza e i limiti della scienza

Aetnascuola.it, 12 aprile 2011

I limiti della scienza e della ricerca: intervista a Gianni Vattimo, filosofo del "pensiero debole"

Gianni Vattimo è professore di Filosofia Teoretica all’Università di Torino, già Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia presso lo stesso ateneo. Ha studiato con Hans-Georg Gadamer e Luigi Pareyson. Negli anni cinquanta con Furio Colombo e Umberto Eco, ha lavorato per alcuni programmi culturali della Rai-Tv, conducendo anche il programma settimanale politico-informativo Orizzonte. Membro di comitati scientifici di varie riviste italiane e straniere, ha diretto la Rivista di Estetica. Nel 1997 ha ricevuto l’Onorificenza di Grande Ufficiale al Merito della Repubblica Italiana. È attualmente vicepresidente dell’Academía da Latinidade. Nel 2009 è stato rieletto al Parlamento europeo, dopo il primo mandato dal 1999 al 2004. È conosciuto come il teorico del Pensiero debole. La sua riflessione filosofica è sempre attenta ai problemi della società. Ora, dopo la catastrofe giapponese, tutti i Paesi del mondo si interrogano sul nucleare; la sua opinione resta contraria all’introduzione in Italia di questa tecnologia; per Vattimo si dovrebbe equilibrare il rapporto tra ricerca scientifica e realizzazione tecnologica alle esigenze della società.

Professor Vattimo cosa rappresenta nella società odierna il pensiero debole? È sinonimo di relativismo etico o vuole fondare la legittimità di valori diversi?

Il Pensiero debole è un discorso contro la nozione di fondamento. Il termine fondamento è stato utilizzato nella tradizione filosofica come punto di riferimento ultimo, come evidenza prima, è un concetto su cui tutto si fonda ma che, a sua volta, non è oggetto di domanda. L’evidenza prima è in genere un eccesso di confidenze; in realtà il pensiero debole è l’idea di criticare le pretese di definitività delle metafisiche che ci hanno preceduto e abbiamo ereditato. Non è un’invenzione individuale, è un pensiero filosofico che ritroviamo in Nietzsche e Heidegger. Quando il fondamento è dato come evidente e ci si arresta senza poter andare oltre, non si fa altro che identificare l’essere con l’ente. Il Pensiero debole è un discorso sulla libertà di fronte al fondamento. C’è una frase di Heidegger, scritta in uno dei suoi ultimi saggi, molto emblematica: “Lasciar perdere l’essere come fondamento”. È un relativismo moderato, senza fondamenti assoluti ed equivalenti, in quanto possiamo essere d’accordo su alcune cose mentre su altre mai. Non abbiamo l’arbitrio di decidere quello che vogliamo, esso è controllato dagli altri. Potrei citare un mio collega, Santiago Zabala e anche Orti quando sostiene: “Pur che la conversazione vada avanti”. Heidegger parla dell’essere come linguaggio, lo identifica nel dialogo; l’unico fondamento di cui disponiamo è ciò su cui concordiamo, sono un esempio le leggi o, ancora, il riconoscere la tradizione dei classici, perché sono opzioni su cui convergiamo congiuntamente. Questo significa che sarà anche relativismo, ma poco soggettivo e ancor meno individualistico. È più un discorso di appartenenza a comunità di fede, di valori, in cui gli stessi non sono assoluti. Volendo fare un esempio politico: quando la Chiesa o qualche scuola sostengono che esistono principi non negoziabili è soltanto una questione di autoritarismo. Perché i principi non dovrebbero essere negoziabili? Quali risposte potrebbero trovarsi al di là dei principi stessi? A mio avviso questo contrasta la libertà individuale.

Da filosofo e politico, qual è la sua posizione in merito al nucleare in Italia?

