Altri due interventi sul dibattito pensiero debole/new realism, pubblicati entrambi da Liberazione il 18 settembre 2011.
«La "natura" femminile? Il pretesto per trasformare tutte le donne in badanti»
di Tonino Bucci
A colloquio con Francesca Rigotti, docente di dottrina politica e studiosa dei processi simbolici
«Ho tutte le colpe di questa terra. Sono comunista, femminista e atea».
Francesca Rigotti insegna dottrina politica all'università di Lugano, è
una studiosa di processi simbolici e delle metafore che si utilizzano
non solo nel discorso filosofico, ma anche nel linguaggio della politica
e dell'esperienza ordinaria. Le società umane - ha sostenuto nel suo
intervento al Festival filosofia di Modena - ricorrono spesso ad
analogie con i fenomeni naturali per descrivere processi culturali.
Platone applicava la metafora del parto e della generazione all'atto
della creazione intellettuale - all'interno del dialogo del "Teeteto",
dedicato alla fondazione dell'episteme. «La donna nel mondo greco è
considerata solo ricettacolo, incubatoio, terreno di coltura del seme
maschile. E' solo agli uomini che è riservata la capacità di generare, o
attraverso il corpo, riproducendosi nei figli, o attraverso l'anima, la
conoscenza, la virtù». L'argomento del «così è, in quanto conforme a
natura» è il più utilizzato dai fondamentalismi, da quelli religiosi
alla tecnocrazia, ovunque insomma vi sia un presunto ordine naturale,
eterno e immutabile, che debba dettare legge. Francesca Rigotti ha
approfondito questi temi ne "Il pensiero delle cose", "La filosofia
delle piccole cose" e "Partorire con il corpo e con la mente".
Judith Butler, uno dei suoi riferimenti, sostiene che il genere è una costruzione culturale. Di biologico non c'è nulla. Qual è il pericolo nel voler definire una presunta natura femminile per differenza da quella maschile?
Nel 2004 uscì una lettera di Ratzinger - a quel tempo cardinale - sulla posizione della donna nella Chiesa cattolica. Apparentemente si presentava come una riabilitazione della natura femminile, in realtà riduceva la donna alla funzione materna di cura e accudimento. Non posso più sentire questo discorso. Vedo tutte noi trasformate in badanti. Di fatto, è quello che facciamo. Se da domani, per ipotesi, tutte le donne smettessero di fare da stato sociale, di accudire i nipoti, di mantenere i figli, di lavorare per gli altri, crollerebbe l'intero sistema. Di questa ideologia - della donna come essere che si prende cura, contrapposta alla natura maschile aggressiva e guerriera - cadono talvolta prigioniere le stesse donne. Ho citato il caso di Edith Stein, ebrea, filosofa e fenomenologa, allieva brillantissima di Husserl, che la utilizzava solo per farle trascrivere i propri manoscritti. A un certo punto della sua vita Stein si convertì al cattolicesimo e finì in un convento. Fu una sorta di soluzione estrema, una scelta dettata da un complesso di inferiorità e da un desiderio di integrazione. Qualcosa del genere deve essere accaduto anche nel caso di Fouad Allam, che ha sentito il bisogno di convertirsi al cattolicesimo in mondovisione, per nascondere la propria origine. Sono paturnie di integrazione totale.
Anche il razzismo ricorre all'argomento della naturalizzazione di ciò che afferma. «Gli arabi sono aggressivi per natura», «gli omosessuali sono contronatura», «le donne sono fatte così» e via dicendo. Ma anche in altri campi ricorriamo ad analogie con i fenomeni naturali. E' solo un caso?
Quando ci mancano i vocaboli per parlare di questioni astratte ricorriamo all'analogia con fenomeni materiali. Lo sosteneva già Vico. Ricorriamo agli umani sensi e alle umane passioni per parlare delle cose che non conosciamo. Conosciamo il fenomeno generativo e lo applichiamo alla generazione delle idee.
