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giovedì 7 agosto 2014

"Caro Dershowitz, là non c'è una guerra ma una strage"


Si pubblica di seguito la risposta di Gianni Vattimo a Alan Dershowitz, professore di Giurisprudenza all'Università di Harvard, da La Stampa. La lettera di Dershowitz è consultabile qui.



Ringrazio Dershowitz non solo per l’invito ad andare a Gaza (ma come? Dovrei superare il blocco che dura da anni, e poi essere arrestato prima di arrivarci in base alle leggi anti-hamas che Israele condivide con gli Usa...); ringrazio anche perché con la sua lettera sulla Stampa mi permette finalmente – solo in base al diritto di risposta - di accedere a un pubblico più vasto di quello che si è potuto accorgere di me solo attraverso la Zanzara, unica via per cui finora, pur turandomi il naso, sono riuscito a farmi sentire.  

martedì 31 gennaio 2012

No alla guerra contro Iran e Siria: l'appello

Pubblicato su Il Manifesto, 20 gennaio 2012
«Sempre più concrete e minacciose si fanno le probabilità che la macchina di morte che ha infierito sulla Jugoslavia, sull'Afghanistan e sull'Iraq e che ha appena finito di devastare la Libia si scagli contro altri paesi sovrani. Paesi riottosi ad allinearsi ai persistenti progetti di Nuovo Ordine Mondiale ma la cui sottomissione è decisiva per rilanciare il dominio geopolitico degli Usa e della Nato in Asia e nel mondo intero. (...)
La guerra psicologica, multimediale e ideologica è in effetti già cominciata e ha già messo in campo le armi della disinformazione e della criminalizzazione dell'avversario ma ha anche già proiettato sul terreno i primi corpi d'elite. Questo appello, che invitiamo a sottoscrivere, è stato originariamente lanciato ai primi di gennaio in Germania, paese nel quale ha raccolto l'adesione di 5 parlamentari nazionali. Il testo è stato pubblicato e diffuso in molte lingue. Sul blog Freundschaft mit Valjevo e.V. la versione originale e le diverse traduzioni.
Fermare i preparativi di guerra! Mettere fine all'embargo! Solidarietà con il popolo iraniano e siriano!
Decine di migliaia di morti, una popolazione traumatizzata, un'infrastruttura largamente distrutta e uno Stato disintegrato: questo il risultato della guerra condotta dagli Usa e dalla Nato per poter saccheggiare la ricchezza della Libia e ricolonizzare questo paese. Ora preparano apertamente la guerra contro l'Iran e la Siria, due paesi strategicamente importanti e ricchi di materie prime che perseguono una politica indipendente, senza sottomettersi al loro diktat. Un attacco Nato contro Siria o Iran potrebbe provocare un diretto confronto con Russia e Cina - con conseguenze inimmaginabili.
Con continue minacce di guerra, con lo schieramento di forze militari ai confini dell'Iran e della Siria, nonché con azioni terroristiche e di sabotaggio da parte di "unità speciali" infiltrate, gli Usa e altri Stati della Nato impongono uno stato d'eccezione ai due paesi al fine di fiaccarli. (...) Al fine di procurarsi un pretesto per l'intervento militare da tempo pianificato cercano di acutizzare i conflitti etnici e sociali interni e di provocare una guerra civile. A questa politica dell'embargo e delle minacce di guerra contro l'Iran e la Siria collaborano in misura notevole la Ue e il governo italiano
Facciamo appello a tutti i cittadini, alle chiese, ai partiti, ai sindacati, al movimento pacifista perché si oppongano energicamente a questa politica di guerra. Chiediamo al governo italiano: di revocare senza condizioni e immediatamente le misure di embargo contro l'Iran e la Siria; di chiarire che non parteciperà in nessun modo a una guerra contro questi Stati e che non consentirà l'uso di siti italiani per un'aggressione da parte degli Usa e della Nato; di impegnarsi a livello internazionale per porre fine alla politica dei ricatti e delle minacce di guerra contro l'Iran e la Siria. (...)

Domenico Losurdo, Gianni Vattimo, Margherita Hack, Franco Cardini, Giulietto Chiesa, Costanzo Preve, seguono altre firme
 
Per sottoscrivere l'appello: noguerrasiriairan@libero.it, Paolo Ercolani, Università di Urbino, 0722-303600, 335-8370043, Facebook.com/Paolo Ercolani University of Urbino, Msn paolo.ercolani@hotmail.it

sabato 10 settembre 2011

Dobbiamo fermarli!


Ho firmato anch'io quest'appello, e sarò anch'io a Roma il 1 ottobre (tutte le informazioni relative all'iniziativa sono reperibili qui)