Sono contrario poiché esistono rischi da non trascurare, non soltanto legati alla sicurezza delle centrali ma anche allo smaltimento delle scorie radioattive. Si può ragionare in termini politici su questioni legate alle opportunità tecnologiche. Un mondo pieno di scorie radioattive sarebbe un mondo militarizzato, non voglio immaginare cosa accadrebbe se un malintenzionato penetrasse in un deposito con l’intenzione di commettere atti terroristici, ne potrebbe derivare una catastrofe. Un Paese militarizzato si trasformerebbe in uno Stato in cui verrebbe a mancare il principio di libertà. Esistono tutt’ora tante altre mancanze di libertà nella nostra società, ancor di più se aggiungessimo il problema delle scorie. Ciò che è accaduto in Giappone, anche se per colpa di un fortissimo terremoto e di un altrettanto devastante tsunami, dimostra che si devono sviluppare altre fonti di energia. Da filosofo ritengo di essere antisviluppista; non posso pensare che l’emancipazione umana sia fondata su uno sfruttamento di risorse. Il consumismo, che non condivido assolutamente, è connesso a queste problematiche. Un Pensiero debole è anche un pensiero ecologico volto alla riduzione dell’aggressività in tutti i campi e soprattutto in quello ecologico.

Scossi dal disastro nucleare di Fukushima, il mondo e la comunità scientifica si interrogano sulla sicurezza di questa tecnologia. Secondo lei uno scienziato deve essere libero di fare ricerca teorica e pratica a prescindere da ogni possibile risvolto negativo per la vita delle comunità umane?

Voglio affermare che non considero i diritti della ricerca come diritti assoluti. È la solita questione: il diritto assoluto della scienza alla ricerca si fonda sul quel feticcio che è la verità con la “v” maiuscola. Conoscere la verità è un valore quando serve a qualcosa, si dovrebbe sostituire al concetto di verità quello di carità, soprattutto nel caso dei valori condivisi nel rispetto dell’altro. Non diciamo che siamo d’accordo perché abbiamo trovato la verità, diciamo che abbiamo trovato la verità perché siamo d’accordo. I diritti della scienza sono interessanti, nella nostra storia sono esistiti tanti scienziati pazzi che hanno fatto molte scoperte unicamente per perseguire il loro sogno di verità, altri invece hanno portato avanti scoperte perché volevano raggiungere uno scopo. Quale scienziato non sogna di arrivare grazie alle sue ricerche al Nobel? Non esiste la ricerca disinteressata della verità, è sempre legata a qualche ragione, ribadisco: niente feticci di disinteresse sul valore assoluto della verità.

Qual è allora il giusto equilibrio tra natura, scienza e cultura?

Una gestione più democratica della ricerca scientifica. So benissimo che non si può chiedere a tutti i cittadini di diventare degli esperti di fisica nucleare. Quando ci sarà il referendum sul nucleare cosa potrò fare da cittadino? Potrei chiedere opinioni alla comunità scientifica, però anche quest’ultima è divisa. Come seconda opzione potrei scegliere di farmi informare dagli scienziati migliori, ma qui sorge un secondo problema: sono io in grado di decidere quali sono i migliori? Allora scelgo di confrontare le mie opinioni con qualcuno che condivide i miei ideali politici o con le persone che incontro tutte le domeniche a messa. Non posso accettare solo quello che dice la scienza, potrei farlo se fossero assolutamente tutti d’accordo su questo tema. È una problematica legata alla comunità e alla vita. Bisognerebbe equilibrare alle esigenze della società il rapporto tra ricerca scientifica e realizzazione tecnologica. Credo che la definizione di Lenin sul comunismo come “l’elettrificazione più i Soviet” sia ancora la migliore; egli stesso sosteneva il progresso scientifico, industriale, sotto il controllo dei Soviet, con rispetto parlando per l’Unione Sovietica.

La Tepco, multinazionale energetica che gestisce gli impianti nucleari in Giappone, ha nascosto negli anni diversi problemi tecnici riguardanti le sue centrali. Quando il potere economico è nelle mani di una multinazionale, a suo avviso, come cambia il rapporto tra sviluppo tecnologico e democrazia?