Platone ricorre alla metafora del parto proprio nel dialogo dedicato all'episteme, alla conoscenza, al logos. Curioso, no?
Uno dei miti fondativi è quello del labirinto di Dedalo. Chi risolve il problema? Lo risolve Arianna dando il filo a Teseo. Quel filo - sostiene Giorgio Colli ne "La sapienza dei greci" - è il logos, il filo della ragione. Ma Teseo si impadronisce di questo logos che Arianna gli porge fisicamente, se ne appropria con un'operazione di astrazione. Il paradosso è che Arianna trova la soluzione, ma l'istante successivo il mito stabilisce che le donne non hanno il logos. La mitologia compie un'operazione sofisticata: utilizza la metafora della generazione femminile per descrivere l'atto della creatività intellettuale, che però viene riservata esclusivamente agli uomini
C'è un dibattito tra sostenitori dell'ermeneutica - Vattimo, per esempio - e sostenitori del ritorno al realismo, Ferraris in testa. Certo, non possiamo fare a meno dell'idea di verità, ma supporre un reale immutabile e indipendente dalla nostra attività non rischia di offrire un ancoraggio a discorsi autoritari?
Ho sentito di questi discorsi, anche qui al Festival. Quando sento dire che dovremmo tornare al realismo mi scatta un campanello d'allarme. Avverto il rischio di derive. Se non puoi avere più ideali la politica diventa pura amministrazione di una realtà sulla quale non hai più potere.
La realtà - come diceva il vecchio Marx - va pensata assieme alla sua negazione…
Se non è più possibile uno scarto rispetto alla realtà esistente è finita.
Judith Butler, uno dei suoi riferimenti, sostiene che il genere è una costruzione culturale. Di biologico non c'è nulla. Qual è il pericolo nel voler definire una presunta natura femminile per differenza da quella maschile?
Nel 2004 uscì una lettera di Ratzinger - a quel tempo cardinale - sulla posizione della donna nella Chiesa cattolica. Apparentemente si presentava come una riabilitazione della natura femminile, in realtà riduceva la donna alla funzione materna di cura e accudimento. Non posso più sentire questo discorso. Vedo tutte noi trasformate in badanti. Di fatto, è quello che facciamo. Se da domani, per ipotesi, tutte le donne smettessero di fare da stato sociale, di accudire i nipoti, di mantenere i figli, di lavorare per gli altri, crollerebbe l'intero sistema. Di questa ideologia - della donna come essere che si prende cura, contrapposta alla natura maschile aggressiva e guerriera - cadono talvolta prigioniere le stesse donne. Ho citato il caso di Edith Stein, ebrea, filosofa e fenomenologa, allieva brillantissima di Husserl, che la utilizzava solo per farle trascrivere i propri manoscritti. A un certo punto della sua vita Stein si convertì al cattolicesimo e finì in un convento. Fu una sorta di soluzione estrema, una scelta dettata da un complesso di inferiorità e da un desiderio di integrazione. Qualcosa del genere deve essere accaduto anche nel caso di Fouad Allam, che ha sentito il bisogno di convertirsi al cattolicesimo in mondovisione, per nascondere la propria origine. Sono paturnie di integrazione totale.
Anche il razzismo ricorre all'argomento della naturalizzazione di ciò che afferma. «Gli arabi sono aggressivi per natura», «gli omosessuali sono contronatura», «le donne sono fatte così» e via dicendo. Ma anche in altri campi ricorriamo ad analogie con i fenomeni naturali. E' solo un caso?
Quando ci mancano i vocaboli per parlare di questioni astratte ricorriamo all'analogia con fenomeni materiali. Lo sosteneva già Vico. Ricorriamo agli umani sensi e alle umane passioni per parlare delle cose che non conosciamo. Conosciamo il fenomeno generativo e lo applichiamo alla generazione delle idee.
Platone ricorre alla metafora del parto proprio nel dialogo dedicato all'episteme, alla conoscenza, al logos. Curioso, no?