E’ da più di un anno che in Italia cresce un movimento di lotta diffuso. Dagli operai di Pomigliano e Mirafiori agli studenti, ai precari della conoscenza, a coloro che lottano per la casa, alla mobilitazione delle donne, al popolo dell’acqua bene comune, ai movimenti civili e democratici contro la corruzione e il berlusconismo, una vasta e convinta mobilitazione ha cominciato a cambiare le cose. E’ andato in crisi totalmente il blocco sociale e politico e l’egemonia culturale che ha sostenuto i governi di destra e di Berlusconi. La schiacciante vittoria del sì ai referendum è stata la sanzione di questo processo e ha mostrato che la domanda di cambiamento sociale, democrazia e di un nuovo modello di sviluppo economico, ha raggiunto la maggioranza del Paese.
A questo punto la risposta del palazzo è stata di chiusura totale. Mentre si aggrava e si attorciglia su se stessa la crisi della destra e del suo governo, il centrosinistra non propone reali alternative e così le risposte date ai movimenti sono tutte di segno negativo e restauratore. In Val Susa un’occupazione militare senza precedenti, sostenuta da gran parte del centrodestra come del centrosinistra, ha risposto alle legittime rivendicazioni democratiche delle popolazioni. Le principali confederazioni sindacali e la Confindustria hanno sottoscritto un accordo che riduce drasticamente i diritti e le libertà dei lavoratori, colpisce il contratto nazionale, rappresenta un’esplicita sconfessione delle lotte di questi mesi e in particolare di quelle della Fiom e dei sindacati di base. Infine le cosiddette “parti sociali” chiedono un patto per la crescita, che riproponga la stangata del 1992. Si riducono sempre di più gli spazi democratici e così la devastante manovra economica decisa dal governo sull’onda della speculazione internazionale, è stata imposta e votata come uno stato di necessità.
Siamo quindi di fronte a un passaggio drammatico della vita sociale e politica del nostro Paese. Le grandi domande e le grandi speranze delle lotte e dei movimenti di questi ultimi tempi rischiano di infrangersi non solo per il permanere del governo della destra, ma anche di fronte al muro del potere economico e finanziario che, magari cambiando cavallo e affidando al centrosinistra la difesa dei suoi interessi, intende far pagare a noi tutti i costi della crisi.
Nell’Unione europea la costruzione dell’euro e i patti di stabilità ad esso collegati, hanno prodotto una dittatura di banche e finanza che sta distruggendo ogni diritto sociale e civile. La democrazia viene cancellata da questa dittatura perché tutti i governi, quale che sia la loro collocazione politica, devono obbedire ai suoi dettati. La punizione dei popoli e dei lavoratori europei si è scatenata in Grecia e poi sta dilagando ovunque. La più importante conquista del continente, frutto della sconfitta del fascismo e della dura lotta per la democrazia e i diritti sociali del lavoro, lo stato sociale, oggi viene venduta all’incanto per pagare gli interessi del debito pubblico che, a loro volta, servono a pagare i profitti delle banche. Di quelle banche che hanno ricevuto aiuti e finanziamenti pubblici dieci volte superiori a quelli che oggi si discutono per la Grecia.
Questo massacro viene condotto in nome di una crescita e di una ripresa che non ci sono e non ci saranno. Intanto si proclamano come vangelo assurdità mostruose: si impone la pensione a 70 anni, quando a 50 si viene cacciati dalle aziende, mentre i giovani diventano sempre più precari. Chi lavora deve lavorare per due e chi non ha il lavoro deve sottomettersi alle più offensive e umilianti aggressioni alla propria dignità. Le donne pagano un prezzo doppio alla crisi, sommando il persistere delle discriminazioni patriarcali con le aggressioni delle ristrutturazioni e del mercato. Tutto il mondo del lavoro, pubblico e privato, è sottoposto a una brutale aggressione che mette in discussione contratti a partire da quello nazionale, diritti e libertà, mentre ovunque si diffondono autoritarismo padronale e manageriale. L’ambiente, la natura, la salute sono sacrificate sull’altare della competitività e della produttività, ogni paese si pone l’obiettivo di importare di meno ed esportare di più, in un gioco stupido che alla fine sta lasciando come vittime intere popolazioni, interi stati. L’Europa reagisce alla crisi anche costruendo un apartheid per i migranti e alimentando razzismo e xenofobia tra i poveri, avendo dimenticato la vergogna di essere stato il continente in cui si è affermato il nazifascismo, che oggi si ripresenta nella forma terribile della strage norvegese.
Il ceto politico, quello italiano in particolare coperto di piccoli e grandi privilegi di casta, pensa di proteggere se stesso facendosi legittimare dai poteri del mercato. Per questo parla di rigore e sacrifici mentre pensa solo a salvare se stesso. Centrodestra e centrosinistra appaiono in radicale conflitto fra loro, ma condividono le scelte di fondo, dalla guerra, alla politica economica liberista, alla flessibilità del lavoro, alle grandi opere.
La coesione nazionale voluta dal Presidente della Repubblica è per noi inaccettabile, non siamo nella stessa barca, c’è chi guadagna ancora oggi dalla crisi e chi viene condannato a una drammatica povertà ed emarginazione sociale.
Per questo è decisivo un autunno di lotte e mobilitazioni. Per il mondo del lavoro questo significa in primo luogo mettere in discussione la politica di patto sociale, nelle sue versioni del 28 giugno e del patto per la crescita. Vanno sostenute tutte le piattaforme e le vertenze incompatibili con quella politica, a partire da quelle per contratti nazionali degni di questo nome e inderogabili, nel privato come nel pubblico.
Tutte e tutti coloro che in questi mesi hanno lottato per un cambiamento sociale, civile e democratico, per difendere l’ambiente e la salute devono trovare la forza di unirsi per costruire un’alternativa fondata sull’indipendenza politica e su un programma chiaramente alternativo a quanto sostenuto oggi sia dal centrodestra, sia dal centrosinistra. Le giornate del decennale del G8 a Genova, hanno di nuovo mostrato che esistono domande e disponibilità per un movimento di lotta unificato.
Per questo vogliamo unirci a tutte e a tutti coloro che oggi, in Italia e in Europa, dicono no al governo unico delle banche e della finanza, alle sue scelte politiche, al massacro sociale e alla devastazione ambientale.
Per questo proponiamo 5 punti prioritari, partendo dai quali costruire l’alternativa e le lotte necessarie a sostenerla:
1. Non pagare il debito. Bisogna colpire a fondo la speculazione finanziaria e il potere bancario. Occorre fermare la voragine degli interessi sul debito con una vera e propria moratoria. Vanno nazionalizzate le principali banche, senza costi per i cittadini, vanno imposte tassazioni sui grandi patrimoni e sulle transazioni finanziarie. La società va liberata dalla dittatura del mercato finanziario e delle sue leggi, per questo il patto di stabilità e l’accordo di Maastricht vanno messi in discussione ora. Bisogna lottare a fondo contro l’evasione fiscale, colpendo ogni tabù, a partire dall’eliminazione dei paradisi fiscali, da Montecarlo a San Marino. Rigorosi vincoli pubblici devono essere posti alle scelte e alle strategie delle multinazionali.
2. Drastico taglio alle spese militari e cessazione di ogni missione di guerra. Dalla Libia all’Afghanistan. Tutta la spesa pubblica risparmiata nelle spese militari va rivolta a finanziare l’istruzione pubblica ai vari livelli. Politica di pace e di accoglienza, apertura a tutti i paesi del Mediterraneo, sostegno politico ed economico alle rivoluzioni del Nord Africa e alla lotta del popolo palestinese per l’indipendenza, contro l’occupazione. Una nuova politica estera che favorisca democrazia e sviluppo civile e sociale.
3. Giustizia e diritti per tutto il mondo del lavoro. Abolizione di tutte le leggi sul precariato, riaffermazione al contratto a tempo indeterminato e della tutela universale garantita da un contratto nazionale inderogabile. Parità di diritti completa per il lavoro migrante, che dovrà ottenere il diritto di voto e alla cittadinanza. Blocco delle delocalizzazioni e dei licenziamenti, intervento pubblico nelle aziende in crisi, anche per favorire esperienze di autogestione dei lavoratori. Eguaglianza retributiva, diamo un drastico taglio ai superstipendi e ai bonus milionari dei manager, alle pensioni d’oro. I compensi dei manager non potranno essere più di dieci volte la retribuzione minima. Indicizzazione dei salari. Riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, istituzione di un reddito sociale finanziato con una quota della tassa patrimoniale e con la lotta all’evasione fiscale. Ricostruzione di un sistema pensionistico pubblico che copra tutto il mondo del lavoro con pensioni adeguate.
4. I beni comuni per un nuovo modello di sviluppo. Occorre partire dai beni comuni per costruire un diverso modello di sviluppo, ecologicamente compatibile. Occorre un piano per il lavoro basato su migliaia di piccole opere, in alternativa alle grandi opere, che dovranno essere, dalla Val di Susa al ponte sullo Stretto, cancellate. Le principali infrastrutture e i principali beni dovranno essere sottratti al mercato e tornare in mano pubblica. Non solo l’acqua, dunque, ma anche l’energia, la rete, i servizi e i beni essenziali. Piano straordinario di finanziamenti per lo stato sociale, per garantire a tutti i cittadini la casa, la sanità, la pensione, l’istruzione.
5. Una rivoluzione per la democrazia. Bisogna partire dalla lotta a fondo alla corruzione e a tutti i privilegi di casta, per riconquistare il diritto a decidere e a partecipare affermando ed estendendo i diritti garantiti dalla Costituzione. Tutti i beni provenienti dalla corruzione e dalla malavita dovranno essere incamerati dallo Stato e gestiti socialmente. Dovranno essere abbattuti drasticamente i costi del sistema politico: dal finanziamento ai partiti, al funzionariato diffuso, agli stipendi dei parlamentari e degli alti burocrati. Tutti i soldi risparmiati dovranno essere devoluti al finanziamento della pubblica istruzione e della ricerca. Si dovrà tornare a un sistema democratico proporzionale per l’elezione delle rappresentanze con la riduzione del numero dei parlamentari. E’ indispensabile una legge sulla democrazia sindacale, in alternativa al modello prefigurato dall’accordo del 28 giugno, che garantisca ai lavoratori il diritto a una libera rappresentanza nei luoghi di lavoro e al voto sui contratti e sugli accordi. Sviluppo dell’autorganizzazione democratica e popolare in ogni ambito della vita pubblica.
Questi 5 punti non sono per noi conclusivi od esclusivi, ma sono discriminanti. Altri se ne possono aggiungere, ma riteniamo che questi debbano costituire la base per una piattaforma alternativa ai governi liberali e liberisti, di destra e di sinistra, che finora si sono succeduti in Italia e in Europa variando di pochissimo le scelte di fondo.
Vogliamo trasformare la nostra indignazione, la nostra rabbia, la nostra mobilitazione, in un progetto sociale e politico che colpisca il potere, gli faccia paura, modifichi i rapporti di forza per strappare risultati e conquiste e costruire una reale alternativa.
Aderiamo sin d’ora, su queste concrete basi programmatiche, alla mobilitazione europea lanciata per il 15 ottobre dal movimento degli “indignados” in Spagna. La solidarietà con quel movimento si esercita lottando qui e ora, da noi, contro il comune avversario.
Per queste ragioni proponiamo a tutte e a tutti coloro che vogliono lottare per cambiare davvero, di incontrarci. Non intendiamo mettere in discussione appartenenze di movimento, di organizzazione, di militanza sociale, civile o politica. Riteniamo però che occorra a tutti noi fare uno sforzo per mettere assieme le nostre forze e per costruire un fronte comune, sociale e politico che sia alternativo al governo unico delle banche.
Per questo proponiamo di incontrarci il 1° ottobre, a Roma, per un primo appuntamento che dia il via alla discussione, al confronto e alla mobilitazione, per rendere permanente e organizzato questo nostro punto di vista.