Cambia a vantaggio del capitale e del capitalismo. Una multinazionale per definizione tende a sottrarsi alle discipline nazionali. Purtroppo torna attuale un’espressione delle Brigate Rosse, che ha scandalizzato molto in passato poiché era accompagnata da efferati delitti, sullo Stato imperialista delle multinazionali definito con l’acronimo Sim. Oggi le multinazionali sono l’unica realtà esistente, le organizzazioni politiche in genere sono rinchiuse in un ambito nazionale perdendo così potere. L’Unione Europea è permeata da lobby e interessi. Su questo argomento sono di parte: il capitale mondiale con questo assetto è un vero e proprio mostro incontrollabile.

Multinazionali e capitale, quali sono le ripercussioni sull’individuo?

È anche un problema filosofico, Heidegger utilizzava una bellissima espressione: Gestell. Altro non è che l’insieme delle posizioni, della volontà produttiva. Produrre merci per mezzo di altre merci e denaro per mezzo di denaro, un grande automatismo ma non una legge assoluta. Un pensatore come Severino ha definito questo processo come la logica del nichilismo, oggi ha un nome: capitale. Continuo ad essere un materialista storico, bisognerebbe tagliare la testa ad alcune idre.

Il mondo ha cominciato a riconsiderare le proprie posizioni sulle centrali nucleari soltanto dopo l’ennesima catastrofe. Alcuni pensatori sostengono la necessità di istituire Università delle catastrofi per studiare il problema alla radice. Cosa ne pensa?

È un quesito molto interessante. Nessuno riflette a fondo sul problema fino a quando l’evidenza non fornisce gli strumenti per farlo. Anch’io avrei voluto rendermi conto dei rischi che comporta il nucleare senza assistere a tutte queste catastrofi: l’esperienza è sempre uno shock. La vita personale è fatta di trasformazioni prodotte da incontri che spesso diventano scontri. Guardo all’esperienza non tanto come veniva definita dagli empiristi, cioè approccio sperimentale alla conoscenza, ma piuttosto sono d’accordo con il pensiero di Hegel: l’esperienza è uno scontro con antitesi che devono essere continuamente sintetizzate, uno shock. Non sono in disaccordo con chi teorizza le Università delle catastrofi, questo non per giustificare un disastro in sé, semplicemente perché così accade nel mondo.

Stephen Hawking, matematico e astrofisico, profetizza come unica possibilità di sopravvivenza per l’uomo emigrare nello spazio. Latouche, invece, pone la teoria della decrescita come unico modo per contrastare il fallimento dello sviluppo sostenibile. Qual è la sua opinione in merito?

Simpatizzo molto con le teorie di Latouche, emigrare nello spazio ovviamente è qualcosa che l’uomo ancora vede come sogno per il futuro, Hawking rappresenta l’andamento della nostra storia da tempo, naturalmente non vorrei che si finisse verso un colonialismo spaziale. Si pongono entrambi il medesimo problema sotto prospettive differenti: il primo guarda all’ideale di una società nel futuro, l’altro guarda alle posizioni da prendere nell’immediato. Latouche ci dà delle indicazioni concrete su come il genere umano dovrebbe comportarsi con il proprio pianeta. Quando sarà possibile migrare nello spazio ne riparleremo. Hawking non è irrealistico, è forse una posizione troppo futuristica. Una cosa è certa: se si continua con questa politica e non si pone un freno allo sfruttamento delle risorse, l’umanità si troverà in una situazione ben più grave di quella attuale.