Uno dei miti fondativi è quello del labirinto di Dedalo. Chi risolve il problema? Lo risolve Arianna dando il filo a Teseo. Quel filo - sostiene Giorgio Colli ne "La sapienza dei greci" - è il logos, il filo della ragione. Ma Teseo si impadronisce di questo logos che Arianna gli porge fisicamente, se ne appropria con un'operazione di astrazione. Il paradosso è che Arianna trova la soluzione, ma l'istante successivo il mito stabilisce che le donne non hanno il logos. La mitologia compie un'operazione sofisticata: utilizza la metafora della generazione femminile per descrivere l'atto della creatività intellettuale, che però viene riservata esclusivamente agli uomini
C'è un dibattito tra sostenitori dell'ermeneutica - Vattimo, per esempio - e sostenitori del ritorno al realismo, Ferraris in testa. Certo, non possiamo fare a meno dell'idea di verità, ma supporre un reale immutabile e indipendente dalla nostra attività non rischia di offrire un ancoraggio a discorsi autoritari?
Ho sentito di questi discorsi, anche qui al Festival. Quando sento dire che dovremmo tornare al realismo mi scatta un campanello d'allarme. Avverto il rischio di derive. Se non puoi avere più ideali la politica diventa pura amministrazione di una realtà sulla quale non hai più potere.
La realtà - come diceva il vecchio Marx - va pensata assieme alla sua negazione…
Se non è più possibile uno scarto rispetto alla realtà esistente è finita.
Un nuovo realismo anche per l'arte contro la banalità del profitto
di Roberto Gramiccia
Il dibattito sul Postmoderno e i suoi risvolti estetici
Quella di un Nuovo realismo è la prospettiva che ha aperto Maurizio
Ferraris nella relazione tenuta a Carpi del Festival della Filosofia. Si
tratta di un tema che ultimamente ha riempito di sè pagine di giornali e
riviste specializzate. Esso è stato posto in una relazione oppositiva
rispetto ai fondamenti del Postmoderno. E, in particolare, della lettura
che ne offre, ormai da molti anni, il Pensiero debole di Gianni
Vattimo. Da questa lettura, non priva di aspetti interessanti e
propositivi, relativi in particolare ad un'attenzione che tende a
evitare qualsiasi assolutismo e qualsiasi pensiero "perfettista", trae
alimento, tuttavia, gran parte del repertorio di luoghi comuni che in
qualche modo sostiene il "Pensiero unico".
In arte, in particolare, la liquidazione di qualsiasi prospettiva modernista, di qualsivoglia cultura del futuro e della trasformazione (le stesse dalle quali traeva origine la temperie delle avanguardie e delle neoavanguardie) ha prodotto una deriva relativistica e banalizzatrice, che ha lasciato libero il campo alle scorrerie liberiste e liberticide che hanno trasformato l'arte in merce e l'artista in un funzionario passivo del sistema dell'arte.
Il paradigma fondativo di questo sistema non è la ricerca, non è la qualità artistica, non è la creatività ma il profitto. Solamente il profitto. Un pensiero forte, quindi, che paradossalmente utilizza il "Pensiero debole" di Vattimo come una sorta di ambiguo grimaldello. La negazione, infatti, di qualsiasi prospettiva, connotata nel senso del cambiamento (e della rivoluzione), ha legittimato tutti quei processi di smaterializzazione dell'arte già ampiamente autorizzati da una lettura fondamentalista della lezione di Duchamp.
E così, ad esempio, la Transavanguardia ha letteralmente teorizzato l'impossibilità di un "nuovo radicale", lasciando agli artisti solo la possibilità prevalente, se non esclusiva, di "ruminare" i fondamentali dei vecchi "ismi" (dell'Espressionismo novecentesco in particolare). E più corpo che mai ha preso l'idea, già in sé fortissima, che l'arte possa prescindere da un legame forte fra progetto, materia, forma e spazio. Questa cosa qui mandava in bestia Alberto Burri, tanto per fare un nome (un grande nome) molto prima che si affermasse il Postmoderno. Ma quest'ultimo, imponendosi, ha reso possibile che tutte le teorie, anche quelle che decretano la fine della storia (Fukuyama), e quindi dell'arte, possano essere ritenute legittime.
