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lunedì 14 dicembre 2015

Non basta un quaderno nero per liquidare Heidegger


Riprendo con questo pezzo, uscito il 12 dicembre 2015 sul Fatto quotidiano, il discorso interrotto da più di un anno. A chi ha orecchie per intendere - Continua, spero. gv



Liquidare Heidegger? Questa domanda, che circola da tempo nel dibattito pubblico non solo italiano, si ripresenta ancora una volta dopo il recente convegno tenutosi a Roma per iniziativa del Dipartimento di Filosofia della Sapienza, con l’appoggio dell’ambasciata tedesca e della Fondazione Humboldt, e diretto da Donatella Di Cesare, la massima esperta italiana del tema. Che erano i Quaderni neri di Heidegger, i quattro volumi di note, appunti, osservazioni varie che il filosofo scrisse tra il 1931 e i 1948 lasciando  scritto nel testamento che essi avrebbero dovuto  venir  pubblicati  alla fine delle sue opere complete; queste, in numerosissimi volumi sono stampate dall’editore Klostermann, che vi ha annesso, come volumi 94,95,96,97 appunto i quaderni, curati da Peter Trawny, per un totale di circa 1700 pagine. 

martedì 5 febbraio 2013

Eco è sempre Eco

31/01/2013, L'Espresso
di Gianni Vattimo

Due fasi nel pensiero del grande intellettuale? No. Leggendo la raccolta degli "Scritti sul pensiero medievale", dice il filosofo, si nota la coerenza del metodo. Tomista.



Dovremo dunque riconoscere che c'è un primo Eco e un secondo Eco, così come si parla comunemente di un primo e secondo Heidegger o di un primo e secondo Wittgenstein? Una questione rilevante, perché è certo che uno degli elementi che tengono viva la ricerca su un autore, e dunque la fortuna delle sue idee, oltre alla mole del suo eventuale "Nachlass" di inediti da scoprire decifrare, pubblicare (Nietzsche, Benjamin come sommi esempi), è anche la questione dell'eventuale evoluzione o trasformazione interna del suo pensiero, con tutti i risvolti biografici e storico-generali (qui soprattutto Heidegger: il secondo Heidegger è nato con la scelta nazista?).


A tutte le ragioni della già stragrande popolarità di Eco se ne aggiunge dunque una che finora non era apparsa, e ciò accade principalmente con la pubblicazione, nella collana Bompiani del Pensiero occidentale diretta da Giovanni Reale, dei suoi "Scritti sul pensiero medievale". Sono 1.332 pagine di testi che, partendo dalla tesi di laurea (uscita nel 1956) su "Il problema estetico in Tommaso d'Aquino" (discussa a Torino sotto la guida di Luigi Pareyson) e fino alla "Intervista (immaginaria) a Tommaso d'Aquino" per il "Corriere della Sera", (2010) includono tutto (o solo probabilmente tutto) l'Eco medievalista, costituendo una sorpresa non solo per i lettori dei suoi scritti più recenti (filosofia, semiotica, romanzi, giornali, enciclopedie e storie della cultura) ma anche per coloro che lo hanno seguito fin dagli inizi della sua carriera di pensatore. (Sia detto tra parentesi, chi scrive fu uno dei primi recensori del libro su San Tommaso e degli studi sull'Estetica medievale negli anni Cinquanta del secolo-millennio scorso. "Quantum mutatus ab illo", dice Enea a Ettore nell'Eneide).

mercoledì 28 novembre 2012

Il nuovo realismo e la sfida dell'esistenza


Per concessione dell'autore, sempre in merito al dibattito sul realismo, pubblico qui un contributo molto interessante di Giacomo Pisani apparso qualche giorno fa sul sito filosofia.it

 

Il nuovo realismo e la sfida dell'esistenza

di Giacomo Pisani

L’incalzare della riflessione sul “nuovo realismo”, a livello nazionale, ci pone di fronte a questioni in cui è implicato il nostro stesso stare al mondo, costringendoci a rifuggire qualsiasi riduzionismo.

Il nuovo realismo di Ferraris (da qualche mese è uscito il “Manifesto del nuovo realismo”) sembra voler rilanciare la sfida col reale nella semplicità di uno schema che riduce gli oggetti in tre classi: gli oggetti naturali, esistenti nello spazio e nel tempo indipendentemente dai soggetti; gli oggetti sociali, la cui esistenza nello spazio e nel tempo dipende invece dai soggetti stessi; e gli oggetti ideali, che esistono fuori dello spazio e del tempo indipendentemente dai soggetti. Ora, per Ferraris, il disincanto dall’illusione postmodernista, che affermando che “non ci sono fatti, solo interpretazioni”, ci ha esposti al populismo e al negazionismo, passa attraverso il ritorno all’evidenza degli oggetti naturali. La costituzione di questi ultimi costituisce l’ “inemendabile”, che eccede qualsiasi costruzione categoriale. L’indipendenza dell’oggetto rispetto agli schemi del soggetto e, in generale, della epistemologia, costituisce dunque un criterio di oggettività che resiste a qualsiasi tentativo di interpretazione e di falsificazione.

sabato 23 giugno 2012

In risposta a qualche commento sullo Heidegger di Faye

In risposta ai commenti giunti al post "Heidegger, nazismo e filosofia"

Perché Faye e non altri più attendibili? Credo sia perché fa più scandalo, sembra una "scoperta" (dell'acqua calda) che smove una certa ortodossia che - giustamente - considera Heidegger un classico da cui non si può prescindere; e poi corrisponde di più all'ondata di "nuovo realismo" che alcuni filosofi o pseudo tali cavalcano aiutati dalla stampa "indipendente", la stessa che crea il mito di Monti e poi lo ritrova nei sondaggi... Insomma si tratta di assecondare un ritorno all'ordine "atlantico", che si giova anche della caccia al nazista per riaffermare il buon diritto del mainstream "occidentale", spacciandolo per il solo punto di vista "umano". Quanto all'errore di Heidegger troppo "greco", la mia tesi è che Heidegger, scegliendo Hitler nel 1933, ha ceduto a un vecchio mito della cltura tedesca tra Sette e Ottocento, che vedeva nella Germania la vera erede della grande tradizione europea proveniente dalla Grecia pre-classica. Ma nella stessa filosofia di Heidegger, che ha sempre sostenuto che l'essere stesso non si dà mai in presenza, ma sempre solo come altro dall'ente, ci sono i principi per evitare di identificare una determinata civiltà - quella greca preclassica o quella tedesca nazista che pretendeva di riprodurla - con la vera civiltà umana. Quello di Heidegger nazista è dunque anzitutto un autofraintedimento, che proprio in nome dei suoi principi va rifiutato e gli va rimproverato.

Che poi la filosofia per essere valida debba sapermi indicare le ragioni per cui il nazismo è disumano è un discorso più complesso: dovrei supporre che una filosofia possa e debba essere "vera" in modo definitivo. Questo lo pensavano i vincitori della Seconda guerra mondiale, lo pensa Bush quando bombarda l'Iraq per affermare il "vero" diritto degli iracheni alla democrazia, lo pensa l'occidente che si crede legittimato a colonizzare e dominare il mondo in nome della propria verità. Io so che - viste le mie esperienze e ciò che condivido con i miei "prossimi", concittadini, amici, compagni politico-culturali e religiosi di cui  mi fido - non devo essere nazista. Sarà la verità assoluta? Se lo credessi, diventerei un pericolo pubblico per tutti quelli che non la pensano come me, un fanatico, appunto un nazista, sia pure di colore diverso. Heidegger scelse male i propri compagni di strada. Condizionato, anche se non giustificato, dalla situazione disperata della Germania della sua epoca. Noi lo sappiamo e abbiamo il dovere di tenerne conto; ma non come se fossimo Dio...

Gianni Vattimo

lunedì 11 giugno 2012

Vattimo: la academia de filosofía itinerante

Vattimo: la academia de filosofía itinerante

El ensayista italiano estuvo de ronda en Buenos Aires dejando a su paso cuestionamientos sobre los conceptos absolutos. “En Europa, hay clima de resignación”, sentenció.