mercoledì 13 aprile 2011

Philosophers at War

Philosophers at war
(translated by Andrea Pavoni for Critical Legal Thinking)

In times of confrontations between explicitly material interests, and in the absence of any real public debate involving the Italian Government (busy protecting the orgy of power), what could be better than a proper exchange between internationally-renowned philosophers, on the alleged necessity of a military intervention in Libya? In an article published on the 28th of March on Libération, Jean-Luc Nancy defends the Western operation. Bengazi insurgents, he explains, are asking us to defeat the ‘vile murderer’ Gaddafi, and the West is called upon to assume the political responsibility for that desired change. Nancy believes that the non-interventionists’ arguments – the potential collateral risks of the operation, the suspicions about the real interests at stake, the principle of non-interference in the reserved domain of States, the weight of the (recent) colonial past – are de facto no longer valid in this globalised world, which empties the principle of sovereignty of any meaning. In such a world it is rather necessary “to reinvent the act of living together and, before all else, the act of living itself”. This, ultimately, would be what the Arab people are forcing us to acknowledge. Hence the necessity of the intervention, in order to protect the rebels from Gaddafi’s bloody clutches. In the second instance, only in the second one, the Western people (we all) should act so as to neutralise oil, financial and war merchants’ interests, already responsible for bringing and keeping such ‘puppets’ as Gaddafi in power.

The answer to Nancy, coming from a stupefied Alain Badiou, deserves the greatest attention. First, he reminds, in Libya we didn’t face a popular uprising such as the Egyptian and Tunisian ones. In Libya there is no trace of documents and flags of protest of the same character as those employed in Egypt and Tunisia, and no women are to be found among Libyan rebels. Second, since the last autumn British and French secret services have been organising Gaddafi’s fall; this would explain, third, both the weapons of unknown origin, available to the rebels, as well as the sudden formation of a revolutionary council to replace the Raìs’ government. Fourth: in contrast to the other Arab countries, explicit help requests have been coming from Libya. According to Badiou, the Western objective is evident: “to transform a revolution into a war”, to replace the rebels with weapons (heavy weapons, armoured vehicles, war instructors, blue helmets), so as to allow “the despotism of capital” to “reconquest” the effervescence of the Arab world. If this wasn’t the case, Badiou asks – and we ask our regime too – how could those same Western leaders, friends to Gaddafi, perform such a turnaround?

What, then, is to be done? Even in the case we would be willing to concede – and we are far from being persuaded by it – that the humanitarian motivation would suffice to justify the intervention. As Peter Singer contends recalling the catastrophe of Rwanda, it is still impossible to ignore that the UN resolution does not authorise a military intervention (Singer himself reminds that). From a utilitarian perspective – in his consequentialist version, that is – collateral risks do matter indeed. Wouldn’t it have been better to seek to obtain the desired outcome by resorting to deterrent measures and high-efficacy sanctions, emphasising precisely (and uniquely) the humanitarian reasons for opposing to Gaddafi? In any case, Nancy’s solution is wholly unsatisfying: why wait (for the military intervention to succeed) to prevent (only in the second instance) the sordid material interests from coming back onto the political scene? Doing this, Badiou explains, would equate to bowing to the Western will, repressing the “unexpected and intolerable” (for the Western warlords, that is) character of the Egyptian and Tunisian revolutions, and thus the “political autonomy” and “independence” of the Arab revolutionaries.

Badiou is right: as I wrote in this blog some posts ago, the multipolar world has its own needs. It is simply not enough to remind all that the Western Imperialism of the cold-war and post cold-war era can no longer aspire to dominate the world. The true revolution will come when the West will learn to step back, to accept the difference, to realise that in a globalised world the concept of sovereignty has even more significance. Nancy’s is a logic mistake: it is exactly the world we wish for, the (international) society in which we would wish to live – to use the words written by Singer somewhere else – which calls upon us to revisit the traditional criteria of the interventionist logic. The world in which we would wish to live, today and tomorrow, is not that of Sarkozy and Cameron, but rather one in which the Arab countries, likewise those of Latin America and Asia, will be legitimate to build from a position of independence and equal rights with respect to the Western nations.

