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sabato 11 dicembre 2010

Fini-ta


Un mio post sul sito dell'Italia dei Valori, 7 dicembre 2010

Fini alla Camera vota la riforma dell’università – “la migliore delle riforme della legislatura”, ha osservato – e la riforma passa. Naturalmente, ciò non impedisce a Fli di votare la sfiducia al governo, dopo un’estate rovente di attacchi indecenti allo stesso Fini, e di presentarsi quale nuovo campione della legalità, della sobrietà, della giustizia. Apprendiamo che Fli valuta l’astensione sulla riforma della giustizia. E anche ciò non impedirà di votare la sfiducia. Chi non la vota è fuori, tuona Granata. Immaginiamo le risate dall’estero: i corrispondenti non avranno, temiamo, la pazienza di ripercorrere tutti i distinguo, le posizioni sfumate, gli interessi taciuti che animano questa travagliata stagione del centrodestra.
Abbiamo tutti intravisto nell’agire di Fini, nei mesi passati, un’occasione propizia per denunciare gli intollerabili soprusi di un governo solo fintamente democratico. E forse alcuni di noi si sono persino illusi che Fini rappresentasse, seppure in discontinuità con il passato recente (ma meglio tardi che mai, come spiega sempre Travaglio), una ventata di ossigeno nello smog generale creato da B. Sono tanti i motivi per i quali Fini garantisce il suo sostegno alla riforma dell’università. Alcuni solo ipotetici: è probabile, ad esempio (mi stupirei del contrario), che l’ex leader dell’Msi non capisca quasi nulla in materia. E forse non ne capiscono nulla nemmeno i FLIniani che sono saliti sui tetti. È altrettanto probabile che Fini si senta in dovere di non contraddire Confindustria, accanita sostenitrice della riforma. È però pressoché impossibile che Fini possa dichiarare con sincerità che si tratta della migliore riforma della legislatura. Delle due l’una: Fini sa che si tratta dell’unica vera riforma finora approvata; l’argomento è tautologico. Oppure, Fini sa quali interessi sta difendendo nel promuovere la riforma (tutti tranne quello pubblico, per dirla brevemente; e tra quei tutti, i più beceri in particolare), e soffre di quello stesso sdoppiamento della personalità di cui ha dato prova con le sue recenti posizioni in materia di diritti civili e sociali, in netto contrasto con le due leggi alle quali ha apposto il suo nome (immigrazione, droga).
Siamo certi che, nel giro di poco tempo, Fini si accorgerà dell’assurdità della decisione presa. Questa volta, però, non potremo dirgli “meglio tardi che mai”. Anche perché una novità positiva di questi, recentissimi, tempi, è rappresentata dagli studenti che hanno occupato i principali monumenti italiani e dai ricercatori saliti sui tetti degli atenei. Gli studenti veri, quelli che non sono rimasti a casa a studiare; quelli che hanno capito che in una democrazia bloccata, occorre una certa misura di “sovversivismo democratico”; quelli che vedendosi bloccato il futuro, come hanno scritto alcuni di loro, hanno bloccato le città. Per una volta, l’Italia si è ringiovanita. Andiamo avanti, con un ambiguo “alleato” in meno e un forte esempio da coltivare e imitare.

Gianni Vattimo
http://italiadeivalori.antoniodipietro.com/articoli/politica/finita.php

mercoledì 3 novembre 2010

Che B. ci aiuti (a farlo cadere)

Post sul sito de Il Fatto Quotidiano, 3 novembre 2010

Che B. ci aiuti (a farlo cadere)

Ballarò di ieri sera, litania: bisogna giudicare B. non per la sua vita privata ma per quello che fa al governo. Accettiamo il consequenzialismo, e spingiamolo fino in fondo. Quali le ripercussioni dell’agire di B.? Primo, la stampa estera è scandalizzata. “Unfit to lead Italy”, diceva un tempo l’Economist. Ma ora ci ridono dietro, nel migliore dei casi. E reputano l’Italia un paese ormai perduto. Secondo, il presidente della Camera è scandalizzato. Bocchino sembra uno del Pd, tanto che verrebbe da dar ragione a Lupi: dov’era Fli quando B. proponeva unicamente leggi ad personam come azione di governo? In ogni caso, la fiducia che Fini ripone nel governo sembra ormai esaurita. Terzo, Mubarak (almeno immaginiamo) è imbarazzato. Quarto, i gay sono imbestialiti. Quinto, qualsiasi escort in Italia, oggi, può tranquillamente asserire di essere stata con B. anche se non è vero: tanto un’eventuale difesa di B. appare meno credibile delle più mirabolanti dichiarazioni che le tante Ruby potrebbero fare, anche mentendo.

