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martedì 12 marzo 2013

La vitalidad del chavismo

por Gianni Vattimo

Traducción de Cristina Sardoy, El Clarín


“Il n’est pas tombé, il est mort!” Esta frase, atribuida tradicionalmente –creo- a Jean-Antoine Carrel, uno de los primeros escaladores del Monte Cervino, me viene a la mente con una conmoción que hasta a mí me resulta nueva –pienso en la desaparición de Hugo Chávez. Tampoco él cayó, resistió con firmeza hasta la muerte, haciendo de su resistencia a la enfermedad un emblema de su lucha política por el ideal de una América Latina “bolivariana”. Para mí, como para muchos otros occidentales con mi formación, Chávez tenía todas las cualidades para ser mirado con desconfianza: militar, “golpista” al menos en los inicios de su aventura política, populista, “caudillo”, etcétera, etcétera.

giovedì 7 marzo 2013

Ecco perché Chavez mi ha affascinato

di Gianni VattimoLa Stampa


“Il n’est pas tombé, il est mort”: questa frase, riferita tradizionalmente – credo – a Jean Antoine Carrel, uno dei primi scalatori del Cervino, mi viene in mente ora mentre, con una commozione che riesce nuova anche a me - penso alla scomparsa di Hugo Chavez. Anche lui non è caduto, ha tenuto duro fino alla morte, facendo della sua resistenza alla malattia un emblema della sua lotta politica per l’ideale di una America Latina  “bolivariana”. Per me come per tanti occidentali della mia formazione, Chavez aveva tutte le qualità per essere guardato con sospetto: militare, “golpista” almeno agli inizi della sua avventura politica, populista, “caudillo”, e via dicendo.

giovedì 7 febbraio 2013

Vattimo y la crisis


por Andrés Ortiz-Osés (filósofo español)


Es mérito de Gianni Vattimo haber criticado al capitalismo contemporáneo mucho antes de su crisis actual, cuando aparecía como arrogante y casi invencible. Pero en su último libro, escrito con su discípulo Santiago Zabala, el filósofo italiano afila sus argumentos críticos no sólo contra el capitalismo sino también contra la democracia liberal, a la que nuestros autores denominan irónicamente la “democracia emplazada”: emplazada como una empalizada o “fuerte” frente a sus adversarios débiles o debilitados tachados de comunistoides o anarcoides. Pues bien, nuestros autores recogen el reto y se declaran sin complejos como comunistoides y anarcoides, representantes de un comunismo siquiera débil por cuanto pasado por la hermenéutica relativizadora.

Evo Morales, Lula y Hugo Chavez
El libro que comentamos de Vattimo y Zabala se titula precisamente Comunismo hermenéutico (Herder, Barcelona 2012), y en él se defiende frente a la democracia capitalista un comunismo débil. Hablar de comunismo hoy resulta obviamente provocativo de lo establecido, pero también convocativo de la izquierda dispersa, evitando el término conservador de comunitarismo, así como el más atrabiliario de comunalismo. Sin duda los autores agitan el fantasma del comunismo como un espectro o daimon, capaz de poner en solfa al neoliberalismo imperante. Un tal espectro tiene hoy el aspecto del socialismo latinoamericano propio de Lula, Chávez, Morales y demás socios del nuevo comunismo democrático en Sudamérica.

giovedì 29 novembre 2012

"Sólo un comunismo débil puede salvarnos"


La Vanguardia, 29 novembre 2012
Intervista a Gianni Vattimo
di Vìctor-M. Amela


De verdad es comunista?
¿Qué otra cosa se puede ser, tal como van las cosas?

El comunismo dejó 70 millones de muertos...
No fue el comunismo.

¿Qué, entonces?
El industrialismo. Lenin propuso electrificación más sóviets, es decir, control popular..., ¡pero el control popular se esfumó!

¿Y qué quedó?
El industrialismo: Stalin impuso el desarrollo de la industria pesada contra el agro, y de ahí los desplazamientos de poblaciones, los sacrificios, muertes... ¡Un sueño loco!

