mercoledì 7 settembre 2011

Accostamenti arditi, vittima il pensiero debole

Penati e il pensiero debole
L'Unità, 7 settembre 2011. Di Bruno Gravagnuolo

Due dibattiti di questa estate, senza apparente connessione. La fine del «pensiero debole», e il caso Penati. Che c'entrano l'uno con l'altro? Molto, perché il debolismo in filosofia, noto anche come post-moderno, è stato un alone di mentalità vincente e di massa che ha favorito cinismo e disincanto. In politica, nell'etica civile e nelle scienze umane o nell'arte. Sicché, quando oggi Maurizio Ferraris, peraltro ex debolista, sfida Vattimo su Repubblica, proponendo il suo «nuovo realismo», dice una banalità sacrosanta: senza fondamenti della conoscenza ci sono solo i ghirigori del nichilismo, l'irresponsabilità in etica e l'indifferentismo. Di là del fatto poi che Vattimo abbia platealmente contraddetto il suo debolismo. Con la sua indignazione giacobina contro Berlusconi, e il suo gravitare tra Di Pietro e neocomunisti. Ma al pensiero debole che dissolve ogni pensiero di sinistra ha fatto riscontro un pensiero forte di destra: populista, identitario, leaderistico, all'insegna dello stato spettacolo. E qui veniamo al caso Penati. Il quale al di là degli sviluppi giudiziari va rubricato così: napoleonismo localistico, confusione tra politica e interessi, disinvoltura e opacità sulle grandi scelte che riguardano la vita dei cittadini. Bene, è stato ed è un partito debole e «lieve», a consentire l'onnipotenza dei potentati locali (da Bassolino in su e in giù). Potentiplebiscitati da spinte maggioritarie. Che blindano sindaci, governatori e amministratori, e li dotano di poteri insindacabili. Dunque, partito debole e notabili forti, appartenenza debole e pratiche rampanti. E cioè: il partito nazionale non conta e dipende dalle periferie. Morale: contro il riesplodere della questione morale non bastano le regole e i probi viri. Ci vuole un partito forte con un pensiero forte. Partito lieve e politica lieve fanno comodo solo all'avversario.

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