Un politico dovrebbe non solo saper governare bene, ma anche – e solo, talvolta – saper governare. In queste condizioni, anche senza considerare l’aspetto etico della vicenda, B. non è in grado di governare. Sa solo chiamare in causa il Fondo Monetario Internazionale, non per dire che è stato obbligato a una manovra restrittiva, ma per vantarsi del sostegno ricevuto da un’istituzione che la sua credibilità l’ha persa per ben due volte, con le crisi finanziarie degli anni Novanta e con l’assurda ostinazione su quelle “riforme strutturali” (flessibilità del lavoro, riforma delle pensioni, ecc.) che oggi impediscono all’Occidente di attuare politiche di rilancio. Berlusconi è come il Fondo, senza credibilità. Con l’attacco ai gay, l’ha persa del tutto. Quando ci si difende spiegando che è “meglio essere appassionato di belle ragazze che gay”, si dichiara con orgoglio di non voler essere il presidente che rappresenta tutti gli Italiani, si crea un nemico tra i cittadini stessi (non più i terroristi, dunque, né gli immigrati, clandestini o meno). Naturalmente, lo si fa per ottenere il consenso degli altri, come in ogni dittatura che (non) si rispetti. Magari gridando di essere il partito dell’amore, fondato sui tanti cittadini “che cercano una causa fondata sull’amore, sulla giustizia e sulla libertà. Una causa che, con la forza invincibile degli ideali più nobili, trionfi sulla violenza, gli estremismi e l’odio” – ma non ci si inganni: queste parole non sono di B., sono di Jorge Rafael Videla, il dittatore argentino a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta (“I mondiali della vergogna”, di Pablo Llonto, sono piuttosto istruttivi al riguardo).

La cacciata di B. è un’occasione propizia per ridare credibilità al paese. Gli unici esempi di credibilità arrivano oggi da quei settori che, con il loro, difendono un interesse che non può che coincidere con quello generale – i disoccupati, i precari della ricerca, i magistrati, ecc. –, perché ne va della loro libertà, e dunque della libertà di tutti. Si faccia uno sforzo di chiarezza, tutti, per una volta: basta con la retorica del “parliamo dei problemi veri del paese”, se non si riesce a parlarne è anche, e soprattutto, per colpa del macigno-B. Se ne liberi Fini, se ne liberi il povero Lupi, se ne liberi l’Italia, se ne liberi persino la Chiesa, dalla quale sarebbe doveroso attendersi una presa di posizione forte: se per Famiglia Cristiana il B. di Ruby è “indifendibile” e “malato”, lo è a maggior ragione il B. che divide il paese che governa tra gay e non. La fine di B., se mai arriverà, non sarà solo un sollievo, ma un’occasione di rinascita. Che B. ci aiuti (a farlo cadere).

Gianni Vattimo
http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/11/03/che-b-ci-aiuti-a-farlo-cadere/74964/

lunedì 13 settembre 2010

Mirabello e il punto di non ritorno

Post sul mio blog nel sito de Il Fatto Quotidiano

Mirabello e il punto di non ritorno

Chissà che davvero il discorso di Fini a Mirabello non abbia segnato un punto di non ritorno nella politica italiana. Bersani ha preso coraggio, e Berlusconi sembra averne perso. La festa di Atreju ci ha consegnato un B. un po’ meno uguale a se stesso; un B. che sembra rincorrere, senza sosta, qualcosa di cui non dispone. Fini si è letteralmente preso la scena politica, e B. vorrebbe strappargliela. Ma non ci riesce, il suo discorso è dimesso. Appare vecchio, e lo dice apertamente, più volte, per fingere di non crederci. Ma ci crede, e lo dimostra quel colletto troppo alto, troppo slanciato, troppo “giovane”. Come sempre, padroneggia con maestria l’autoironia; ma questa volta è ossessiva, troppo accentuata. Come in tutti i suoi discorsi, si autocelebra, senza limiti. A colpire, però, non è tanto il B. che plaude se stesso in quanto leader del governo del fare, ma quello che riprende in mano la sua “opera”, quel libretto scritto ai tempi del suo ingresso in politica, “L’Italia che ho in mente”.