Aetnascuola nasce con l’intento di offrire un’informazione ad ampio spettro su temi e problemi scolastici della provincia di Catania e della regione Sicilia, senza trascurare il più ampio panorama di riferimento nazionale. Particolare attenzione rivolgeremo all’annosa questione dei precari, alle loro esigenze e ai loro bisogni, perché il mondo dei supplenti è una grande risorsa della scuola, spesso ingiustamente misconosciuta e bistrattata. Parallelamente intendiamo offrire un servizio a tutte le scuole siciliane per la diffusione di iniziative, concorsi, attività che possano testimoniarne la vitalità.

martedì 18 gennaio 2011

La fine del mondo non finisce mai

La fine del mondo non finisce mai

Il tema del Festival delle Scienze a Roma: che cosa cambia nella nostra attesa del futuro a mano a mano che si dissolvono le credenze tradizionali nell'aldilà

GIANNI VATTIMO, TuttoLibri, 16 gennaio 2011

A parte il nome di una fermata del bus che a Patmos sale dalla spiaggia al centro del paese (e che segnala il luogo dove Giovanni Evangelista avrebbe scritto il famoso libro finale della Bibbia), il termine apocalisse evoca sempre meno il suo significato originale di rivelazione, la luce entro la quale si aprirebbe il libro «in cui tutto è contenuto e su cui il mondo sarà giudicato» (come canta il Dies Irae). Apocalittico è sempre più esclusivamente un disastro di grandi proporzioni, che fa pensare alla fine di tutto - ma appunto, senza nessun «senso» e nessun «dopo».

Già un bel libro di Eugenio Corsini, uscito nel 1980, aveva annunciato, sulla base di un accurato esame del testo giovanneo, che non c’era da attendere l’apocalisse, perché essa è già avvenuta con l’incarnazione, morte e resurrezione di Gesù Cristo. Ora che, periodicamente (scadenze del secolo e del millennio, incombere del 2012 o 2020 che sia, e soprattutto tsunami e catastrofi ecologiche a catena...) si riparla di apocalisse in termini sempre meno «rivelativi», sembra che, non senza qualche paradosso, il richiamo di uno studioso come Corsini sia penetrato nella cultura comune. Anche nelle chiese si sente sempre meno parlare del giorno del giudizio; all’inferno ci credono ormai in pochi (lo aspetterà la stessa cancellazione del limbo?), i predicatori se ne tengono per lo più alla larga.

La fantascienza si concentra sulla fine e mai, o quasi, sul nuovo inizio (nuovi cieli e nuova terra), che pure la fine del mondo attuale sembrava promettere.

Secolarizzazione, perdita di prospettive utopiche (anche la rivoluzione non se la passa troppo bene), riduzione ai minimi termini delle virtù teologali di fede speranza; senza che questo comporti un aumento della terza, la carità, purtroppo.

Ricordate le tre domande di Kant: che cosa posso sapere, che cosa devo fare, che cosa posso sperare? Oggi come oggi, possiamo solo sperare che il giorno della fine del mondo non piova, insomma che, come dice del resto anche Gesù nel Vangelo, il disastro finale non comporti troppo dolore, che la faccenda si sbrighi il più in fretta possibile. Ma il giudizio universale? La punizione dei malvagi e il premio ai buoni?

Bah, abbiamo in mente una bellissima vignetta del Wizard of Id, dove un carcerato, forse in attesa di esser giustiziato, viene intervistato: «Lei crede in una vita dopo la morte?». Risposta: «Again?». Di nuovo? E non con il tono di una gioiosa aspettativa.

Per quanto si possa rimpiangere la fede e la speranza «ingenua» di cui la secolarizzazione ci ha privati, non è forse tutto negativo ciò che in tal modo è accaduto. Pensiamo, per esempio, a quanta fatica faceva San Paolo per distogliere i primi cristiani dal calcolare o cercare di accelerare, con pratiche divinatorie e magiche, la seconda venuta di Cristo, e anche dall’immaginare in termini concreti quel che sarebbe successo: «Non sapete né il giorno è l’ora; verrà come un ladro nella notte»: E: «se vi diranno: eccolo qui, o là, il Messia, non credeteci...».