Un horror.
Pero... sin aquella fuerza industrial estalinista, ¡los nazis hubiesen ganado!

martedì 16 agosto 2011

Mercati in guerra

L'Espresso, 18 agosto 2011


Mercati in guerra
Anche e soprattutto la democrazia è fondamentalmente competizione: partiti e movimenti competono per ottenere l’approvazione dell’elettorato e così accedere al governo. Il modello è quello della concorrenza tra produttori di beni e servizi, insomma il modello del mercato. La convinzione generale è che quanto più si libera la competizione, tanto più vantaggi ne deriveranno per esempio nella qualità dei prodotti, nell’abbassamento dei prezzi, nella più generale disponibilità di beni. Il paradosso di questo generale liberismo è, come mostra Alessandro Casiccia nel suo ultimo libro, e come molti di noi ormai hanno sperimentato nel corso delle ondate di liberalizzazione (per esempio dei sevizi telefonici, per non parlare della TV) è che la libertà del mercato tende ad autodistruggersi (più o meno come il capitalismo nella profezia di Marx) con la creazione di oligopoli e monopoli. I competitori non hanno interesse a che l’avversario sopravviva, e cioè che la libera competizione prosegua e si sviluppi. L’ideologia della competizione, con la sua contraddizione di base, permea ormai tutta la nostra cultura e l’esistenza quotidiana. Anche i lavoratori sono coinvolti in questa spirale, che Casiccia riassume nell’espressione molto efficace di "Intimidazione e assillo". Le vicende recenti di contratti come quello della Fiat di Pomigliano ne sono esempi eloquenti. Se sia possibile una uscita dalla società competitiva verso un recupero di qualità umana della convivenza, è una domanda che il libro lascia aperta, e non solo per la nostra riflessione teorica.
Gianni Vattimo

Alessandro Casiccia,
I paradossi della società competitiva, con introduzione di L. Gallino, Mimesis, pp. 116, euro 14.

sabato 23 gennaio 2010

Ben scavato vecchio Karl

Ben scavato vecchio Karl
Come e perché torna attuale il suo pensiero, un cantiere riaperto di fronte alle crisi del capitalismo