E' per questi motivi che il ragionamento di Maurizio Ferraris e dei filosofi che animeranno il grande convegno che si terrà in primavera a Bonn sui temi del New Realism, e che ha avuto al Festival della Filosofia una sua autorevolissima anticipazione, riveste una particolare importanza, per la sua dimensione filosofica, evidentemente, ma anche per il suo coté estetico.
«Non esistono fatti ma solo interpretazione dei fatti» è la fin troppo citata frase di Nietzsche che è a fondamento della deriva relativistica del contemporaneo.
L'utilizzo fondamentalista dell'affermazione di Nietzsche - che non esistono dati assoluti e definitivi ma che essi si danno in quanto interpretazioni dell'uomo - ha autorizzato l'imporsi di un pensiero che, mentre conferma lo stato di cose presenti, pretende di fondarsi su una visione rispettosa di ogni punto di vista. E così il Pensiero unico, che tanto si ispira a una lettura certamente volgare del Postmoderno, è diventato il collante del blocco sociale che sostiene l'attuale sistema di potere nel mondo occidentale.
Ferraris e il Nuovo realismo mettono in discussione questo punto di vista, non certo per ritornare ad una visione prepotentemente assolutistica e/o banalmente positivistica ma, semmai, per riaffermare il primato dell'autonomia e della precedenza del mondo esterno rispetto ad ogni schema percettivo e conoscitivo.
In arte, come in filosofia, pur non sottovalutando l'enorme gamma delle interpretazioni possibili, si deve ritornare a non poter prescindere da un dato di realtà fondamentale e cioè che le cose sono fuori di noi e vivono di vita propria. I fenomeni, quelli sociali e quelli estetici, esistono indipendentemente dall'interpretazione che noi siamo in grado di darne. E sono di entità diversa e diversamente influenti sulla storia e sulle sue dinamiche.
La realtà inconfutabile dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo non può essere messa sullo tesso piano di altre "verità minori" che pure è possibile sostenere. Così come, in arte, è fondamentale la valutazione del "peso del reale". C'è un artista (Pizzi Cannella) che recentemente ha affermato che tutti i pittori sono realisti, indipendentemente dallo stile iconico, aniconico, installativo, concettuale da essi prescelto. Intendeva dire, evidentemente, che il mondo esterno pre-esiste ed influenza tutti gli artisti, a patto che essi siano tali, e cioè capaci e liberi.
Il punto è che proprio questa libertà negli ultimi decenni è stata messa in discussione e quindi, piuttosto che la libera ricerca che non può non tenere conto del reale, si è imposta la liturgia (per altro noiosa e iterativa) della stanca ripetizione di operazioni concettual-tecnologico-installative, più o meno sensazionalistiche, che riempiono gli attuali musei d'arte contemporanea.
Per questo pensiamo che il Nuovo realismo di Ferraris possa far bene alla filosofia. Possa far bene all'arte.
In arte, in particolare, la liquidazione di qualsiasi prospettiva modernista, di qualsivoglia cultura del futuro e della trasformazione (le stesse dalle quali traeva origine la temperie delle avanguardie e delle neoavanguardie) ha prodotto una deriva relativistica e banalizzatrice, che ha lasciato libero il campo alle scorrerie liberiste e liberticide che hanno trasformato l'arte in merce e l'artista in un funzionario passivo del sistema dell'arte.
Il paradigma fondativo di questo sistema non è la ricerca, non è la qualità artistica, non è la creatività ma il profitto. Solamente il profitto. Un pensiero forte, quindi, che paradossalmente utilizza il "Pensiero debole" di Vattimo come una sorta di ambiguo grimaldello. La negazione, infatti, di qualsiasi prospettiva, connotata nel senso del cambiamento (e della rivoluzione), ha legittimato tutti quei processi di smaterializzazione dell'arte già ampiamente autorizzati da una lettura fondamentalista della lezione di Duchamp.