Gianni Vattimo

giovedì 7 aprile 2011

Filosofi in guerra

Dal mio blog su Il Fatto quotidiano, 7 aprile 2011

Filosofi in guerra

Quoi de mieux, in tempi di smaccati interessi materiali contrapposti e in assenza di un reale dibattito pubblico che coinvolga il governo italiano (impegnato a difendere l’orgia del potere), di uno scambio tra filosofi di livello internazionale sulla presunta necessità dell’intervento militare in Libia? In un articolo pubblicato su Libération il 28 marzo, Jean-Luc Nancy difende le operazioni occidentali. Gli insorti di Bengasi, spiega, ci chiedono di sconfiggere il “vile assassino” Gheddafi, e l’Occidente è chiamato ad assumersi la responsabilità politica dell’auspicato cambiamento. Nancy ritiene che gli argomenti sollevati dai non-interventisti – i possibili rischi collaterali dell’operazione, i sospetti relativi ai reali interessi in gioco, il principio di non-interferenza nel dominio riservato degli stati e anche il peso del (recente) passato coloniale – non valgano più, di fatto, nell’attuale mondo globalizzato, che svuota di senso il principio di sovranità, e nel quale è anzi necessario “reinventare il vivere insieme, e prima di tutto lo stesso vivere”. Sarebbe questo, in ultima istanza, ciò che i popoli arabi ci costringono a riconoscere. Di qui la necessità dell’intervento, per proteggere i rivoltosi dalle grinfie sanguinarie di Gheddafi. In seconda battuta, ma solo in seconda, i popoli occidentali (noi tutti) dovrebbero agire in modo tale da neutralizzare gli interessi petroliferi, finanziari, e quelli dei mercanti della guerra, che hanno condotto e mantenuto al potere “puppets” come Gheddafi.

La risposta a Nancy giunta da uno stupefatto Alain Badiou è degna della massima attenzione. Primo, ricorda Badiou, in Libia non si è assistito a una rivolta popolare del tipo di quelle egiziana e tunisina. In Libia non vi è traccia di documenti e di vessilli di protesta dello stesso carattere di quelli utilizzati in Egitto e Tunisia, e tra i ribelli libici non si osservano donne. Secondo, è dall’autunno che i servizi segreti britannici e francesi organizzano la cacciata di Gheddafi; di qui (terzo argomento) la presenza di armi di origine sconosciuta a disposizione dei rivoltosi libici, e del consiglio rivoluzionario immediatamente formatosi in sostituzione del governo del raiss. Quarto: esplicite richieste di aiuto sono giunte alle potenze occidentali, in Libia ma non negli altri paesi arabi in rivolta. L’obiettivo dell’Occidente è palese, secondo Badiou: “trasformare la rivoluzione in una guerra”, sostituire i rivoltosi con le armi (armi pesanti, mezzi militari, istruttori di guerra, caschi blu), così da permettere al “dispotismo del capitale” di “riconquistare” l’effervescente mondo arabo. Altrimenti come potrebbero, si domanda Badiou e domandiamo noi al nostro regime, quegli stessi capi di governo occidentali amici di Gheddafi operare un simile voltafaccia?

Ma allora, come sempre, che fare? Se anche – e siamo lontani dall’esserne persuasi – la motivazione umanitaria fosse sufficiente per giustificare l’intervento, come sostiene Peter Singer richiamando il disastro del Rwanda, non si può nascondere (è Singer stesso a ricordarlo) che la risoluzione dell’Onu non autorizza all’intervento militare. In ottica utilitaristica ma nella sua versione consequenzialista, i rischi collaterali contano eccome. Non sarebbe stato meglio tentare di ottenere il risultato sperato adottando misure deterrenti e sanzioni di elevata efficacia, puntando proprio (e unicamente) sulle ragioni umanitarie dell’opposizione a Gheddafi? La soluzione di Nancy è poi del tutto insoddisfacente: perché attendere (che l’intervento militare abbia successo) per impedire (in seconda battuta, appunto) il ritorno dei sordidi interessi materiali sulla scena politica? Così facendo, ci si piegherebbe alla volontà occidentale, spiega Badiou, di reprimere il carattere “inatteso e intollerabile” (per i signori della guerra occidentali) della rivolta egiziana e tunisina, “l’autonomia politica” e “l’indipendenza” dei rivoltosi arabi.

Badiou ha ragione: come scrivevo in questo blog qualche post fa, il mondo multipolare ha le sue esigenze. Non basta ricordare che l’imperialismo occidentale dei tempi della guerra fredda e degli anni immediatamente successivi non può più ambire a dominare il mondo. La vera rivoluzione giungerà quando l’Occidente avrà imparato a fare un passo indietro, ad accettare la differenza, a capire che il concetto di sovranità è ancora più importante, ora che il mondo è globalizzato. Quello di Nancy è un errore logico: è proprio il mondo che vorremmo, la società (internazionale) nella quale vorremmo vivere, per usare le parole scritte da Singer in altri saggi, che ci chiama a rivisitare i tradizionali criteri della logica interventista. E il mondo nel quale vorremmo vivere, oggi e domani, non è quello di Sarkozy e Cameron, ma uno che i paesi arabi, così come quelli dell’America Latina e quelli asiatici, siano legittimati a costruire in posizione di indipendenza e di pari diritti rispetto alle nazioni occidentali.

Gianni Vattimo

martedì 5 aprile 2011

Libia o un viejo mundo en guerra

Libia o un viejo mundo en guerra

“¿No sería hora de dejar de usar a la ONU como pantalla? ¿Qué legitimidad puede derivar de ella hoy?”, se pregunta el filósofo italiano, para quien la crisis de Libia exhibe el sometimiento de la política a la economía.

Escribir algo sensato sobre la guerra en Libia es difícil. Y es difícil escribir algo sensato en general sobre guerras como ésta, ahora más que nunca. Se podía quizás en vísperas de las primeras intervenciones militares posteriores a la Guerra Fría, Irak, etcétera. Pero ahora, con la carga de esas experiencias, no podemos hacer otra cosa que leer y releer el artículo de Massimo Fini, publicado por el Fatto Quotidiano (ilfattoquotidiano.it) y retomado por MicroMega, y estar sustancialmente de acuerdo con él.

Estamos en guerra, con la bendición (justamente...) de la ONU, del presidente napolitano y de todos los intervencionistas humanitarios. Y a toda velocidad, con una facilidad desarmante (la guerra se apodera también del vocabulario) nos deslizamos en ella sin darnos cuenta. A tal punto que, pensándolo bien, los resultados reales que obtendremos son los señalados por Fini: crearemos un precedente sin precedentes, justamente, el de una intervención dentro del ámbito reservado de un Estado que no invadió a ningún vecino, pero cuyo poder central se rebela contra la rebelión de una parte del país que nunca asimiló la unidad. Reavivaremos el terrorismo, feliz con la evolución de la crisis, legitimando por otra parte cualquier venganza libia. Protegeremos nuestros intereses, haciéndonos como de costumbre portadores de un ideal de democracia que es tal, precisamente, porque nos queda cómodo, es más, nos permite hacer lo que se nos da la gana cómodamente.