La Stampa - TuttoLibri, sabato 23 gennaio 2010

GIANNI VATTIMO
Ricordate la battuta di qualche anno, o decennio, fa: «Dio è morto, Marx è morto, e anch'io non mi sento troppo bene»? Ebbene forse possiamo cancellarla definitivamente. Dio se la cava ancora egregiamente, nonostante i dubbi alimentati dalle condotte scandalose dei suoi ufficiali rappresentanti in terra; e Marx è ormai largamente risuscitato per merito del palese fallimento del suo nemico storico, il capitalismo occidentale, salvato solo dalle misure «socialiste» dei governi liberali dell'Occidente.
Ad annunciare con freschezza (e audacia) giovanile il ritorno di Marx è uno studioso torinese emigrato temporaneamente al San Raffaele di Milano, dottorando sotto la saggia guida di Giovanni Reale, un accademico non uso a coltivare giovani ingegni sovversivi. Bentornato Marx!, con il punto esclamativo, è il titolo dell'affascinante libro di Diego Fusaro uscito presso Bompiani (pp. 374, e 11,50). Il libro ha il difetto di portare una dedica al sottoscritto, che ha avuto la ventura di essere tra i professori torinesi presso i quali ha studiato l'autore. Ma ne posso parlare senza pudore perché, a parte l'affettuosa dedica, di mio nel libro non c'è niente, credo nemmeno una citazione; il che può ben valere come garanzia: sia della serietà del lavoro, sia dell'assenza di qualunque conflitto di interesse in questa recensione.
Anzitutto, ci voleva la passione e il coraggio di uno studioso giovane per affrontare l'impresa di una ripresentazione complessiva del pensiero di Marx; non tanto perché ancora agli occhi di molti Marx sembra essere un argomento tabù. Ma soprattutto perché bisognava fare i conti con una bibliografia sterminata di studi critici, di interpretazioni anche politicamente contrastanti, senza metterli semplicemente da parte come se fosse possibile tornare al «vero Marx» saltando la storia della fortuna e sfortuna dei suoi testi; e senza, d'altra parte, farsi travolgere dalle discussioni tra gli interpreti, producendo un ennesimo studio in cui Marx risulta oscurato da uno dei tanti ritratti che pretendono di rappresentarlo.
Fusaro è riuscito egregiamente a evitare i due rischi, e ha raccontato con chiarezza e vivacità vita e dottrina di Marx prendendo anche francamente posizione su tante questioni interpretative presenti nella vasta letteratura che cita e discute nelle note. Uno dei temi ricorrenti nel libro è quello del rapporto tra Marx e il marxismo. Ma, dice Fusaro, l'opera di Marx è stata sempre un cantiere aperto - anche il Capitale è un libro incompiuto; e pretendere di cercare una verità originaria di Marx è sempre stata solo la tentazione dei dogmatismi che hanno creduto di richiamarvisi anche in connessione con politiche di dominio.
Dogmatismo è anche parlare di un socialismo «scientifico», ovviamente. Un vasto settore del marxismo novecentesco è stato dominato (si pensa ad Althusser) dall'idea che Marx sia stato anzitutto uno scienziato della società: proprio Althusser insisteva sulla «rottura epistemologica» che separerebbe il Marx giovane (i famosi Manoscritti economico-filosofici del 1844) dal Marx del Capitale, analista obiettivo della società dello sfruttamento e dell'alienazione.
Fusaro, del resto con l'appoggio di molti studi recenti, mostra che neanche l'analisi obiettiva delle strutture del capitalismo condotta nel Capitale sarebbe possibile senza l'operare, nello spirito di Marx, di un costante proposito normativo. Il termine «critica» che ricorre così spesso nei titoli dei suoi scritti - dalla Critica della filosofia del diritto di Hegel fino allo stesso Capitale che è sottotitolato «Critica dell'economia politica», ha sempre avuto per lui il duplice significato: analisi di un oggetto per determinarne il significato e valore, e smascheramento e denuncia di errori e mistificazioni.
Per questo Marx merita la qualifica di pensatore «futurocentrico»; per il quale la filosofia non deve limitarsi a descrivere (o addirittura, a contemplare) il mondo, ma deve trasformarlo (come dice la famosa undicesima delle Tesi su Feuerbach). A quella che Gramsci definirà la «filosofia della prassi» Marx giunge partendo da posizioni che condivide con i «giovani hegeliani», discepoli di Hegel che radicalizzavano in senso rivoluzionario le tesi del maestro, ma sempre mantenendosi nell'ambito di una critica teorica degli errori: così, la religione veniva smascherata come proiezione del desiderio di perfezione dell'uomo, ma tutto si limitava a sostituirvi un atteggiamento mentale filosofico.
Via via che, anche come giornalista della Gazzetta Renana, Marx acquista conoscenza concreta delle condizioni di sfruttamento in cui vivono i salariati della sua epoca, le posizioni di critica filosofica dei giovani hegeliani gli appaiono sempre più insufficienti: se l'uomo proietta in Dio una immagine di perfezione e felicità che non può avere, non basta spiegargli questo meccanismo alienante; bisogna modificare le condizioni di miseria e di infelicità in cui di fatto vive. Questo in fondo è il significato fondamentale del materialismo storico, che come lo spettro del comunismo ha tanto spaventato le borghesie di tutto il mondo.
Il Manifesto del Partito comunista, scritto nel 1848, è un lavoro «su commissione», Marx e Engels lo scrivono per mandato dalla Lega dei comunisti che si riunisce a congresso nel 1847, mentre nel 1864 parteciperanno alla fondazione della Associazione internazionale dei lavoratori, poi passata alla storia come la Prima Internazionale. Anche se da «giovane hegeliano» ha aspirato alla carriera accademica, Marx è ormai un attivista politico, anche la grande impresa scientifica del Capitale nasce in questo clima.
Ma: critica e azione politica in nome di che? Marx, nonostante le apparenze e le opinioni di tanti suoi interpreti, è un «filosofo della storia», eredita da Hegel, rovesciandone il senso puramente idealistico, una prospettiva finalistica (una traccia secolarizzata di religiosità): non che ci «sia» un senso dato della storia, ma certo l'uomo lo può creare se si progetta in un tale orizzonte. La descrizione scientifica del capitalismo ha solo senso in questa prospettiva emancipativa. Che nonostante il «sonno della ragione» mediatico-televisivo in cui siamo caduti, ha ancora, e di nuovo, la capacità di svegliare anche noi: davvero, bentornato Marx!