Penati e il pensiero debole
L'Unità, 7 settembre 2011. Di Bruno Gravagnuolo
Due dibattiti di questa estate, senza apparente connessione. La fine del
«pensiero debole», e il caso Penati. Che c'entrano l'uno con l'altro?
Molto, perché il debolismo in filosofia, noto anche come post-moderno, è
stato un alone di mentalità vincente e di massa che ha favorito cinismo
e disincanto. In politica, nell'etica civile e nelle scienze umane o
nell'arte. Sicché, quando oggi Maurizio Ferraris, peraltro ex debolista,
sfida Vattimo su Repubblica, proponendo il suo «nuovo realismo», dice
una banalità sacrosanta: senza fondamenti della conoscenza ci sono solo i
ghirigori del nichilismo, l'irresponsabilità in etica e
l'indifferentismo. Di là del fatto poi che Vattimo abbia platealmente
contraddetto il suo debolismo. Con la sua indignazione giacobina contro
Berlusconi, e il suo gravitare tra Di Pietro e neocomunisti. Ma al
pensiero debole che dissolve ogni pensiero di sinistra ha fatto
riscontro un pensiero forte di destra: populista, identitario,
leaderistico, all'insegna dello stato spettacolo. E qui veniamo al caso
Penati. Il quale al di là degli sviluppi giudiziari va rubricato così:
napoleonismo localistico, confusione tra politica e interessi,
disinvoltura e opacità sulle grandi scelte che riguardano la vita dei
cittadini. Bene, è stato ed è un partito debole e «lieve», a consentire
l'onnipotenza dei potentati locali (da Bassolino in su e in giù).
Potentiplebiscitati da spinte maggioritarie. Che blindano sindaci,
governatori e amministratori, e li dotano di poteri insindacabili.
Dunque, partito debole e notabili forti, appartenenza debole e pratiche
rampanti. E cioè: il partito nazionale non conta e dipende dalle
periferie. Morale: contro il riesplodere della questione morale non
bastano le regole e i probi viri. Ci vuole un partito forte con un
pensiero forte. Partito lieve e politica lieve fanno comodo solo
all'avversario.
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