Ñ Revista de Cultura, 23.05.2012. POR Julieta Roffo

El filósofo italiano Gianni Vattimo anduvo por Buenos Aires y, como los futbolistas que se adaptan a distintas posiciones en el campo, se movió en escenarios diferentes y ante públicos disímiles, pero en cada conferencia subrayó dos de sus ideas más importantes: que con el correr de los años –de las décadas, de los siglos– crece lo que él ha llamado “el pensamiento débil”, y que no existe una única verdad sobre un hecho, sino tantas interpretaciones como testigos haya. Para Vattimo, se trata de dos conceptos irrenunciables.
La primera de sus presentaciones fue el domingo 6 en la Feria del Libro: a su cargo estaba la última de las conferencias magistrales de la 38º edición del evento, y ante casi doscientas personas, el autor de El fin de la modernidad, ejemplificó el debilitamiento de los conceptos absolutos a través de la evolución de la figura de Dios: “Antes era algo muy misterioso, muy trascendente, caía un trueno y se le rogaba al Dios del Trueno que no destruyera la propia casa. Con la figura de Jesús aparece un hombre que les dice a sus prójimos que no son servidores de Dios sino sus amigos; eso debilita la primera idea tan fuerte y tan temible”, sostuvo, y agregó que el pasaje entre la unción divina de los reyes medievales hasta las elecciones democráticas actuales es otra señal de ese debilitamiento.
Esos mismos ejemplos utilizó el miércoles 9 en Arte Sin Techo, una Organización No Gubernamental que trabaja con gente en situación de calle desde una especie de casa ocupada –ocupada por sus intervenciones artísticas y por su trabajo constante, desde que emergió en medio de la crisis de 2001– en el corazón de Almagro. Apenas llegó a esa casa, Vattimo bromeó en su castellano casi perfecto: “Parece un centro civil italiano, feo, sucio y malo”. Allí lo escucharon unas veinte personas, en una actividad organizada entre la ONG, el Centro de Excelencia Jean Monnet de la Universidad de Bologna, y el Laboratorio en Humanidades “Política, Estética y Comunicación” constituido por el Instituto Italiano di Cultura y el Servicio de Cooperación y Acción Cultural francés.
En ese segundo encuentro fue en el que el también diputado del Parlamento Europeo profundizó más sobre conceptos filosóficos: Friedrich Nietzsche y Martin Heidegger, a quienes estudió largamente, fueron los más citados ante un público más especializado que el que había llenado la sala Leopoldo Lugones de La Rural, en su mayoría estudiantes universitarios. Sobre los años en los que Heidegger avaló al nazismo, Vattimo intentó una explicación, aunque no una justificación: “Tiene que ver con el lugar que ocupa un filósofo cuando se cruzan dos triunfalismos, como fueron el capitalismo y el comunismo”, señaló. Las intenciones de un intelectual al unirse a un sistema político son claras para Vattimo: “Enseguida el intelectual querrá liderarlo”, sentenció, y destacó el rol de Rusia sobre el final de la Segunda Guerra Mundial aseguró: “Si Rusia no hubiera hecho lo que hizo, liberado lo que liberó, estaríamos completamente dominados, seríamos todos nazis”.
En Arte Sin Techo hubo tiempo para reflexionar sobre el arte y también sobre la política, tema que especialmente interesa a Vattimo y que lo llevó a definir a la Organización de las Naciones Unidas (ONU) como “una organización disciplinaria hasta el día de hoy”. Para el filósofo, “el impresionismo, el cubismo y el surrealismo fueron una defensa de la actividad humana contra la tecnificación de comienzos del siglo XX, cuando se fundaban Ford y Fiat, y el taylorismo se imponía como modelo de producción fabril”. Esa tecnificación, explicó el autor de Adiós a la verdad, se está dando actualmente en Europa, en las más altas esferas del poder político: Mario Monti, el actual premier italiano, economista y con más experiencia institucional que en el barro partidario, es para Vattimo una muestra de esa “tecnocracia” posterior a la renuncia de Silvio Berlusconi, a quien critica duramente cada vez que tiene el margen de hacerlo.
En Europa “hay un clima de total resignación, la gente no ve que le propongan mejoras alentadoras como para orientar su voto hacia allí”, aseguró, y vinculó esto a su idea de dominación: “El dominio hacia el otro se funda sobre la idea de que la realidad es de tal manera, inamovible. Hoy esa realidad la delinean los banqueros, y no los débiles, por eso es importante desterrar el concepto de una verdad única”, dijo Vattimo, a medio camino entre el entusiasmo y la preocupación.
Hay otro concepto que debe ser reformulado, según el italiano: se trata de la esencia, un tema del que la filosofía se ha ocupado largamente. “Un papa, un dirigente político o un filósofo ambicioso puede decirte ‘Esta es tu esencia, tú no lo sabes pero yo te lo digo’”, le dijo a su público atento, esta vez en la Feria, y continuó: “Yo no creo en eso; la única esencia es la libertad de cada uno, que merece ser respetada, y la única verdad posible es la que nos deja ser más libres, aunque acepto interpretaciones porque de eso les hablé toda la tarde”, matizó.
En cada ámbito que Vattimo visitó en una ciudad que define como “una segunda patria”, hubo público atento a su obra y sobre todo a los pensamientos que elabora ante las nuevas preguntas, y que empieza a responder después de tomarse unos segundos la cabeza con las dos manos. Hay una convicción que lo sigue a cada charla: “Hay que ser fuerte para ser uno de los débiles, hay que saber poner la otra mejilla y darse cuenta de que uno no debe ser el violento, porque el orden imperante siempre será más violento que uno”, concluyó. “Y basta”, dijo.

Faye, Heidegger non era razzista

L'intento non riuscito di dimostrare che tutta la sua filosofia non è che la trascrizione del nazismo

Coloro che, come chi scrive, furono scossi e inquietati dal libro di Victor Farias su Heidegger e il nazismo (uscito nel 1987), troveranno in questo, ben più ampio testo di Emmanuel Faye, pubblicato in Francia ormai sette anni fa e ora messo a disposizione dei lettori italiani dall'accurata traduzione di Francesca Arra [a cura di Livia Profeti], molto più numerose ragioni di inquietarsi e interrogarsi. Anche perché Faye utilizza molto materiale documentario che non era ancora accessibile a Farias, specialmente i corsi di lezioni e le conferenze degli anni 1933-44 nel frattempo usciti nell'edizione delle opere complete, e lo integra con una quantità (spesso eccessiva e non esente da qualche rischio di confusione) di riferimenti testuali a opere di altri pensatori dell'epoca (Rothacker, Clauss, Schmitt). Ma soprattutto, la differenza del libro di Faye anche rispetto alle intenzioni di Farias è l'intento, esplicitamente enunciato fin dal titolo del libro, di mostrare che tutta la filosofia di Heidegger non è altro che una trascrizione del nazismo e della sua ideologia razzista e dis-umanista (se possiamo dire così).

E' rispetto a questo intento che, al di là di ogni curiosità storica e di ogni interesse per un periodo così drammatico della storia della cultura europea, si deve valutare la riuscita del lavoro di Faye. Se diciamo che questo risultato per noi non è stato raggiunto dovremo sentirci colpevoli di neonazismo? E con noi la tanta filosofia della seconda metà del secolo ventesimo che ha letto e commentato Heidegger e ne ha fatto un punto di riferimento imprescindibile, un vero e proprio classico del pensiero della nostra epoca?
 
Insomma, per Faye, soprattutto dopo il suo libro - ma supponiamo anche prima di esso, data la sostanziale vicinanza che egli vede nello Heidegger giovane alla mentalità e allo spirito dello hitlerismo - non si può professarsi heideggeriani senza essere almeno sospetti di nazismo. I concetti-chiave di Essere e tempo (l'opera fondamentale di Heidegger del 1927) sarebbero già infetti dall'ideologia del Führer, esposta in Mein Kampf (1925-26). Ma che dire dei corsi friburghesi di Heidegger degli anni precedenti, anzitutto quello di Introduzione alla fenomenologia della religione (1919-20) in cui sono delineati, in chiaro riferimento alla tradizione cristiana, i temi fondamentali dell'opera maggiore e anche dei successivi sviluppi della critica alla metafisica?