E così, ad esempio, la Transavanguardia ha letteralmente teorizzato l'impossibilità di un "nuovo radicale", lasciando agli artisti solo la possibilità prevalente, se non esclusiva, di "ruminare" i fondamentali dei vecchi "ismi" (dell'Espressionismo novecentesco in particolare). E più corpo che mai ha preso l'idea, già in sé fortissima, che l'arte possa prescindere da un legame forte fra progetto, materia, forma e spazio. Questa cosa qui mandava in bestia Alberto Burri, tanto per fare un nome (un grande nome) molto prima che si affermasse il Postmoderno. Ma quest'ultimo, imponendosi, ha reso possibile che tutte le teorie, anche quelle che decretano la fine della storia (Fukuyama), e quindi dell'arte, possano essere ritenute legittime.
E' per questi motivi che il ragionamento di Maurizio Ferraris e dei filosofi che animeranno il grande convegno che si terrà in primavera a Bonn sui temi del New Realism, e che ha avuto al Festival della Filosofia una sua autorevolissima anticipazione, riveste una particolare importanza, per la sua dimensione filosofica, evidentemente, ma anche per il suo coté estetico.
«Non esistono fatti ma solo interpretazione dei fatti» è la fin troppo citata frase di Nietzsche che è a fondamento della deriva relativistica del contemporaneo.
L'utilizzo fondamentalista dell'affermazione di Nietzsche - che non esistono dati assoluti e definitivi ma che essi si danno in quanto interpretazioni dell'uomo - ha autorizzato l'imporsi di un pensiero che, mentre conferma lo stato di cose presenti, pretende di fondarsi su una visione rispettosa di ogni punto di vista. E così il Pensiero unico, che tanto si ispira a una lettura certamente volgare del Postmoderno, è diventato il collante del blocco sociale che sostiene l'attuale sistema di potere nel mondo occidentale.
Ferraris e il Nuovo realismo mettono in discussione questo punto di vista, non certo per ritornare ad una visione prepotentemente assolutistica e/o banalmente positivistica ma, semmai, per riaffermare il primato dell'autonomia e della precedenza del mondo esterno rispetto ad ogni schema percettivo e conoscitivo.
In arte, come in filosofia, pur non sottovalutando l'enorme gamma delle interpretazioni possibili, si deve ritornare a non poter prescindere da un dato di realtà fondamentale e cioè che le cose sono fuori di noi e vivono di vita propria. I fenomeni, quelli sociali e quelli estetici, esistono indipendentemente dall'interpretazione che noi siamo in grado di darne. E sono di entità diversa e diversamente influenti sulla storia e sulle sue dinamiche.
La realtà inconfutabile dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo non può essere messa sullo tesso piano di altre "verità minori" che pure è possibile sostenere. Così come, in arte, è fondamentale la valutazione del "peso del reale". C'è un artista (Pizzi Cannella) che recentemente ha affermato che tutti i pittori sono realisti, indipendentemente dallo stile iconico, aniconico, installativo, concettuale da essi prescelto. Intendeva dire, evidentemente, che il mondo esterno pre-esiste ed influenza tutti gli artisti, a patto che essi siano tali, e cioè capaci e liberi.
Il punto è che proprio questa libertà negli ultimi decenni è stata messa in discussione e quindi, piuttosto che la libera ricerca che non può non tenere conto del reale, si è imposta la liturgia (per altro noiosa e iterativa) della stanca ripetizione di operazioni concettual-tecnologico-installative, più o meno sensazionalistiche, che riempiono gli attuali musei d'arte contemporanea.
Per questo pensiamo che il Nuovo realismo di Ferraris possa far bene alla filosofia. Possa far bene all'arte.
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