Intervenimos con fines humanitarios, contentos de no haber sido cuestionados por Egipto –actuar contra Mubarak habría sido francamente demasiado, para Estados Unidos y los numerosos proveedores del tirano– pero conscientes de la imposibilidad de ver pasar los cadáveres sobre las orillas –las playas– libias. Si el pueblo se arregla solo, exultamos. De lo contrario, intervenimos. Imponiendo en los dos casos –porque siempre es posible después lamentarnos del peligro del extremismo islámico– la norma democrática occidental como regla del “ Brave New World ”.

El problema principal, como ocurre siempre en estos casos, es que habrá que esperar para saber qué deberíamos haber hecho. Tendríamos que haber aplaudido cuando Vietnam invadió la Camboya de Pol Pot, y en cambio, en esos tiempos, nos escandalizamos por la primera guerra entre dos países comunistas.

Tendríamos que haber detenido la masacre en Ruanda, y seguramente tendríamos que haber intervenido para frenar la guerra en Yugoslavia. Pero habríamos podido (debido) actuar antes, no después: tendríamos que haber discutido públicamente, como Europa, en vez de limitarnos a observar atónitos, el inmediato reconocimiento por parte de Alemania y los países europeos, de las reivindicaciones nacionales de Eslovenia y compañía.

Tal vez habríamos comprendido que la adopción de una estrategia pura de interés personal económico produce consecuencias no deseadas, y no sólo la feliz mano invisible smithiana, sino también el fortalecimiento de nacionalistas estilo Milosevic.

Pero aquí y ahora (en Libia) ¿qué hacer? Protestar, sobre todo, por el sometimiento exagerado de la política internacional a los intereses económicos: donde estos intereses no existen, el problema de los derechos humanos no se plantea. Indignarnos por la cómoda excusa, la de los derechos humanos (que lamentablemente, aun cuando se la emplea de buena fe, sigue siendo un pretexto en la Realpolitik internacional), utilizada para bombardear un país –perdón, para salvaguardar una “zona de exclusión”– y no simplemente para bloquear, y en rigor incluso deponer, a un tirano.

Avergonzarnos por el espectáculo obsceno de la diplomacia internacional –el aterrador Sarkozy y el arribista Cameron; la OTAN invocada por quienes la forman pero no la dirigen, porque quien la dirige tiene miedo de los efectos que provocaría la bandera; la nuestra, incalificable, cruza de profesor de esquí y cantante de crucero; la formación de la santa alianza anti-BRIC (Brasil, Rusia, China, India) y, como recordaba Paolo Ferrero, incluso la inserción de un verdadero y auténtico campeón de la democracia, Qatar, en el grupo de los cruzados.

En resumidas cuentas: ¿No sería hora de dejar de usar a Naciones Unidas como pantalla? ¿Qué legitimidad puede derivar de la ONU, hoy? De un acuerdo aprobado en 1945, que asigna explícitamente a las potencias vencedoras de una guerra mundial el deber de mantener la paz, y que como tal nunca funcionó (la paz fue asegurada por el régimen de terror frío dirigido por las dos superpotencias, y cuando éste acabó, la ONU terminó autorizando guerras que no podían contar con el consenso de la parte derrotada, la Rusia post-soviética).

El Consejo de Seguridad es un órgano no democrático y, lisa y llanamente, vetusto. Una Europa iluminada debería preocuparse sobre todo por rediscutir los organismos de cooperación internacional con los países BRIC. Entonces sí, podremos preguntarnos legítimamente qué hacer con Libia y su régimen. No tener una guerra mundial y sus vencedores sobre las espaldas puede ser una debilidad, pero también una fuerza, si se aprovecha para crear una institución que realmente sea supranacional, que pueda velar (un poco más) por el interés general.

En cualquier caso, la cuestión es urgente. Las tecnologías envejecen, como enseña Fukushima. Todo nuestro mundo es demasiado viejo: es viejo el FMI, es vieja Europa, es vieja la ONU. Y, en la próxima crisis, los BRIC no se quedarán mirando.

Gianni Vattimo

(c) MicroMega y Clarin, 2011. Traduccion de Cristina Sardoy.

domenica 27 marzo 2011

Un mondo vecchio in guerra


Articolo postato sul mio blog de Il Fatto quotidiano.

Un mondo vecchio in guerra

Scrivere qualcosa di sensato sulla guerra in Libia è difficile. Ed è difficile scrivere qualcosa di sensato in generale su guerre come questa, ora più che mai. Lo si poteva forse fare alla vigilia dei primi interventi militari post-guerra fredda, Iraq e seguenti. Ma ora, appesantiti da queste esperienze, non possiamo che leggere e rileggere l’articolo di Massimo Fini, pubblicato dal Fatto Quotidiano e ripreso da MicroMega, e trovarci sostanzialmente d’accordo con lui.

Siamo in guerra, con buona pace (appunto…) dell’Onu, del presidente Napolitano e di tutti gli interventisti umanitari. E lo siamo in tutta rapidità, con una facilità disarmante (la guerra s’impadronisce anche del lessico), ci siamo scivolati dentro senza accorgercene. Tanto che, a ben guardare, i veri risultati che otterremo sono proprio quelli indicati da Fini: creeremo un precedente senza precedenti, appunto, quello di un intervento nel dominio riservato di uno stato che non ha invaso alcun vicino, ma il cui potere centrale si ribella alla ribellione di una parte del paese che non ha mai digerito l’unità. Ravviveremo il terrorismo, ben felice dell’evoluzione della crisi, legittimando per altro qualsiasi ritorsione libica. Proteggeremo i nostri interessi, facendoci come al solito portatori di un’ideale di democrazia che è tale proprio perché ci fa comodo, anzi ci permette di fare i nostri comodi.

Interveniamo per fini umanitari, contenti di non essere stati chiamati in causa per l’Egitto – agire contro Mubarak sarebbe stato francamente troppo, per gli Stati Uniti e i tanti foraggiatori del tiranno – ma consapevoli dell’impossibilità di veder passare i cadaveri sulle rive – sulle spiagge – libiche. Se il popolo ce la fa da solo, esultiamo. Altrimenti, interveniamo. Imponendo, in entrambi i casi – perché è sempre possibile, dopo, lamentarsi del pericolo dell’estremismo islamico –, lo standard democratico occidentale come regola del brave new world.