Tutto il discorso di Faye ruota intorno al tema del razzismo, non solo della distruzione del popolo ebraico ma anche della eliminazione nazista dei popoli considerati inferiori. Diciamo che la filosofia di Heidegger, in quanto ispirata al nazismo, è qui oggetto di una sorta di processo di Norimberga, in cui la si giudica in nome della stessa umanità riconoscendola, o cercando di mostrarla, come disumana e dunque impraticabile da chiunque voglia restare fedele alla propria natura. Se avvertiamo in questa impostazione un certo spirito affine a quello della «lotta al terrorismo internazionale» che è diventato il pensiero comune dell'Occidente dall'11 settembre in poi peccheremo di eccessivo politicismo?

Il punto è che l'hitlerismo di Heidegger - innegabile dopo il 1933 e mai fatto oggetto da lui di un vero e proprio ripudio, di un atto di pubblico pentimento - non dà luogo a una filosofia razzista, tanto che i molti interpreti che hanno letto e utilizzato Heidegger anche «da sinistra», non lo hanno mai rilevato. Quel che Faye mette senz'altro sul conto del razzismo è l'antiumanismo di Heidegger, che ha ben altro spessore teorico, giacché si identifica con la sua critica - discutibile ma non certo da rigettare come «inumana» - della civiltà occidentale che ha dato luogo, fino al momento attuale, a un mondo dove progresso tecnologico, sfruttamento , dominio di classe, progressivo esaurimento delle risorse del pianeta appaiono indistricabilmente connessi.

L'illusione di Heidegger nel 1933 è stata che la Germania (quella di Hölderlin, del Nietzsche «tragico», e da ultimo quella di Hitler) potesse rappresentare una alternativa valida (umanamente) sia all'industrialismo americano sia al totalitarismo sovietico. Si ricordi che negli stessi anni altri filosofi di tutto rispetto facevano scelte altrettanto radicali di segno opposto: Gentile fascista in Italia, Lukács e Bloch a favore della Russia di Stalin. Ma Heidegger in più era razzista, direbbe Faye. Le evidenze testuali che porta per dimostrare questa tesi sono per lo più indirette, come le analogie, su cui insiste tanto, fra l'analitica esistenziale di Essere e tempo e le idee di Hitler.

E quanto all'atteggiamento di Heidegger nel dopoguerra, quando ci si sarebbe aspettati da lui una pubblica «conversione» ai valori «umani» dell'Occidente vincitore - ai quali Faye si ispira senza alcuna incertezza critica - non crediamo che sia riconducibile, come lui pensa, alla volontà di nascondere le vergogne del suo nazismo passato, per il quale del resto subì un processo di epurazione che gli costò il divieto di insegnare.

E' più ragionevole ritenere che Heidegger non pensò mai di potersi mettere dal punto di vista della verità assoluta: né quando scelse Hitler, né dopo, come avrebbe dovuto fare un filosofo disciplinatamente «democratico» e atlantico. Per lui il pensiero doveva rispondere a una chiamata non eterna come la metafisica, ma «storica», che, almeno dopo Essere e tempo, non gli parve più separabile da un impegno concretamente politico. Che egli credette di dover assumere appoggiando Hitler. Un errore che non pensò mai di poter condannare in nome della verità assoluta, ma che lo tenne lontano dalla politica per tutto il resto della sua carriera. E che forse gli ispirò l'amara considerazione: Wer gross denkt, muss gross irren: chi pensa in grande, deve per forza anche errare in grande. 
Gianni Vattimo


Autore: Emmanuel Faye
Titolo: Heidegger, l'introduzione del nazismo nella filosofia
Edizioni: L’Asino d’Oro
Pagine: 499
Prezzo: 30 euro

(fonte: Tuttolibri, in edicola sabato 2 giugno)

martedì 5 giugno 2012

Heidegger, nazismo e filosofia

Heidegger, maestro nazista 
Vattimo: «Attaccato da tutti, ha ispirato la filosofia europea».
Lettera43, 9 maggio 2012. Intervista di Bruno Giurato
 
Ogni volta che si nomina il professore «agreste e boschivo» torna puntuale come un orologio al plutonio la polemica, o meglio l'etichetta di  «nazista». È il destino di Martin Heidegger, probabilmente il pensatore più influente del 900, almeno per quanto riguarda il lato continentale della filosofia.
IL NAZISMO E LA FILOSOFIA.
Questa volta l'occasione per parlare male dell'autore di Essere e tempo è arrivata dalla pubblicazione della traduzione in italiano di un libro dello studioso francese Emmanuel Faye, dal titolo Heidegger, l'introduzione del nazismo nella filosofia (L'asino d'oro).
Da una parte Faye mette in evidenza i legami tra la vita di Heidegger e il nazionalsocialismo; dall'altra vorrebbe dimostrare come questi inquinino il suo pensiero.
IL NAZI HEIDEGGER SI AGGIRA PER L'EUROPA.
Ora, la convinta adesione del filosofo al nazismo è appurata. Heidegger mai negò né ritrattò la sua appartenenza al partito hitleriano: fu rettore dell'università di Friburgo nel 1933 e il suo discorso L'autoaffermazione della società tedesca è noto a tutti.
I DEBITORI DEL FILOSOFO.
Quanto poi al presunto lato nazi del suo pensiero, bisognerebbe rilevare che, sebbene con diverse intensità, tutte le principali correnti filosofiche e letterarie contemporanee sono debitrici a Heidegger, in particolare quelle legate alla sinistra. Se Faye avesse ragione ci sarebbe dunque un Dna nazista a spasso da decenni per l'Europa.
ATTACCHI RIPETUTI.
Attaccare periodicamente Heidegger ormai «è un classico», spiega a Lettera43.it Gianni Vattimo, studioso di Heidegger e teorico del «pensiero debole» (quanto di meno totalitario ci sia in giro).
«Quando si finiscono gli argomenti contro l'opera di un autore, si comincia a prendere di mira la sua vita. E di solito, nel caso di Heidegger, gli attacchi arrivano dai filosofi francesi».

 
Martin Heidegger
DOMANDA. Eppure i francesi, da Jean-Paul Sartre a Jacques Derrida fino a Jean-Luc Nancy hanno 'rubato' a man bassa da Heidegger.
RISPOSTA.
È vero, ma evidentemente è un debito che non va loro giù. E c'è una ragione per questo...
D. Qual è?

R.
Heidegger era anti-lluminista, anti-cartesiano. E si sa che i francesi, quando viene toccato Cartesio, non la digeriscono.
D. In gioco ci sarebbe quindi un'incompatibilità «genetica» tra
tedeschi e francesi?
R.
Senz'altro. Anzi penso che Heidegger abbia finito per aderire al nazismo più che altro per spirito anti-cartesiano. Ma se si rilfette un momento, ci si accorge che Heidegger, con la sua adesione al nazismo ha fatto un'azione coraggiosa.
D. In che senso?

R.
È sceso in campo, ha realizzato la sua personale idea di intellettuale engagé. Che poi fosse un'idea sbagliata è un'altra storia. Ma si è sporcato le mani.
D. Discutibile....

R.
Sbagliato dal punto di vista del contenuto. Ma bisogna considerare i tempi: molti intellettuali dell'epoca, dallo storico Marc Bloch al critico letterario György Lukács erano dalla parte di Stalin.
D. Proprio tutti erano così implacabilmente schierati?

R.
Il filosofo Ernst Cassirer no, lui era un illuminista, ma poteva permetterselo: era un ricco amburghese. Se ne andò, come ebreo dovette fuggire dalla Germania nazista, ma non fu costretto a prendere posizione. In Germania erano tempi duri per tutti, comunque. Gadamer mi raccontava che lui e Heidegger si trovavano a casa sua a leggere Guerra e Pace, a lume di una sola candela. Non ne avevano altre.
D. All'epoca in Germania si respirava poi un astio diffuso nei confronti di chi aveva vinto la Prima guerra mondiale, e imposto le sanzioni economiche.

R.
Certo. Forse anche per questo Heidegger riprese il concetto di Friedrich Hölderlin dei tedeschi come eredi della grecità. I tedeschi, secondo lui, avrebbero potuto emanciparsi da tutta la tradizione della filosofia europea, in fondo a loro estranea, e andare direttamente alle origini greche. Anche per Friedrich Nietzsche era così: insisteva per ritornare ai presocratici.
D. Questo voleva dire anche bypassare la tradizione cristiana?

