
Giovanni Jervis era nato nel 1933, dunque scompare abbastanza prematuramente. E tuttavia, se si pensa alla grande popolarità di cui aveva goduto ai tempi dei “Quaderni piacentini” si deve riconoscere che la sua figura di intellettuale pubblico era notevolmente sbiadita negli ultimi anni. Lo diciamo non come giudizio su di lui – Jervis ha continuato e scrivere e pubblicare fino all’ultimo, con il rigore e l’impegno che hanno sempre contraddistinto il suo lavoro; ma considerando la fortuna e la presenza pubblica della disciplina – una antropologia sociale fondata sulla psicoanalisi, ricca di risvolti politici – di cui era l’esponente di punta in Italia, un personaggio più o meno del livello di Elvio Fachinelli, anche lui morto troppo presto dieci anni fa.
Ciò che si legge nella parabola degli scritti di Jervis, fino al libro liquidatorio dell’antipsichiatria e anche a quello contro il relativismo, è il generale ritorno all’ordine che ha segnato quei movimenti sociali che, a cominciare dalle teorie di Franco Basaglia, di Michel Foucault, di Cooper e Laing, avevano avuto anche nel richiamo alla psicoanalisi e alla psichiatria uno dei loro punti di riferimento decisivi. Nel momento in cui il lavoro di Jervis subisce la definitiva interruzione, il pubblico dei non specialisti – a cui del resto lui si era cosi spesso rivolto – non può non domandarsi se il movimento di ritorno all’ordine che è visibile anche nella psicoanalisi come in altre scienze umane di oggi, abbia un senso positivo e possa essere salutato come un affermazione della razionalità (cosi lo pensava Jervis) oppure non faccia parte di quel “riflusso” conservatore che il troppo e dominante buon senso non smette di raccomandarci.
Gianni Vattimo
(La Stampa, 3 agosto 2009)