Il problema principale, come sempre in questi casi, è che bisognerà attendere per sapere che cosa avremmo dovuto fare. Avremmo dovuto applaudire l’invasione della Cambogia polpottiana da parte del Viet Nam, e invece, ai tempi, ci scandalizzammo per la prima guerra tra due paesi comunisti. Avremmo dovuto fermare il massacro in Rwanda, e sicuramente avremmo dovuto intervenire per fermare la guerra in Jugoslavia. Ma avremmo potuto (dovuto) agire prima, non dopo: avremmo dovuto discutere pubblicamente, come Europa, anziché limitarci a osservare attoniti, l’immediato riconoscimento, da parte della Germania e dei paesi europei, delle rivendicazioni nazionali di Slovenia e compagni. Avremmo forse capito che l’adozione di una strategia pura di economic self-interest produce conseguenze non desiderate, e non solo la felice mano invisibile smithiana, ma anche l’irrobustimento di nazionalisti alla Milosevic.

Ma ora e qui (in Libia), che fare? Protestare, innanzitutto, per lo smaccato asservimento della politica internazionale agli interessi economici: laddove questi interessi non esistono, il problema dei diritti umani non si pone. Indignarsi per il comodo pretesto, quello dei diritti umani (che purtroppo, anche quando lo si impiega in buona fede, resta un pretesto nella realpolitik internazionale), utilizzato per bombardare un paese – pardon, per salvaguardare una “no-fly zone” – e non semplicemente per bloccare, e al limite persino deporre, un tiranno. Vergognarsi per l’osceno spettacolo della diplomazia internazionale – il terrificante Sarkozy e l’arrivista Cameron; la Nato invocata da chi ne fa parte ma non la comanda, perché chi la comanda ha paura degli effetti che il vessillo provocherebbe; la nostra, inqualificabile, accoppiata tra maestro di sci e cantante da crociera; la formazione della santa alleanza anti-Bric (Brasile, Russia, Cina, India) e, come ricordava Paolo Ferrero, persino l’inserimento di un vero e proprio campione della democrazia, il Qatar, nel gruppo dei crociati.

A dirla tutta: non sarebbe ora di smetterla di usare le Nazioni Unite come paravento? Quale legittimità può ormai derivare all’Onu, oggi, da un accordo approvato nel 1945, che assegna esplicitamente alle potenze vincitrici di una guerra mondiale il compito di mantenere la pace, e che come tale non ha mai funzionato (la pace fu assicurata dal regime di terrore freddo retto dalle due superpotenze, e quando questo venne meno, l’Onu finì per autorizzare guerre che non potevano contare sul consenso della parte sconfitta, la Russia post-sovietica). Il Consiglio di Sicurezza è un organo non democratico e, più semplicemente, vetusto. Un’Europa illuminata dovrebbe preoccuparsi innanzitutto di ridiscutere gli organismi di cooperazione internazionale con i paesi Bric. Allora sì, potremo chiederci legittimamente cosa fare con la Libia e il suo regime. Non avere una guerra mondiale e i suoi vincitori alle spalle può essere una debolezza, ma anche una forza, se sfruttata per creare un’istituzione che sia realmente sovranazionale, che possa guardare (un po’ più) all’interesse generale. In ogni caso, la questione si pone con urgenza. Le tecnologie invecchiano, come Fukushima insegna. Tutto il nostro mondo è troppo vecchio: è vecchio l’Fmi, è vecchia l’Europa, è vecchia l’Onu. E, alla prossima crisi, i Bric non staranno a guardare.

sabato 11 dicembre 2010

È globale l'assedio ai diritti umani

È globale l'assedio ai diritti umani

Contro gli ottimisti che giurano sullo sviluppo automatico

La Stampa - TuttoLibri, 4 dicembre 2010

Non è certo un libro di lettura “comoda”, l’ultimo lavoro di Danilo Zolo, Tramonto globale. La fame il patibolo la guerra (Firenze University Press, Firenze, 2010, pp. 226, euro 17,90), ma per molteplici ragioni è il testo che ci sentiamo di raccomandare più di tutti, in questo momento in cui non sappiamo più bene in che mondo viviamo. Per esempio: non sappiamo se davvero stiamo in Afganistan per garantire la pace e i diritti umani, per difenderci (come membri della Nato) dalle minacce del “terrorismo internazionale” e per condurre una “guerra umanitaria”, e cioè giusta e meritevole di ogni sacrificio anche finanziario ai danni della nostra scuola e della nostra previdenza sociale.

I tre termini che fanno da sottotitolo, fame, patibolo, guerra, non sono scelti a caso, per suscitare orrore emotivo verso questi cavalieri dell’Apocalisse. Sono i fenomeni che, secondo Zolo, giustificano il suo pessimismo, enunciato esplicitamente nella introduzione: “L’ottimismo è viltà. Il pessimismo è coraggio”. Da studioso di scienze politiche (professore a Firenze e in varie università straniere) e anche da osservatore “impegnato” della storia contemporanea, Zolo – che si richiama molto frequentemente a Bobbio e al suo L’età dei diritti, senza però dimenticare la lezione di Carl Schmitt – dedica le tre sezioni del libro ai temi che sono stati al centro di quella riflessione di Bobbio, e cioè a un bilancio dei diritti umani, dello sviluppo della democrazia e del destino della pace, nel mondo in cui viviamo e che, secondo gli ottimisti, non necessariamente vili, in virtù della globalizzazione, avrebbe finalmente la possibilità concreta di realizzare quei valori.

Proprio la globalizzazione, invece, non solo non garantisce quegli sviluppi positivi che gli ottimisti si attendevano, ma ne minaccia in modo fatale la realizzazione dei diritti. “Oggi le venti persone più ricche del mondo dispongono di una ricchezza complessiva pari a quella del miliardo più povero” (p. 111, che richiama molti studi sul tema di Luciano Gallino).

E non si tratta solo di differenze percentuali, che potrebbero messere mitigate dall’aumento della ricchezza complessiva. “La verità è che le spese militari,le vittime civili dei conflitti e le morti per denutrizione sono aumentate negli ultimi due decenni in tragica sintonia” (p. 17): Joseph Stiglitz, ricorda Zolo, ha calcolato che in questo periodo sono aumentate di almeno cento milioni le persone che vivono in estrema povertà, mentre il reddito mondiale globale cresceva del 2,5% all’anno.

Ma come, non lo sapevamo già, tutto questo? Certo che sì, le statistiche su cui lavorano Zolo, Stiglitz, Gallino sono pubbliche; noi stessi ne leggiamo spesso nei giornali, ce lo dice persino la televisione. Non possiamo certo pensare a un immane complotto, del tipo di quello satireggiato dall’ultimo romanzo di Umberto Eco. Solo che per Zolo è ancora più difficile credere che la globalizzazione sia un processo avvenuto da sé, per lo sviluppo casuale di forze anonime (scoperte, nuove tecnologie, ecc.). Essa è l’esito delle scelte consapevoli delle maggiori potenze del pianeta, che, dando via libera alla concorrenza globale in nome di una dogmatica fede (non certo disinteressata) nel mercato, costringono gli stati nazionali a limitare i diritti dei lavoratori, a tagliare la spesa sociale, a aumentare le spese militari.