R.
Sì. Dico spesso che l'errore di Heidegger è stato smettere di leggere le lettere di San Paolo, e insistere troppo con la grecità.
D. Fatto sta che Heidegger ha prestato i concetti, e spesso anche il linguaggio a praticamente tutta la filosofia contemporanea.

R
. È un dato di fatto. Nell'800 c'era Hegel, e tutti «hegelianeggiavano». Nel 900 Heidegger, e tutti bene o male lo hanno seguito.
Hannah Arendt
D. Tra coloro che più hanno attinto al pensiero heideggeriano c'è sicuramente Hannah Arendt che del filosofo fu allieva e amante. Eppure hanno avuto consensi molto differenti.
R.
A parte i problemi personali, che restano cavoli loro, il fatto che Arendt insistesse molto sul concetto di natalità, mentre Heidegger mettesse in evidenza la morte la dice lunga. Si tratta di una specie di reazione, un volersi differenziare cercando l'opposto a tutti i costi.
D. Invece il concetto di «banalità del male» in fondo è molto heideggeriano.

R. Sì, l'idea secondo cui il male non ha bisogno di protagonisti mostruosi, ma può essere praticato da soggetti piccoli, insignificanti, è un'idea che Heidegger avrebbe sottoscritto.
D. Heidegger sosteneva anche che la malattia dell'epoca fosse considerare le persone
semplici numeri. Convinzione incarnata sia dalla dittatura nazista sia da quella tecnica.
R.
Ed era anche l'opinione di Arendt.
D. Oltre che un tratto comune orwelliano, diffuso ben oltre Heidegger.

R.
Anni fa, all'università della Florida, ascoltai la lezione del rabbino americano Richard L. Rubenstein. Lui sosteneva, non cinicamente ma abbastanza freddamente, che Hitler aveva solo anticipato i tempi. Aveva cominciato a trattare gli uomini come numeri. Cosa che adesso fanno l'economia, le banche, i governi. Alla fine è un'intuizione heideggeriana.

Mercoledì, 09 Maggio 2012

venerdì 20 aprile 2012

Da Bush a Monti: fatti o interpretazioni?


Da Bush a Monti: fatti o interpretazioni?
«Alias-D» dell’1 aprile recensiva il libro di Maurizio Ferraris «Manifesto del nuovo realismo» (Laterza), contro gli effetti ubriacanti del pensiero debole e postmoderno. A Ferraris, che propugna un ritorno filosofico (e politico) al mondo dei «fatti», replica qui Gianni Vattimo, con una «lettera aperta» a Umberto Eco, suo interlocutore ideale. Gli risponde Ferraris.

Il Manifesto, 8 aprile 2012

Il ritorno della realtà come ritorno all’ordine – Gianni Vattimo

Caro Umberto, vorrei entrare subito in medias res (ahi!, le cose stesse!) per discutere il tuo saggio sul «realismo negativo». Due cose preliminari. Primo: davvero qualcuno dei nuovi realisti pensa che un postmoderno utilizzi un cacciavite per pulirsi un orecchio o il tavolo su cui scrive per viaggiare da Milano ad Agognate? Spesso gli esempi paradossali finiscono per essere presi troppo sul serio, e diventano caricature delle quali sarebbe meglio sbarazzarsi. Secondo: ricordi Proudhon? In una estate di molti anni fa, nel deserto di temi con cui riempire i giornali, qualcuno tirò fuori Proudhon del tutto a freddo, aprendo un dibattito inconcludente che si trascinò per un po’ e poi svanì nel nulla. Il nuovo realismo mi sembra un fenomeno del tutto simile, anche se minaccia di durare più a lungo, per ragioni che hanno probabilmente da fare con il generale clima di «ritorno all’ordine» di cui è massima espressione il governo dei «tecnici».

Quali sono le ragioni del «ritorno della realtà» contro la «sbornia post-modernista»? A chi importa «tornare alla realtà» e respingere la tesi di Nietzsche secondo cui «non ci sono fatti, solo interpretazioni, e anche questa è un’interpretazione»? Certo, tu risponderai subito che questa domanda è impropria: è la verità o falsità della tesi che ci deve interessare, non a chi piacciano o dispiacciano. Ma dovresti anche ammettere che così costringi subito Nietzsche ad accettare che ci sia quella famosa verità oggettiva di cui si sta discutendo. Così, verità oggettiva sembra essere, per i nuovi realisti, il «fatto» che «il postmoderno è fallito». Davvero questo fallimento è un fatto e non un’interpretazione? La forza della tesi di Nietzsche, anche e soprattutto per chi non vuole prostrarsi davanti al mondo com’è e identificare senz’altro l’esser-così-delle-cose con il bene e la norma da «rispettare», sta tutta nel domandare, ad ogni enunciazione, «chi lo dice?». Il concetto di ideologia di Marx, ma tutta la cosiddetta scuola del sospetto (Marx, Nietzsche, Freud), dovrebbe averci insegnato qualcosa. Già, dirai, però Marx smascherava l’ideologia proprio in nome della verità oggettiva. Ma questa per lui era il patrimonio del proletariato («chi lo dice?»), non l’essere stesso identificato con ciò di cui non si può assolutamente pensare il contrario, cioè quello che tu chiami «il mondo» con i suoi «fatti». I «fatti» non parlano da sé, anche indicarli semplicemente con un dito è già un atto linguistico. Il realismo (vecchio, credo; perché sarebbe nuovo?) si è sempre fatto forte del «fatto» che ci deve essere qualcosa, il «dato», che limita l’interpretazione, come dici tu, e che non dipende dall’interprete. Neanche il più fanatico postmodernista assume semplicemente che le «cose» siano create da chi le vede. Se piove mi bagno, se sbatto in un muro mi faccio male al naso. E allora? Lo zoccolo duro dell’essere sarebbe questo? Heidegger ha costruito tutta una filosofia a partire dall’insoddisfazione per la «metafisica», cioè per quel pensiero che identifica l’essere con questo zoccolo. E l’insoddisfazione era fondata non sulla scoperta che l’essere non è «zoccolo» ma, poniamo, pantofola o aria; bensì sulla impossibilità di prender sul serio la libertà, in un mondo fatto di durezze e di zoccoli identificati semplicemente con l’essere stesso… 
 
John Searle
La domanda «chi lo dice?», ha anche una ovvia portata etico-politica. I nuovi realisti (che sempre mi rinfacciano il nazismo di Heidegger) dovrebbero spiegare perché uno dei loro profeti sia John Searle, onorato da Bush come il massimo filosofo USA. Qualcuno di loro avrà un analogo riconoscimento dal governo Monti-Napolitano? Certo, di fatto (!) i nuovi realisti hanno il massimo ascolto nella opinione pubblica (ossia pubblicata) mainstream, rispondono alla richiesta di restaurare valori «veri» e, in definitiva, disciplina sociale. Anche tu sei preoccupato di trovare «garanzie» per proporre interpretazioni accettabili dagli altri. Appunto, «gli altri». Proprio perché non ci sono fatti, solo interpretazioni, il solo «zoccolo» contro cui urto e di cui devo tener conto, senza garanzie, sono le interpretazioni degli altri. Per convincerli non ho nessun garanzia «oggettiva»: solo certi valori condivisi, certe esperienze comuni, certe letture che abbiamo fatto, persino – ormai ne sono consapevole – certe appartenenze di classe. La pericolosità dell’ermeneutica è tutta qui: insegna che la sola interpretazione sicuramente falsa (limiti dell’interpretazione!) è quella che non riconosce di essere tale, che pretende di parlare dal punto di vista di Dio e dunque rifiuta di negoziare, pensando di possedere la verità vera. Ma anche la verità di una proposizione scientifica è tale solo se gli altri, coloro che ripetono l’esperimento, hanno gli stessi risultati. C’entreranno lo zoccolo e il muro? Ma dove sarebbero, se non in queste interpretazioni?

domenica 22 gennaio 2012

Tecnici, sinistra, democrazia

"I tecnici uccidono la democrazia e gli ex comunisti li benedicono"
Il filosofo Gianni Vattimo: «Perché mai il Pd è diventato così reazionario da accettare Monti & C?»
 Il Secolo d'Italia, 21 gennaio 2012
di Federico Callegaro

Se provassimo a domandare a qualcuno «chi governa oggi l'Italia?», con molte probabilità ci sentiremmo rispondere "i tecnici" ma questo termine, che oramai pare essere diventato familiare a tutti, nasconde in realtà un modo tutto particolare di essere intesi e di intendere lo Stato, un modo decisamente diverso da quello che siamo abituati a conoscere. Chi siano quindi questi tecnici e cosa possa rappresentare la loro comparsa nel nostro orizzonte politico è ciò che abbiamo voluto chiedere al padre del "pensiero debole", il filosofo e l'eurodeputato dell'Italia dei valori Gianni Vattimo.