Riferisce, per continuare con il connubio autoironia-autocelebrazione, che a lasciargli il libro sul comodino siano stati i suoi segretari. Ne legge una pagina e mezza: non per magnificare la visione presuntamente liberale del suo sogno politico, come avrebbe dovuto fare per rispondere alle parole di Fini, e come avrebbe voluto fare, poiché l’uomo è ambizioso; ma per ricordare ai giovani presenti il male insito nel comunismo e nell’abolizione della proprietà privata. La telecamera, impietosa, ce lo mostra mentre segue col dito le parole lette per non perdere il segno. Volutamente anti-storico, ricorda che nel ’93, in Italia, vigeva un regime comunista. Eppure, poco dopo, spiega la pagliacciata di Gheddafi con le ragioni storiche del colonialismo. Chiede ai giovani di non leggere i giornali, ma il succo del discorso thatcheriano, in contraddizione con le proclamate intenzioni, è che non bisogna leggerli non perché dicano falsità, ma perché parlano male del governo. Il rapporto con le donne: ci aveva abituati troppo male. Comincia assecondando le nostre aspettative, ma conclude ricordando che le mille donne pronte a sposarlo sanno che all’opulento B. restano pochi anni.

Ha un sussulto quando racconta la barzelletta su Hitler. Anche qui, però: la introduce assurdamente, spiegando che bisogna diffidare delle persone che, come i leader della sinistra, non sanno ridere. Ma la barzelletta non fa poi così ridere. È piuttosto amara, e al di là del cattivo gusto (tanto più quando a raccontarla è un primo ministro), tradisce forse lo stato d’animo del barzellettiere. B. parla di sé, s’immagina che i fedelissimi, tra qualche anno, vogliano spolverarlo e riportarlo alla guida del paese. Una sola condizione, questa volta cattivi. Ed è proprio qui il problema: un uomo cui è stato concesso tutto vuole di più. Ha umiliato la repubblica, si è fatto forte con gli ignoranti e i menefreghisti; vuole salvarsi dai processi, certo, ma l’immagine di uomo della provvidenza gli piace. E non si capacita del mancato sostegno degli elettori, né del cattivo giudizio storico che Fini, l’“esule in patria” che B. stesso ha sollevato dall’obbligo di mostrare il passaporto, ha ormai consegnato alla prossima generazione. Sa ormai benissimo che gli elettori che tutti, e B. in particolare, si preoccupano di non “tradire” non esistono, visto che in gran parte, quegli elettori – quelli di B., ma che anche quelli di Casini, e lo stesso si può dire per molti del PD – non votano per appartenenza, né si lasciano plasmare dai leader; gli elettori traditi sono semmai quelli che non votano più. Al tramonto, B. non ci pensava, non ci ha mai pensato. Forse, oggi, l’ha fatto per la prima volta.
Gianni Vattimo