Naturalmente, gli ottimisti credono alla tesi dello sviluppo automatico della globalizzazione (così un sociologo come Bauman, citato da Zolo) e sono convinti che essa determinerà una diffusione di democrazia, pace, diritti, proprio per i suoi benefici effetti economici. Questi teorici, western globalists come Zolo ci insegna a chiamarli, includono nelle loro file pensatori del calibro di Juergen Habermas, Amartya Sen, Ralph Dahrendorf, oltre a Bauman, a Michael Walzer, Michael Ignatieff, Ulrich Beck. E’ utile fare questi nomi perché sono l’élite del progressismo democratico. Le cui aspettative sono tragicamente smentite appunto da realistico bilancio di Zolo, che proprio in questo realismo si mostra vero discepolo dell’ultimo Bobbio.

Se l’esplosione delle diseguaglianze economiche smentisce le speranze nella globalizzazione, il riconoscimento dei diritti umani è sempre più pesantemente minacciato dalla diffusione delle pretese universalistiche del common sense morale occidentale che, implicitamente per molti ed esplicitamente per alcuni come Walzer, non ha bisogno di giustificazioni, è l’etica universale tout court (vedi p. 162). A cui ricorrere per decidere su guerre giuste, azioni di polizia internazionale, interventi umanitari richiesti o anche no dalle Nazioni Unite, e gestiti sempre più autonomamente dalla Nato. Anche sul tema della pace, perciò, il nostro mondo ormai, e per ora, unipolare, è molto meno sicuro che ai tempi della Guerra fredda.

Zolo non pretende ovviamente di suggerire ricette contro questo tramonto globale delle nostre speranze. Si spinge solo a dire che se l’Europa riuscisse a diventare un vero soggetto politico autonomo, anzitutto dagli Stati Uniti, potremmo sperare in una più vivace multipolarità, magari un po’ più conflittuale ma capace di risvegliarci dal letargo e riaprire le finestre del futuro.

Gianni Vattimo

mercoledì 10 novembre 2010

Firenze, in 1500 chiedono giustizia ed equità per chi manifestò contro la guerra nel 1999

Firenze, in 1500 chiedono giustizia ed equità per chi manifestò contro la guerra nel 1999


Crescono le adesioni: da Gino Strada a Paul Ginsborg, da Piero Pelù a Massimo Carlotto e Alfredo Zuppiroli

A due giorni dall’inizio del processo di appello ben 1500 firme , raccolte in una settimana, spingono l’appello per chiedere giustizia nei confronti dei 13 condannati a sette anni per aver manifestato contro la guerra in Kosovo nel 1999. Dopodomani, 5 novembre, si terrà infatti il processo di appello e tra le 1500 firme di cittadini e cittadine turbati per la esagerata sentenza di condanna di primo grado troviamo anche i nomi illustri di Gino Strada, fondatore di Emergency e dello storico inglese Paul Ginsborg, del cantante Piero Pelù e dello scrittore Massimo Carlotto, del sociologo Alessandro Pizzorno e di Vittorio Agnoletto.

[Firma anche tu qui http://bit.ly/d8q0VG]

A sottoscrivere il testo anche l’europarlamentare Gianni Vattimo, il giurista Danilo Zolo e i presidenti nazionali di Banca Etica e dell’Arci, rispettivamente Ugo Biggeri e Paolo Beni; il conduttore Rai Massimo Cirri, il presidente della Fondazione Michelucci Alessandro Margara e il presidente della Commissione di Bioetica della Regione Toscana e primario all’Ospedale S.M.Annunziata Alfredo Zuppiroli; Silvano Sarti, presidente dell’Anpi Firenze e Roberto Passini presidente del Comitato per la difesa della Costituzione. A fianco dei 13 imputati anche i sacerdoti Vitaliano della Sala e Andrea Bigalli; Maso Notarianni, direttore di Peacereporter, Aldo Zanchetta dell’omonima Fondazione, Alberto Ziparo del Comitato contro il sottoattraversamento Tav e Lore nzo Bargellini del Movimento di lotta per la casa.

Ad affiancare coloro che hanno promosso l’appello – tra i quali ricordiamo Alessandro Santoro, Andrea Satta, Angela Staude Terzani, Enzo Mazzi, Folco Terzani, Luigi Ciotti, Ornella De Zordo, Marco Vichi, Sandro Veronesi, Sergio Staino, Simona Baldanzi – anche molti amministratori locali, consiglieri regionali, comunali e di quartiere, direttori di siti e giornali on line, attivisti di associazioni in difesa dei diritti.

Il testo dell’appello

Il 5 novembre comincerà il processo di appello per i fatti avvenuti oltre dieci anni fa, il 13 maggio 1999, nei pressi del consolato statunitense di Firenze. Quel giorno migliaia di persone parteciparono a una manifestazione contro la guerra in Jugoslavia, che si concluse appunto sotto il consolato. Vi fu un breve concitato contatto fra le forze dell’ordine e i manifestanti, per fortuna senza conseguenze troppo gravi, se non alcuni manifestanti contusi, fra cui una ragazza che dovette essere operata ad un occhio. Nessuno, sul momento, fu fermato o arrestato, ma in seguito vi furono identificazioni e denunce. Si è arrivati così alle condanne di primo grado, molto pesanti per i 13 imputati: ben sette anni, per le accuse di resistenza aggravata a pubblico ufficiale. Nel dibattimento si sono confrontate le tesi – molto divergenti – delle forze dell’ordine e dei manifestanti.

Non intendiamo sindacare le procedure legali, né esprimere giudizi tecnico-giuridici sulla sentenza, ma ci pare che le pene inflitte in primo grado e le loro conseguenze sulla vita delle persone imputate, siano del tutto sproporzionate rispetto alla reale portata dei fatti. Non vi furono, il 13 maggio 1999, reali pericoli per l’ordine pubblico o per l’incolumità delle persone, e non è giusto – in nessun caso – infliggere pene pesanti, in grado di condizionare e stravolgere l’esistenza di una persona, per episodi minimi: perciò esprimiamo la nostra pubblica preoccupazione in vista del processo d’appello, convinti come siamo che la giustizia non possa mai essere sinonimo di vendetta e nemmeno strumento per mandare messaggi “esemplari” a chicchessia. Seguiremo il processo e invitiamo la cittadinanza a fare altrettanto, perché questa non è una storia che riguarda solo 13 persone imputate, ma un pass aggio significativo per la vita cittadina e per il senso di parole e concetti che ci sono cari, come democrazia, giustizia, equità.