L'occidente è stato investito da una gigantesca crisi finanziaria ma la finanza, anziché ridimensionare il suo potere, ha iniziato a esercitare un ruolo ancora più centrale e diretto. Che idea ha di ciò che sta accadendo? 

È finita un'epoca di dominio imperialistico tradizionale e si è stabilito una sorta di governo mondiale di tipo tecnico in cui non si capisce bene chi sia a comandare. Un tempo si poteva dire "sparate sui padroni" ma ora come li si individua? Questa è una forma di realizzazione della neutralizzazione di cui parlava Carl Schmitt. Non c'è uno che sia amico o nemico ma c'è un sistema che si autoregola a seconda di norme che sono quelle dei bilanci. Ho anche l'impressione che ci si trovi in una situazione che sfugge al controllo democratico. È vero che i capi carismatici e i politici possano far ridere ma almeno con loro si sa con chi prendersela, invece adesso ci troviamo di fronte ad un'entità e la cosa ci riguarda come cittadini perché ci sfugge sempre di più la possibilità di determinare un controllo.
Nel novero di queste "entità" può rientrare anche l'Unione europea? 

L'Europa è una di questi enti astratti che approva o non approva il nostro bilancio e si noti che c'è pure il sospetto che dietro di lei si nascondano solo alcune potenze più potenti di altre come Francia o Germania. La tendenza globale, che riguarda anche tutti questi organi, va verso l'idea di tecnicizzare sempre di più i meccanismi in modo che non si debba valutare contro chi o in favore di chi ma semplicemente si badi al funzionamento dei meccanismi stessi. Personalmente come cittadino ma anche come filosofo sono turbato perché mi sembra di vedere ciò che Heidegger aveva descritto come Gestell, come tutto l'insieme del funzionamento in cui non si capisce chi fa funzionare cosa e soprattutto perché.
Se il tecnico è soltanto il meccanico del sistema c'è possibilità che riesca a dialogare con le parti sociali? 

Il tecnico nasce proprio per sottrarsi al dialogo. L'idea dei tecnici è questa: togliamo il peso delle logiche elettorali dal funzionamento perché con esse non si riesce a fare un ragionamento a lunga scadenza. Se in passato la figura del tecnico compariva solo nei periodi di emergenza, adesso sta diventando un qualcosa di accettato con normalità.
Nonostante quanto detto, sembrerebbe che i cittadini percepiscano i tecnici come un male minore. Come mai?

 Basti pensare a cosa è stato detto durante tutta questa crisi: se le banche falliscono anche tutti i nostri risparmi vanno persi, non si riusciranno più a pagare gli stipendi e via dicendo. In questo modo siamo stati tutti coinvolti nel funzionamento del meccanismo, che è tanto più potente quanto più è integrato. Siamo tutti sulla stessa barca e diventa difficile ribellarsi.
E il ruolo dei partiti in tutto ciò?

 Perché i partiti sono diventati così remissivi nei confronti dei tecnici? Perché il Pd non fa opposizione e sostanzialmente non chiede nemmeno nuove elezioni? Perché mai gente che ha militato nel Pci è diventata così reazionaria da accettare certe logiche? Secondo me perché non sono manipolatori dell'opinione pubblica ma sono anche loro manipolati. Credo che si sia tutti vittime del terrorismo mondiale. Non quello bombarolo ma quello mediatico...
Non c'è rischio di uno scoramento progressivo dei cittadini nei confronti della democrazia? 

Certo, questo è un naturale portato di una situazione del genere. Ma mi chiedo, la democrazia è un regime eterno? Io ci credo sempre di meno. D'altronde una democrazia in cui se non hai mezzo miliardo non riesci a farti eleggere, che democrazia è?
Se le maglie del sistema sono così strette e chi lo guida è sordo per definizione, cosa resta da fare ai cittadini? 

"Che fare?", diceva Lenin. Io ho l'impressione che convenga fare gesti vitali di piccole resistenze marginali. Questo perché la stessa idea di un sistema universale di trasformazione, una rivoluzione mondiale, non viene in mente a nessuno. Oggi non siamo nelle condizioni del proletariato di Marx che non aveva nulla da perdere. Coltivo l'illusione No Tav, una forma di anarchismo diffuso che non cambia il sistema ma che lo umanizza rendendolo lottabile. Si tratta di ritrovare uno spirito esistenzialistico che ci può rendere autentici in questo mondo e che non ci faccia vivere come delle pietre. D'altronde sollevare vuole dire anche sollevarsi.
Qual è il compito di un intellettuale in un mondo di tecnici?

 Sono convinto che come intellettuale debba predicare il conflitto in tutti i momenti possibili, alla faccia della pace ma d'altronde "la pace è la tranquillità dell'ordine". Poi, forse per l'età, non riesco a vedere un futuro ma solo un dovere a breve scadenza, quello di configgere e stimolare il conflitto. Questo lo si deve fare per respirare.

lunedì 3 ottobre 2011

Entrevista con Gianni Vattimo “La democracia no es posible con verdades absolutas sobre la convivencia”

Entrevista con Gianni Vattimo: “La democracia no es posible con verdades absolutas sobre la convivencia”

Texto Daniel Gamper, 2.10.2011, Barcelona Metropolis

Gianni Vattimo (1936) pasó por Barcelona con motivo de la publicación de Adiós a la verdad (Gedisa), coincidiendo con la edición en español de un diálogo con René Girard (¿Verdad o fe débil?, Paidós), y con un nuevo libro en prensa (escrito con Santiago Zabala, Hermeneutic Communism, Columbia University Press). Profesor emérito de Filosofía de la Universidad de Turín, su nombre va unido al “pensamiento débil”, expresión que, en contra de las miopes caricaturas que de ella se han hecho, no supone ni una derrota ni una abdicación de la filosofía. Alejado de la habitual solemnidad académica, Vattimo se ha consolidado como una de las figuras indispensables del pensamiento en una Europa que ha contribuido a construir desde el Parlamento Europeo, donde ocupa en la actualidad un escaño como miembro de Italia dei Valori.

En su último libro publicado en español1 usted nos conmina a despedirnos de la verdad. ¿Por qué no mantener el discurso sobre la verdad en determinados casos, por ejemplo, en el derecho penal, cuando hay que decidir si alguien ha cometido un delito?

Efectivamente, en algunos casos tiene sentido seguir hablando de verdad, entendida como lo que es verificable a partir de criterios establecidos. Hay que saber, sin embargo, que estos criterios son convenciones, las cuales a su vez no se pueden ni verificar ni falsar. Cuando hablo de despedirnos de la verdad, quiero decir que tenemos que decir adiós a una verdad que sea verificable de una vez por todas y con independencia de los paradigmas que se adopten. Como filósofo hermenéutico sostengo que se puede hablar de verdad en sentido riguroso solo cuando se aplican criterios para verificar o falsar. Unos criterios que, por su parte, no son verificables o falsables, como si existiera una especie de metalenguaje universal que nos permitiera situarnos en un plano superior a ellos. Nos hallamos siempre ya en juegos lingüísticos dados, como diría Wittgenstein, y no hay un metalenguaje que nos permita elevarnos por encima de todos los lenguajes. Esto es lo que rechazo cuando digo “adiós a la verdad”.



¿Cómo desarrolla su argumento?