martedì 7 settembre 2010

Il tradimento di Fini

Postato sul mio blog per il Fatto Quotidiano.
Casini, perché attaccare Berlusconi solo dopo averlo abbandonato? La domanda di Mentana sullo speciale de La7 al termine del discorso di Mirabello è legittima e illuminante. L’imbarazzo di Casini – “Ci siamo sbagliati”, ha spiegato,”pensavamo che alla lunga il suo agire si sarebbe normalizzato”: ricorda qualcosa? - e il mea culpa di Fini sulla legge elettorale? - “Ho contribuito anch’io alla porcata”, ammetteva – tradiscono l’opportunismo dei due, tanto che Di Pietro può dire a Fini di “non fare il furbo”. D’altronde, a detronizzare i leader di regimi autoritari ci pensano solitamente, in mancanza o prima delle rivoluzioni, gli ex alleati; che però difficilmente sanno fornire spiegazioni convincenti, a posteriori, del perché si siano accorti così tardivamente degli errori compiuti. E lo stesso Fini, che pure ringrazia B. per aver sdoganato l’Msi trasformatosi in An, ha ricordato un solo motivo che possa spiegare l’abbraccio mortale con colui che oggi lo espelle dal partito: fermare, nel ’94, la “gioiosa macchina da guerra” di Occhetto. Certo, sulla macchina non c’era il centro guidato da Martinazzoli, che però avrebbe dato vita all’Ulivo di lì a due anni; ma davvero il pericolo (quale, poi?) della gioiosa macchina da guerra giustifica il regime di B.?
Difficile che un partito come quello di Casini, abituato a votare in base alla convenienza politica, possa ricordare di essere stato parte di un progetto politico-ideale, e per questo scusiamo l’incapacità di fornire una risposta sensata al perché della tragica alleanza. Ma lo stesso Fini non ha voluto ricordare alcun risultato positivo del suo (ex) governo, e si è limitato a dire che l’esecutivo si è comportato bene (?) in merito alla crisi economica per poi sparare a zero, come notava giustamente Travaglio, sull’essenza dei principali provvedimenti presi dai ministri di B. – in primis la sciagurata riforma di scuola e università che di certo non fa nulla per risolvere il male che Fini sente al cuore per quel giovane disoccupato ogni quattro. Un governo senza politica industriale, che ha tradito il suo orientamento liberale, e ha promosso politiche insensate, come spiega lo stesso Fini (federalismo, riforma della giustizia, ecc.), e che anzi ha di fatto favorito il sorgere di cricche e illegalità di ogni tipo. Fini non può certo ricordare con merito, alla luce delle sue posizioni attuali, la legge Bossi-Fini sull’immigrazione e quella Fini-Giovanardi sulla droga. Ma allora cosa?
Nulla. Resta solo la distruzione della macchina da guerra, l’unico risultato dell’impegno politico di B. che resterà negli annali. Vent’anni bruciati, oltre ai danni irreparabili subiti dalla democrazia. Un paese mancato, come direbbe Guido Crainz. E a subirne le conseguenze sono proprio i giovani che preoccupano il cuore di Fini. Lo sguardo di Bersani era giustamente sconsolato, ieri sera. Ora però anche Bersani sa che il governo non sa giustificare il suo operato, e che fare peggio è impossibile. L’occasione è irripetibile: il vuoto da riempire è fortunatamente enorme. Se solo il Pd dedicasse un po’ del tempo che ha perso per difendere i diritti di Schifani (ma l’opinione pubblica non ha il diritto d’interrogare la seconda carica dello stato sulle accuse che gli sono state rivolte?) a costruire un programma e un’alleanza, la gioiosa macchina, non da guerra ma da governo, potrebbe finalmente vincere la sua corsa.
Gianni Vattimo

giovedì 26 agosto 2010

La nostra passione vincerà sui loro interessi

Il mio post sul sito dell'Italia dei Valori.

Crisi di governo: che fare? Semplice, approfittarne. Il compito storico che attende l'opposizione è riempire lo spazio politico creato dal “governo del non fare nulla” e denunciato dalla scissione finiana; un'opportunità, oltre che un dovere, che le tante voci sicure dell'impossibilità di battere il Pdl in eventuali elezioni ravvicinate trascurano di considerare. Certo, a ciò contribuiscono le indecisioni del Pd, che tuttavia aprono, proprio come la crisi di governo e in particolare le ragioni che la sostengono, una prospettiva allettante per l'Italia dei Valori: in un'epoca di interessi senza passioni, per recuperare il lessico di Albert Hirschman, è la passione non interessata che può imprimere una svolta politica. La passione per la legalità che contraddistingue i tanti elettori dell'Idv è di natura intrinsecamente sociale anziché individualistica, nonché rivoluzionaria, non appena si riconosca, in questo slancio, la più concreta volontà di portare a compimento la costituzione: un documento di portata appunto rivoluzionaria, come riconosceva in tempi non sospetti (una costituzione rivoluzionaria di per sé, e non esclusivamente in rapporto allo scempio attuato dall'attuale governo) Piero Calamandrei.
Se la scelta di Fini cade su un'opzione exit, per dirla ancora con Hirschman – una via d'uscita dal degrado politico governativo –, la risposta dell'opposizione dev'essere di tipo voice – la via del cambiamento per tramite della politica – che necessariamente presuppone, quale suo requisito essenziale, quella legalità che, sola, può condurre i cittadini a essere i principali attori del cambiamento stesso. Il passo successivo, quello della loyalty nello schema hirschmaniano, è quello dell'alleanza, e della costruzione di un'alternativa forte al governo degli interessi berlusconiano. L'Idv ha molto da offrire, a tal riguardo: un'avanguardia, per così dire, che puntando sulla legalità ha creato un importante precedente per pensare a una società di passioni oltre che di interessi. Da qui, e solo da qui, si può partire per affrontare le tante ingiustizie che nell'illegalità trovano un alleato imbattibile; e da qui si dovrà partire per costruire un programma che recuperi la migliore qualità politica della sinistra e del cristianesimo sociale: la capacità d'immaginare una società diversa da quella esistente. L'Italia dei Valori è pronta.