I promotori

Alessandro Santoro, Comunità delle Piagge | Andrea Calò, consigliere provinciale | Andrea Satta, musicista, Tete de bois | Angela Staude Terzani, scrittrice | Beatrice Montini, Giornalisti contro il razzismo | Carlo Bartoli, giornalista | Catia di Sabato, rappresentante studenti universitari | Chiara Brilli, giornalista | Christian De Vito, ricercatore | Corrado Mauceri, Comitato per la difesa della Costituzione | Cristiano Lucchi, giornalista | Domenico Guarino, giornalista | Emiliano Gucci, scrittore | Enrico Fink, musicista | Enzo Mazzi, Comunità dell’Isolotto | Filippo Zolesi, Sinistra unita e plurale | Folco Terzani, scrittore | Francesca Chiavacci, consigliera comunale | Francesco di Giacomo, musicista Banco del Mutuo Soccorso | Francesco Pardi, senatore | Giuliano Giuliani e Haidi Gaggio Giuliani, genitori di Carlo Giuliani | John Gilbert, Statunitensi contro la guerra | Lisa Clark, Beati i costruttori di pace | Lorenzo Guadagnucci, Comitat o verità e giustizia su Genova | Luigi Ciotti, prete | Mauro Banchini, giornalista | Mauro Socini, presidenza Anpi Firenze | Marcello Buiatti, biologo | Marco Vichi, scrittore | Maria Grazia Campus, Comitato bioetica Regione Toscana | Maurizio De Zordo, Lista di cittadinanza perUnaltracittà | Miriam Giovanzana, Terre di mezzo | Moreno Biagioni Rete Antirazzista fiorentina | Ornella De Zordo, consigliera comunale | Paolo Ciampi, giornalista e scrittore | Paolo Solimeno, Giuristi democratici | Petra Magoni, musicista | Pietro Garlatti, rappresentante studenti universitari | Raffaele Palumbo, giornalista | Riccardo Torregiani Comitato fermiamo la guerra Firenze | Sandra Carpilapi, Sinistra unita e plurale | Sandro Targetti, Comitato No Tav | Sandro Veronesi, scrittore | Sara Vegni, Comitato 3 e 32 | Sergio Staino, vignettista | Simona Baldanzi, scrittrice | Ulderico Pesce, attore e regista | Vincenzo Striano, referente associazionismo.

L’appello è ancora attivo e può essere sottoscritto on line alla pagina http://bit.ly/d8q0VG.

(http://www.altracitta.org/2010/11/03/firenze-in-1500-chiedono-giustizia-ed-equita-per-chi-manifesto-contro-la-guerra-nel-1999/)

giovedì 3 settembre 2009

Il successo afghano e la patria italiana

Riflessioni di tarda estate... in esclusiva per il blog.

Il successo afghano e la patria italiana

Vogliamo provare, e non per gioco, a metter insieme due pagine della Stampa del 21 agosto: intendo le prime, che riportano i tanti commenti positivi, e spesso entusiasti, sullo svolgimento delle elezioni in Afganistan, dove anche con il contributo delle truppe italiane sotto le bandiere della Nato e agli ordini degli Usa, sembra che sia fallito lo sforzo dei talebani di spaventare gli elettori facendo mancare il quorum perché la consultazione possa considerasi valida; e poi la pagina con l’articolo di Guido Ceronetti sul suo provare una sorta di dolore d’Italia, paese a cui sente di appartenere ma con tante riserve che concernono il significato stesso della parola “patria italiana”. Chi e che cosa è l’Italia che è la nostra patria? E giù l’elenco (da Pagine gialle, dice Ceronetti), di tutti quei poteri, ognuno parziale ma sicuramente determinante, che compongono oggi quel che chiamiamo Italia… Ebbene: davanti all’entusiasmo per la riuscita delle elezioni afghane molti di noi provano sentimenti molto simili a quelli di Ceronetti nei confronti della patria italiana. Qui all’Italia si affianca il “mondo libero” di cui, per esser contenti della “vittoria” afghana, dovremmo sentirci cittadini. Siamo italiani, siamo (e l’elenco di Ceronetti lo dice eloquentemente) cittadini di quell’Occidente che cerca di instaurare la democrazia in paesi come Afghanistan, Iraq, e dintorni… Ma l’entusiasmo per il “successo” (lo chiama così Karzai, e anche Berlusconi) di Kabul è in noi così tiepido da sembrare assolutamente nullo. I nostri concittadini e governanti che ci vorrebbero impegnati a ogni costo nella guerra al terrorismo (secondo Frattini noi combattiamo in Afghanistan anche per difenderci QUI dal terrorismo islamico) giudicano la nostra tiepidezza come disfattismo, mancanza di coraggio, insufficiente patriottismo… Ma peccavano di questa tiepidezza anche gli articoli di Barbara Spinelli usciti sulla Stampa nei giorni scorsi, che sono un riferimento indispensabile per il confronto che proponiamo.

Insomma se cerchiamo di riflettere (auto)criticamente sulla reazione spontanea che ci suscitano le notizie sul “successo” delle elezioni afgane, lo stato d’animo che riconosciamo in noi è lo stesso descritto da Ceronetti; e motivato dalle riflessioni che, anche citando un “irregolare” come Slavoj Zizek, Barbara Spinelli ha formulato nei suoi due articoli recenti. Dovremmo sentirci colpevoli di mancanza di occidentalismo? Ma la democrazia che si dice di voler far nascere in Afghanistan non è quella in cui crediamo sempre meno qui da noi, che agonizza (siamo ottimisti) tra corruzione amministrativa, criminalità organizzata, incapacità di far valere anche i minimi requisiti della Costituzione (penso soprattutto alla funzione rieducativa della giustizia penale )? Certo, se le elezioni afghane sono state possibili senza troppi morti (ma quanto sarebbe il numero “normale”?) non possiamo che rallegrarcene. Ma solo perché finora si è evitato il peggio; e cioè perché può continuare quel male – la guerra, l’occupazione, la corruzione, il narcotraffico protetto anche dai “liberatori” – a cui ci siamo ormai troppo abituati.

Vorremmo trovare sui giornali più espressioni di questa consapevolezza che non le tante affermazioni entusiastiche che abbiamo letto in questi giorni. Papi, “papi” (nel senso minuscolo), presidenti, autorità varie, ci richiamano sempre più spesso all’impegno anzitutto morale per evitare lo sfascio della nostra società. Tra i primi imperativi morali c’è sicuramente quello del non mentire. Ma non è menzogna ufficialmente consacrata quella che si esprime da ultimo nei commenti alle elezioni afghane? Per fortuna sta venendo meno anche nel linguaggio ufficiale, sempre il più resistente alle esigenze di sincerità, l’idea della “missione di pace” in cui saremmo impegnati in Afghanistan. E’ una guerra, ormai lo dobbiamo riconoscere. Può darsi che nello spirito patriottico che Ceronetti rimpiange giustamente di non poter provare sia compresa anche la “carità di patria” – quella che tante volte ci è stata richiesta per coprire le troppe magagne in mezzo alle quali cerchiamo di sopravvivere. Ma non avrà ragione il Papa quando ci ammonisce che senza la verità la carità non può esserci? E se non per carità, almeno solo per favore, smettetela di somministrarci tutte queste bugie.

Gianni Vattimo