En el libro empiezo discutiendo el principio de Tarski, según el cual “P” es verdadero si y solo si P, que traducido quiere decir: “llueve” es verdadero si y solo si llueve2 . Pero, ¿estamos seguros de que la segunda P está fuera de las comillas? Si sacamos las comillas, me mojo, de acuerdo. Sin embargo, esto parece una verdad banal, a no ser que dispongamos de criterios para establecer si efectivamente llueve o no llueve, o sea, si podemos distinguir entre la humedad en el aire y el hecho de que caigan gotas del cielo. Mi discurso pretende reivindicar la hermenéutica. Cada vez que decimos que una cosa es de un modo u otro, aplicamos criterios de verificación o falsación sobre los cuales no hemos decidido en sentido absoluto. Se me ha dicho que esto ya lo sabe todo el mundo. Puede ser, pero cuando el Papa impone a las parejas la prohibición de divorciarse porque el matrimonio es indisoluble por naturaleza, eleva una pretensión absoluta de verdad más allá de los criterios históricos.



¿En qué casos podríamos, no obstante, reivindicar determinados usos de la verdad?

Por ejemplo, en el caso de Berlusconi sí que podemos aplicar el concepto de verdad. Se dice que tiene amantes menores de edad. Esto podemos comprobarlo: se controla a las personas que han ido a sus fiestas, el dinero que han recibido y la edad que tienen. Estos hechos sí que son verificables. No niego este uso de la verdad. Lo que niego es la pretensión de verdades independientes del paradigma. Me parece perjudicial y filosóficamente erróneo, pero es lo que hace la autoridad: hablar en nombre de la verdad.



Usted ha citado al Papa y su frecuente apelación a los derechos naturales. Si queremos poner una frontera entre lo que se puede hacer y lo que no se debe hacer, y no tenemos la posibilidad de hablar de derechos naturales, entonces ¿a qué nos podemos referir?

Yo sugeriría utilizar la palabra natural para aquello que nos resulta natural, como dice la expresión italiana. Si ahora alguien me dijera: “¿tú te desnudarías, ahora?”, le respondería: “naturalmente que no”. En el contexto en que nos encontramos, yo no lo haría. Pero esto no es en modo alguno una ley natural. También los famosos derechos naturales son los que una determinada época reconoce como innegables, pero que en otra época no lo eran necesariamente. Por ejemplo, ¿por qué no permiten que las mujeres sean sacerdotes? No es ciertamente la naturaleza, sino que a mi parecer se trata de una convención.



¿Usted diría, como Richard Rorty, que en algunos casos unas civilizaciones son moralmente superiores a otras, a pesar de que no haya verdades?3

No sé si lo diría. Primero debería saber en qué contexto lo menciona Rorty, pero supongo que lo hace en su reivindicación del derecho a ser etnocéntrico. O sea, que incluso cuando dice que nos sentimos superiores moralmente a los salvajes que se suben a las palmeras, no pretende afirmar verdades universales.



Rorty en ese caso se refiere a un reportaje de David Rieff sobre la guerra de los Balcanes en que se muestran las crueldades de los soldados serbios contra los bosnios tratándolos como si no fueran humanos.

En los casos concretos sería más cauto. Es cierto que forma parte de nuestra moral el hecho de que tenemos que respetar determinados principios. Pero este sentimiento, ¿es absoluto o relativo? Es decir, me siento mejor e incluso superior a otros cuando respeto lo que considero que son los derechos naturales. Este sentimiento ¿lo deberían tener todos los hombres? No, los mismos serbios de los que habla Rorty no lo comparten, pues asesinaban y lo olvidaban de inmediato. Esto me hace pensar en lo que discutí una tarde entera con Habermas en Estambul mientras bebíamos vino: él sostenía que cada vez que afirmamos algo reivindicamos al mismo tiempo el valor de lo que afirmamos. De acuerdo, ya lo sé. ¿Pero hasta dónde debo tomarme en serio este sentimiento? ¿Puedo afirmar que alguien, un serbio, deja de ser humano porque no se siente inferior moralmente cuando asesina bosnios, a la vez que yo me siento superior a él? Es peligroso identificar lo humano con nuestra humanidad. Yo lo describiría de otra manera diciendo que hay personas con las que nunca iría a cenar, pero de ahí a decir que no son humanos... “En la casa del Señor hay muchas moradas…” Tanto es así que la sociedad moderna es aquella en la que pueden convivir diversas comunidades, y esto es lo que la hace interesante. Existen diferentes tipos de consenso, efectivamente, y a quienes participan de algunos de ellos los consideramos más humanos. En este punto tiene razón Habermas. Para mí, en cambio, no se trata de una prueba del valor universal de lo que afirmo, sino solo de un signo de que pertenezco a una determinada cultura en la que me siento más a gusto. Con todo lo que hemos aprendido sobre el uso del universalismo en el pasado, a saber, la voluntad de dominar, convertir y someter, me parece lógico que sospechemos cuando se utiliza este término.



En ese mismo texto, Rorty propone que para educar en los derechos humanos hay que manipular los sentimientos. ¿Qué piensa al respecto?

Volviendo a lo que dice Rorty, pienso que nuestra única superioridad moral radica en no creer demasiado absolutamente en nuestras superioridades. Podemos hacer una teoría del mito como saber aproximativo, pero en los mitos no hay nunca una teoría sobre la antropología cultural. En este discurso hay una especie de hegelianismo intrínseco. Yo, que he pasado por muchas posiciones ideológicas, soy más elástico, puedo escuchar más fácilmente a los demás, y puedo incluso pensar que esta es una forma de superioridad. Pero, ¿es algo que puedo enseñar a los demás? ¿Puedo hacerlo mediante una educación sentimental? Sí y no. Es como cuando Wittgenstein dice que para aprender una lengua hay que compartir una forma de vida. Somos occidentales, incluso yo soy etnocéntrico, pero intento que no se note demasiado.



Uno de los desafíos que he encontrado en su libro Comunismo hermenéutico4 es su afirmación de que la mayoría de los filósofos forma parte de un establishment político y filosófico, y que están al servicio del poder político. ¿Cómo podemos estar seguros de que no servimos al establishment?

Si no hay una verdad absoluta, ¿cómo puedo saber que no estoy al servicio de una clase política? Si no soy fiel a una verdad absoluta, ¿a qué soy fiel? Soy fiel a lo que un marxista clásico llamaría una clase. Dado que no tengo motivos absolutos para preferir una posición a otra, mis motivos están siempre enraizados históricamente. Si no hay la verdad absoluta, siempre soy parcial. ¿De qué parte estoy? Estoy conscientemente en la parte en la que me reconozco más. ¿El proletariado tiene razón? No, pero yo se la doy, porque a fin de cuentas gano tanto como ellos, no soy rico. Históricamente formo parte de algún sector de la sociedad y de la cultura, y tiendo a identificarme con esa zona. Puedo hacerlo ciegamente, como un fanático de un equipo de fútbol. O puedo hacerlo más críticamente.

        Después de haber leído todo lo que he leído soy un relativista moderado; alguien que sabe muy bien que no puede sustraerse a su propia posición historicocultural, y que se esfuerza por no absolutizarla demasiado. Antes prefiero un mundo en el que se discute que un mundo en el que se dispara. Tengo consciencia de pertenecer a un grupo, a una clase o a una categoría, y me identifico espontáneamente con este grupo de manera moderada. Acepto que otras personas con una situación social distinta o que forman parte de otro grupo puedan cuestionar mis afirmaciones. ¿Por qué los proletarios son mejores que los capitalistas? En primer lugar, son más numerosos, y en términos democráticos estoy de parte de los que son más. En segundo lugar, son los que producen más historicidad. Quien no tiene nada es más productivo que quien lo tiene todo. Este criterio ¿es absoluto o relativo? Evidentemente, si eres el patrón de todo, prefieres un mundo en el que no cambie nada. Yo, como no soy el patrón, prefiero un mundo en que las cosas cambien. Esto lo podría justificar con argumentos heideggerianos: es decir, el ser es evento, no es estático, inmóvil, sino que es renovación, juventud, etc. Pero, en realidad, ¿por qué prefiero una definición de este tipo? Porque formo parte de la categoría de los que no se encuentran tan a gusto en este mundo. Cuando digo esto, y ahí puede que Habermas tenga razón, no solo lo digo como alguien que pertenece al proletariado, sino también como alguien que cree tener mejores razones. Si, después, intento explicar por qué, puedo referirme a la idea del evento, del cambio, de lo que, como usted decía, Rorty llamaría elasticidad o apertura de espíritu. Pero, ¿son valores absolutos que debo perseguir? No sé, pienso que se trata de algo semejante a lo que se dice en la Crítica del juicio sobre los juicios estéticos, que en general no se pueden fundar de manera demostrativa, sino de manera comunitaria. Podemos decirle a alguien: “¿no te parece que es mejor así que de otra manera?” Esto es un modo de aceptar la propia historicidad.

