Deboli e forti: cari filosofi, non idolatrate la scienza
Il dubbio è essenziale per la conoscenza
Nicla Vassallo - Il Fatto Quotidiano, 9 settembre 2011
Il cosiddetto “new realism” in filosofia si trasforma in una qualche
coniazione nazionale con nuove appendici (si veda, per esempio, l’amico
Maurizio Ferraris, ma non solo), mentre, almeno nella terminologia, non
lo è: basti ricordare il volume The new realism: cooperative studies in
philosophy, Macmillan, uscito nel lontano 1912. Il gergo “pensiero
debole” di Pier Aldo Rovatti e Gianni Vattimo, col conseguente
“pensiero forte”, permane, invece, molto italiano: non si discetta
internazionalmente, a largo spettro, di “weak thought” e “strong
thought”. Le tre espressioni hanno, in ogni caso, rivissuto momenti di
gloria, grazie a un dibattito, su più di una testata giornalistica, di
bravi filosofi professionisti e dilettanti che si piccano di
filosofare. A padroneggiare si è rivelata, tutto sommato, la pomposità
con cui si sfoggiano vocaboli: “fatti”, “verità”, “interpretazioni”,
“oggettività”, “nichilismo”, “post–moderno”, “senso comune”, “valori”,
e via dicendo; parimenti, si è ricorsi alla scienza, non sempre a
proposito.
Il costante appellarsi alla scienza, con tanto di fautori e detrattori
al seguito, rimane l’effettivo problema di un’invadente ignoranza che
consente di sposare (per esempio) la neuro–filosofia, senza saper quasi
nulla di cervello, forse pure di filosofia. Regredendo fino uno
scientismo, che auspicavamo superato da tempo: come si riesce, tuttora,
a pensare che le tante nostre esplorazioni e incursioni debbano
praticarsi solo col metodo scientifico, pena l’insensatezza? Eppure lo
si pensa e lo si propaganda, tradendo tutta quella salubre filosofia
della scienza che sul metodo riflette, con una Susan Haack, tra
l’altro, che lo considera un mito proprio dello stesso scientismo.
Tentiamo di sostenere la scienza, e finanziare la ricerca, invece di
decimarla, senza concessioni intellettuali a scientismo e cinismo,
consapevoli dell’implausibilità di un unico metodo scientifico per ogni
scienza. Idolatrarla significa invece banalizzarla, oppure travisarla,
misconoscendo il suo intrinseco fallibilismo, caratteristica comune a
tutte le imprese conoscitive.
Banalità e travisamenti appartengono alla cattiva divulgazione che
spaccia teorie scientifiche (pure pseudo–scientifiche, con
pseudo–scienziati che fanno di tutto e di più; lo stesso vale a
proposito dei pseudo–filosofi) per verità incontrovertibili dalle
giustificazioni certe. Torniamo, piuttosto, a parlare sul serio di
fatti e valori, oltre che di analogie, metafore, metodi, incertezze,
progressi, scoperte, soluzioni di problemi, nel tentativo di
comprendere le scienze. Già, perché non si dà un’unica scienza. E in
filosofia appelliamoci a queste scienze, con cognizione di causa, cosa
che s’impone, del resto, nel trattare di realismo ingenuo e
scientifico. Impieghiamo metafisica e teoria della conoscenza, da
sempre discipline principe, per chiarire le questioni normative e
valoriali, sollevate anche dalle scienze, che ci premono, in quanto
esseri umani, la cui natura consiste, stando ad Aristotele,
nell’aspirare alla conoscenza. Saggiamolo noi stessi con un
“esperimento mentale” (a cui le stesse scienze ricorrono; non esistono
solo quelli empirici): immaginiamo di perdere ogni conoscenza e
domandiamoci, ammesso che vi riusciamo ancora, cosa ci rimane, se non
la nostra integra brutalità di dantesca memoria. E subito dopo
dubitiamo, ovvero applichiamo un sobrio scetticismo, a noi nonché alle
scienze. Il dubbio risulta indispensabile per la conoscenza e la
democrazia, insieme all’autorevolezza – a ognuno il proprio lavoro, con
coscienza, senza la superbia autoritarista di riferire ciò di cui si è
inesperti. Cosicché la filologia, non altro, è consigliabile alla
francezizzante presunzione di chi aderisce allo slogan di Jacques
Derrida “il n’y a pas de hors–texte”, sempre che si disponga delle
competenze.
Pensiero debole o forte, infine, con andirivieni vari e
contrapposizioni a iosa? Mah, senza confondere il primo con
l’ermeneutica, meglio realizzare che, a dispetto di Richard Rorty, non
è mai morta la filosofia incentrata sulla teoria della conoscenza, né è
mai nata quella incentrata sull’ermeneutica: le critiche rortiane alla
teoria della conoscenza non reggono, mentre gli esseri umani non
possono concedersi di rinunciare a conoscere, e, al fine di stabilire
se davvero conoscono, occorre stabilire che cos’è la conoscenza.
Dopodiché s’indagheranno i rapporti tra conoscenza da una parte e
interpretazioni e schemi concettuali dall’altra, nonché si vaglierà
quanto una delle fonti conoscitive, l’osservazione, osservazione
scientifica inclusa, risulti “theory–laden”.
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