Certo non è bello pensare al futuro solo come a un destino della fine. Abbiamo sempre sperato nella risurrezione della carne anche come ritrovamento di quelli che abbiamo perduto, persino come recupero dei nostri stessi corpi nella loro pienezza vitale («Renovabitur ut aquilae iuventus tua»). Tra l’altro, mentre si secolarizza e si impoverisce la nostra immagine dell’Aldilà, scienza e tecnica annunciano sempre nuovi sviluppi nello sforzo di allungare la vita e forse avvicinarci all’immortalità. Certo questa dovrebbe accompagnarsi con la colonizzazione di altri mondi: biologia più astrofisica più telecinesi...

Qui stiamo solo cercando - in base a una troppo elementare «fenomenologia dell’apocalisse» - di capire che cosa cambia della nostra esperienza di viventi, e anche di credenti, con la progressiva dissoluzione delle credenze tradizionali nell’al di là. Il genio di Clint Eastwood ci si è da ultimo applicato, nel film Hereafter dando voce ai racconti di chi è morto ed è «ritornato» (ricordi di coma e simili). Ma non è difficile immaginare che anche queste esperienze siano poco più che sogni che si prolungano appunto nel coma (in greco: sonno). Si può vivere umanamente senza immaginare un dopo, e nemmeno un tribunale finale che dovrebbe saziare anche la nostra fame e sete di giustizia? Uno come Aristotele riusciva a vivere così, e non era proprio uno stupidello.

Pensava, più o meno, che la partecipazione alla vita divina si risolvesse per noi in momenti puntuali di intensità, e che per il resto l’immortalità fosse da cercare nella generazioni di figli e nipoti; oltre che nel preparare con una vita buona quei momenti divini. Non sarà più o meno quello che Gesù dice quando parla del regno di Dio che è dentro di, o in mezzo a, noi? La liquidazione del limbo potrebbe essere solo l’inizio di una liquidazione più generale di «enti» che, in quanto si pretendano oggettivamente esistenti, sono solo idolatria, come quella che San Paolo combatteva nei destinatari delle sue lettere: bellissime fonti per l’ispirazione di artisti e poeti, ma ormai cose della nostra infanzia. Forse San Paolo sarebbe più d’accordo con chi si gode il brivido della fantascienza magari vedendovi uno stimolo ad operare nell’al di qua, senza fantasticare troppo su ciò che ci capiterà in quel momento di cui non sappiamo né il giorno né l’ora.

lunedì 11 ottobre 2010

Scienziati alla sbarra

di Gianni Vattimo, L'espresso, 08/10/2010
Gli umanisti diffidano in genere delle pretese di validità assoluta avanzate dalle scienze sperimentali. Ora Laurent Ségalat, genetista del Cnr francese, analizza, in un pamphlet di gustosa lettura, le pecche dei sistemi di legittimazione che vigono nel mondo scientifico. "La scienza malata?" (Cortina, pp. 158, e 13,50) è di grande attualità anche perché, nella foga di "aziendalizzare" ricerca e insegnamento universitari, si va a caccia di criteri capaci di valutare i risultati anche in campi che sembrano sfuggire a valutazioni oggettive: che punteggio si sarebbe assegnato, in un concorso per fondi pubblici, alla "Critica della ragion pura"?

Ségalat mostra quanto sia determinante il peso dei canali che forniscono legittimazione ai risultati della ricerca. Le riviste più prestigiose decidono sulla base di giudizi di comitati di esperti condizionati da interessi estranei al puro amore della verità. La malattia di cui soffre la scienza dipende dall'affermarsi di uno spirito di competizione che favorisce frettolosità, falsificazione e plagio, o promuovendo (con finanziamenti pubblici) ricerche di corto respiro che piacciono a comitati poco rispettosi dei ritmi più lenti di cui avrebbe bisogno una scienza innovativa.
ISBN: 9788860303486
Editore: Cortina Raffaello