       Soy consciente de que mis pretensiones de universalidad son, en cierta medida, características de la clase o del grupo a que pertenezco, y por ello intento convencer a los demás mediante la persuasión, no demostrándoles que lo que digo es verdad y que deben conformarse a ella. Aquí resuena el discurso democrático del diálogo, que tan bien conocemos. Pero esto no excluye que en ocasiones haya que tomar las armas. Si reconozco mi pertenencia al proletariado, el día en que el proletariado se rebela porque no espera nada de una situación demasiado inmóvil soy capaz de aceptar la violencia histórica como posibilidad. Si, en cambio, soy absolutista, no relativista, me justifico con la verdad eterna diciendo que “Dios está con nosotros”, “Gott mit uns”, o doy la situación por perdida.



Hay una cierta ambigüedad en su relación con la violencia, también en su libro Comunismo hermenéutico. Por una parte, enfatizan ustedes que muchas democracias nacen de actos violentos, pero por la otra sostienen que se debe tratar de actos pacíficos de masas.

Cuando se habla de violencia desde la teoría no se puede evitar la ambigüedad. Incluso los que afirman luchar solo con las armas de la no violencia, también ejercen violencia. Si para oponerse a la guerra en Irak un grupo de personas corta el tráfico de la Quinta Avenida y del metro, las personas que tienen que desplazarse o ir al hospital se sienten víctimas de la violencia. Sin duda, definir la violencia es uno de los problemas filosóficos más complejos. No creo que se pueda identificar sin más con el asesinato, porque la vida no es un derecho natural absoluto, a fin de cuentas todos nos morimos. Si morir fuera injusto el Padre Eterno sería el máximo asesino, porque nos ha hecho mortales. De modo que me he inclinado por identificar la violencia con la idea de acallar al otro. Violencia es no permitir que el otro objete. Pensemos en el caso de la eutanasia. Si un amigo paralizado me pide que le ayude a morir, pero me niego aduciendo que tiene el derecho natural a vivir, ejerzo violencia contra él. Puedo, claro está, persuadirle para que cambie de idea. Pero, si no le escucho, ejerzo violencia.



¿Es posible trazar una clara separación entre violencia y no violencia?

Yo no sabría hacerlo. Por mi parte intento atenuarla. El otro es libre y le dejo hablar, que diga qué prefiere. Pero no todo es tan claro, porque para establecer una sociedad no violenta en algún momento tengo que ejercer violencia. Pensemos en el caso de Habermas. ¿Cómo se realiza su sociedad del diálogo? Él nunca ha escrito nada al respecto.



Creo que no se trata de llegar a esa situación, sino que es un modelo normativo.

Ya lo sé, pero el problema de Habermas es que cree demasiado en el ser humano, cree demasiado en las Naciones Unidas, y aplica directamente a la situación actual la idea de su normatividad. Pero a día de hoy nadie, salvo Habermas, cree en la ONU, porque Estados Unidos hace lo que quiere. Para realizarse, el modelo normativo que propone Habermas se tiene que suspender. Por ejemplo, en algunos casos hay que empezar cortándole la cabeza al rey, porque, cuando aún no hay constitución, no se puede hacer un referéndum para decidir si hay que matarlo o no. El evento es siempre una rotura. Puedo mitigarlo a posteriori formalizando lo sucedido, y así, después de haber matado al rey, intento legitimar el acto en una constitución. Se trata de dulcificar a posteriori lo que no podía ser dulcificado cuando sucedía.



Según usted la secularización es un fenómeno cristiano. ¿Qué significa su afirmación de que hay que reconocer el significado profundamente cristiano de la secularización?

Parto de la idea de René Girard, para quien lo sagrado tiene un componente de violencia 5 ¿Cómo se constituye una sociedad en la que las personas viven pacíficamente en común? A través de la individualización de una víctima sacrificial en la que se descarga la violencia de los grupos enfrentados. La víctima sacrificial pacifica, pero tiene que ser martirizada. Esta es la idea natural de lo sacro. Según Girard, Cristo viene al mundo y enseña que lo sagrado no es eso, que Dios no quiere el sacrificio sino la conversión interior. Y Jesús es crucificado, no porque sea la víctima perfecta que satisfacía la necesidad de justicia de Dios después del pecado original, como dice la tradición más ortodoxa. No, Jesús es crucificado para manifestar algo muy escandaloso, que lo sacro es violento y que no debería serlo, que ya no es necesario hacer sacrificios. Este es el inicio de la secularización, a saber, el inicio de una idea que en la Biblia se llama también kénosis: al hacerse hombre, Dios se priva de sus características trascendentes, autoritarias, y ya no nos trata como siervos, sino como amigos.

       Por oposición a Girard, sostengo que el cristianismo es una religión de la no religión, una religión que disuelve la idea misma de dependencia, de autoridad suprema, porque Dios, lo trascendente, abandona la propia trascendencia. Aunque yo todo esto lo creo y no lo creo. No estoy seguro de que yo mismo no esté secularizando el mensaje cristiano cuando hablo de secularización. Cuando digo que Dios se encarna, estoy pronunciando una frase que está en la base de la secularización, pero esta frase está aún demasiado poco secularizada, porque aún nombro a Dios, mientras que debería estar hablando solo de Jesús. De modo que no sé muy bien en qué situación me encuentro.



¿Cómo se conjuga su afirmación de que la secularización es un fenómeno cristiano con la crítica vaticana a la secularización como tendencia privatizadora de las religiones y como una pérdida de su poder efectivo?

Cuando el Papa dice que la secularización es un hecho negativo, lo dice porque él es una auctoritas. Para seguir mandando debe atenuar la secularización. Pero también Girard tiene dificultades para aceptar esta secularización, porque concibe a Jesús como alguien que me revela la verdad sobre la naturaleza humana. Esto se debe a su pretensión científica. Girard quiere ser un antropólogo científico y pretende conocer exactamente los mecanismos de la sociedad. Uno de estos mecanismos para él necesarios es el hecho de que la sociedad se construye alrededor de la víctima sacrificial. Tanto es así que Girard debe de ir a misa como un buen católico, pues la misa es la repetición simbólica de un sacrificio que no podemos olvidar. No podemos imaginarnos vivir en una situación en la que, puesto que Jesús nos ha salvado, etc., el sacrificio ya no sea necesario. Lo máximo que podemos hacer es repetirlo simbólicamente, pero no podemos estar sin sacrificio, porque la naturaleza humana es así. Lo que Girard como filósofo debería reconocer es que hay una historia de la salvación que consiste también en la secularización; en cambio, como científico que pretende describir la naturaleza humana, toma a Jesús como la revelación de un dato objetivo.



¿Cuál es su posición al respecto?

Según mi punto de vista no es inverosímil que el cristianismo sea el anuncio de una religión que tiende a adelgazar sus contenidos dogmáticos para ser cada vez más caritas. En la primera Carta a los Corintios, se dice también que la fe y la esperanza desaparecerán porque en el Cielo veremos a Dios cara a cara y ya no las necesitaremos, pero la caridad no acabará nunca6 . Esto supone que la fe se atenúe, que sea cada vez menos importante. Los cristianos de hoy no están tan preocupados por cuestiones dogmáticas. ¿Existe el purgatorio? Antes sí, ahora parece que ya no. Y ni siquiera nadie parece ya creer en el infierno, en que Dios pueda querer que yo sufra por toda la eternidad. Así pues, la historia de la salvación es un aligeramiento de contenidos dogmáticos y de intensificación de la caridad. Para ser más cristiano en este sentido hay que eliminar los restos de idolatría que aún existen en la versión tradicional del cristianismo. Por ejemplo, la idea de la eucaristía como pan que cambia de sustancia se reinterpreta en un sentido más luterano, a saber, como un acto conmemorativo. Cuando el Papa se lamenta de la secularización, en realidad quiere mantener privilegios de la Iglesia en relación con la sociedad civil, privilegios que suelen ser económicos.



O sea que el Papa se mantiene en un pensamiento metafísico…

Sí, se mantiene en un pensamiento metafísico porque la metafísica le sirve para dominar. ¿Por qué necesita la ley natural? Para poder mandar sobre los que no creen. El problema de la Iglesia es que, por razones históricas, se ha encontrado ejercitando un poder temporal, y que luego, en parte por responsabilidad, no lo ha querido dejar. No creo que cuando el Papa dice que se preocupa de la familia lo haga con total mala fe. Se preocupa porque cree que tiene que hacerlo.



A pesar de que usted ha señalado que un cristianismo que desarrolle su vertiente posmoderna puede contribuir a mantener unida a Europa, hay señales que apuntan en otra dirección. Estoy pensando en concreto en el caso Lautsi, el de la ciudadana italiana que exigió la retirada del crucifijo en la escuela de sus hijos.

Como cristiano soy multicultural y no puedo aceptar que se haga violencia a los no cristianos poniendo el crucifijo en las escuelas o en los tribunales. Yo, que era un católico militante y que comulgaba todas las mañanas, nunca me di cuenta de que había un crucifijo en las aulas, y ni siquiera ahora recuerdo que estuviera, aunque seguro que estaba. El buen cristiano debería estar a favor de sacar los crucifijos de las escuelas y de los edificios oficiales.

Benedetto Croce


Usted cita frecuentemente el título de un escrito de Benedetto Croce, Por qué no podemos no llamarnos cristianos. ¿Cómo lo interpreta?

Pienso, con Croce, que no podemos no llamarnos cristianos, aunque la referencia religiosa no se tendría que incluir en la Constitución europea. Conozco bien la Constitución italiana y lo que ha hecho la Iglesia con el concordato; a saber, las escuelas católicas, los subsidios, la exención de impuestos, etc. Por ello lo último que aceptaría sería que se incluyera oficialmente el cristianismo en la Constitución europea. Pero solo por razones históricas, ya que se pueden cometer muchos excesos. Y además tampoco tiene mucho sentido, pues el origen espiritual de Europa es múltiple. ¿Por qué citar solo el cristianismo?



Y usted, ¿se considera también cristiano?

Si siento la tentación de abandonar el cristianismo es porque existe la Iglesia católica. Mi postura es bastante simple, pero me parece evidente que nadie se opone al mensaje de Jesucristo. Si alguien lo rechaza es por culpa del Papa y de la Iglesia. Para la fe sería mejor que la Iglesia no existiera. El problema es que sin la Iglesia puede que no nos hubieran llegado los Evangelios. Por ello soy un anticlerical moderado.



¿Cómo justifica el paso del cristianismo al comunismo? ¿Cómo se pasa de la caridad a la solidaridad y de esta al comunismo, a saber, a la propiedad colectiva de los medios de producción?

Es más fácil ser caritativo en un mundo en el que no hay propiedad privada. Si nos fijamos en el uso de la palabra “caridad” entendida como dar limosna, también se podría afirmar lo contrario, como si la caridad se pudiera reducir a la justicia social. Con todo, tiene usted razón, parece improbable que Jesús pensara en la colectivización de los medios de producción.



¿Qué finalidad persigue con la lectura izquierdista de Heidegger?

De la lectura izquierdista de Heidegger extraigo la idea de un poder social que no se funda en principios metafísicos. Afortunadamente no tenemos la verdad y por tanto podemos vivir en democracia. Una democracia no es posible donde hay verdades absolutas sobre la convivencia. Solo una concepción del ser como evento y no como estructura metafísica puede ser conforme a una sociedad democrática. Si queremos ser libres, todos los principios deben ser negociables. Pues en caso contrario, ¿quién establece cuáles son negociables y cuáles no?

       Gramsci hablaba con frecuencia del marxismo como filosofía de la praxis, que es como lo llamaba en sus cuadernos de la cárcel para poder pasar la censura fascista. La verdadera filosofía de la praxis, más que el marxismo, es Heidegger. Porque piensa al ser no como lo que está, sino como un acontecimiento, una apertura en la que se ilumina una época histórica. Es más fácil pensar democráticamente si uno es heideggeriano radical que si uno es metafísico en sentido absoluto. Como heideggeriano de izquierda pienso el ser como evento y, si hago política, intento construir una sociedad que no cometa el error metafísico de fundarse en principios absolutos y objetivos.

Martin Heidegger


Pero, siguiendo a Heidegger, ¿no podríamos derivar igualmente hacia la derecha?

Fundar una posición política sobre una tesis ontológica tan general puede llevarnos también a una postura fascista. Basta recordar que Heidegger había sido nazi. Pero la relación entre la reflexión filosófica y la política siempre es históricamente variable. Hoy, como heideggeriano, siento el deber de ser comunista. Primero, porque estoy en contra de una sociedad fundada sobre principios metafísicos. Segundo, porque la no fundación sobre principios metafísicos implica un reconocimiento de la igualdad. El nazismo de Heidegger, ¿contradice esto? No, era nazi porque pensaba que en la sociedad moderna se podía aceptar el ser como evento solo si se retornaba a una estructura preindustrial. Y en general no se equivocaba tanto; ahora comprendemos que la estructura de la industria, que la racionalización social, no parecen respetar la libertad. La declinación cristiana de todo esto es también una manera de interpretar el heideggerianismo. Si se acentúa el evento, la novedad, la apertura, elijo el proletariado porque es más proyectivo y menos conservador. Mi heideggerianismo de izquierda no es una posición universal, porque si fuera así me contradiría. Se trata de una posición historicohermenéutica.



En Hermeneutic Communism reivindican ustedes los logros del reciente populismo venezolano.

Sí, tiene una vertiente provocadora.



¿Cómo conectan ustedes los cambios políticos en América Latina con las reivindicaciones de la izquierda italiana y europea?

Ambas cuestiones no están muy alejadas. Estoy convencido de que Lula, Chávez, Castro, etc., están entre los fenómenos más importantes que han sucedido en el mundo en el último medio siglo. Se trata de casos distintos, claro está. Lula no es Chávez, pero es más amigo de Chávez que de Obama. Me convence la posibilidad que se ha abierto en América con el auge del socialismo. Creo que si se desea un cambio en la política mundial, la única posibilidad de que se dé proviene de un bloque socialista como este. Podemos compararlo con la Italia de los años cincuenta, en la que la izquierda era muy fuerte. Efectivamente, no alcanzó nunca el poder, pero condicionó decisivamente la política de la democracia cristiana. En los tiempos de los gobiernos democristianos en Italia, de la fuerza de la URSS en el mundo y de la del Partido Comunista en Italia, si bien el PCI no formaba parte del Gobierno, impedía que las fuerzas de derechas hicieran políticas totalmente reaccionarias. Del mismo modo, hoy en día la mera existencia de una América Latina orientada hacia la izquierda puede ayudar a impedir que los gobiernos capitalistas realicen políticas demasiado opresivas o bélicas. EE.UU. y sus cómplices serán más prudentes si en el mundo hay un bloque de resistencia democrática que limita sus acciones. Es importante, por ejemplo, que Lula se manifieste amigo de Irán o que apoye en la ONU a la Bolivia de Morales.





Notas

1   Gianni Vattimo, Adiós a la verdad, Gedisa, Barcelona, 2010.

2   Cf. Vattimo, op. cit., p. 51.

3   Richard Rorty, “Derechos humanos, racionalidad y sentimentalismo”, en Verdad y progreso, Paidós, Barcelona, 2000, p. 224.

4   Gianni Vattimo & Santiago Zabala, Hermeneutic Communism, Columbia University Press, 2011 (en prensa). Las traducciones castellana (Herder) y catalana (Edicions 62) están previstas para 2012.

5   Cf. René Girard & Gianni Vattimo, ¿Verdad o fe débil? Diálogo sobre cristianismo y relativismo, Paidós, Barcelona, 2011.

6   Cor. 13.13.



Verano (julio – septiembre 2011)