lunedì 5 settembre 2011

Un altro bilancio sul postmoderno


Goodbye postmoderno
La sua fine su “Prospect”
Corrado Ocone - Il riformista, 30 agosto 2011

Jean François Lyotard
Il postmodernismo è morto. Con questo titolo icastico il prestigioso mensile britannico “Prospect”, nel numero di agosto, presenta un lungo articolo dedicato ad una fase storica della cultura, della società e della politica che giudica ormai definitivamente finita. Essa abbraccia gli ultimi trenta o quarant’anni ed è caratterizzata da alcune idee guida, modi di pensare, icone e mitologie facilmente identificabili. L’occasione dell’articolo è data dall’inaugurazione, il 24 settembre prossimo, al Victoria and Albert Museum di Londra, della “prima retrospettiva complessiva sul fenomeno”: Postmodernism. Style and subversion. La mostra, secondo lo scrittore Edward Docx, autore dell’articolo, storicizzando il fenomeno lo mostrerebbe nella sua compiutezza e, alla fine, nella sua distanza dai nuovi problemi che ci assillano e dalle nuove modalità di senso con cui ci rapportiamo ad essi.
Ma cosa è  stato propriamente il postmoderno? Da un punto di vista filosofico, possiamo dire che si è  trattato di una reazione alla fine di quelle “grandi narrazioni” che secondo Lyotard, autore nel 1979 del fortunato pamphlet su La condizione postmoderna avrebbero caratterizzato la modernità (in pratica, tutte le grandi ideologie, dal marxismo al progressismo borghese, dal liberalismo classico al cristianesimo politico). In verità, si è  trattato di una imponente operazione di messa in scacco dei classici concetti di verità e realtà su cui si è  costruito il pensiero occidentale. Ciò è avvenuto mediante un processo di “decostruzione”, una parola chiave del lessico postmoderno (al centro del pensiero di un filosofo solo parzialmente assimilabile alla temperie quale Derrida): grazie cioè alla messa in luce degli elementi “impuri” che sono alla base dei concetti giudicati “alti” o “nobili” dalla nostra tradizione (Nietzsche, sicuramente un progenitore di questo modo di pensare, aveva parlato di “genealogia della morale”). Si è  perciò parlato addirittura della “violenza” del concetto di verità, dei meccanismi di potere che ne sarebbero alla base e che avrebbero dato una giustificazione morale, ad esempio, alla nostra arroganza verso i popoli non occidentali. Da questo punto di vista la stessa realtà è  un meccanismo di dominio con la cui falsa cogenza si sono tarpate le ali alla fantasia, alla creatività, alla capacità di ricrearci il mondo secondo i nostri desideri (per i postmodernisti, l’uomo è  soprattutto un essere desiderante). La strategia di risposta postmodernista è stata la spettacolarizzazione o virtualizzazione del reale, e quindi l’indistinzione sempre piu marcata fra il vero e il falso, fra l’essere e l’apparire (un processo favorito in qualche modo dall’avanzare di Internet o da spettacoli televisivi tipo “Il grande fratello”, tipicamente postmoderni); la fine delle sintesi unitarie e una spiccata propensione alla frammentazione sia nella costruzione del sapere sia delle identità personali (le quali possono essere continuamente cambiate quasi fossero degli abiti); la fine di ogni gerarchizzazione, anche e soprattutto nell’ambito culturale, ove la pop culture, mettiamo Madonna, un’altra icona postmoderna, ha la stessa dignità di Dante o Shakespeare. Strategia tipicamente postmoderna è stata poi l’ironia, teorizzata dal filosofo americano Rorty: una sorta di presa in giro dei valori attraverso il sarcarsmo, ma sostanzialmente un comportamento di vita deresponsabilizzante che non prende sul serio niente e nessuno.
Milton Friedman
Ma il postmoderno è  veramente alle nostre spalle? E quali sono i segni del suo trapasso? C’è  veramente in giro una nuova voglia di fare sul serio, di “pesantezza”? Qui il discorso, probailmente, si fa politico. L’articolo di “Prospect” non lo dice, ma gli anni del postmoderno hanno coinciso con l’affermazione di una ideologia non solo onnipervasiva, ma anche subdola perchè  si è  presentata come il suo contrario, come la risposta alla fine di ogni ideologia o “narrazione” più o meno grande. In sostanza, la politica, seguendo i dettami di questa ideologia, ha abdicato ai propri compiti e ha decretato la supremazia dei mercati, nel frattempo sempre più globali. Non solo non si sono costruiti solidi organismi di governance politica democratica globale, ma gli stessi stati nazionali sono stati visti, almeno fino alla grande crisi del 2008, per dirla con Reagan, come il problema e non come una soluzione. Il Mercato come divinità spontaneamente autoregolantesi è diventato il nuovo Dio, un feticcio  indiscutibile a cui prostrarsi acriticamente. Questa ideologia, ormai nota come neoliberalismo (per distinguerla dal liberalismo classico di un Tocqueville o di un Mill, sempre attento alla “parità delle condizioni di partenza” e alle “eguali libertà”), ma che a ragione può essere considerata una sorta di darwinismo sociale, si è  sviluppata proprio negli anni Settanta del secolo scorso dapprima in alcune università e centri di ricerca americani (si pensi alla “Scuola di Chicago” e ad economisti fortemente liberisti e antikeynesiani come Friedman) e poi a livello politico con la Thatcher e la deregulation reaganiana. Come mostra un breve ma efficace libro uscito recentemente presso la Oxford,  Neoliberalism di Steger e Roy, la stessa “terza via” di Blair o la politica di Clinton non hanno in sostanza sconfessato i suoi assunti di base. E Obama, che ha tentato di farlo, ha potuto realizzare gli obiettivi che si era proposto in maniera a dir poco molto parziale. 
Visto da questo angolo prospettico, il postmodernismo culturale sembrerebbe avallare la vecchia tesi marxiana della ideologia come sovrastruttura. Quale più funzionale alleato del mercatismo aggressivo di un pensiero in disarmo che predica la fine della verità e della realtà, e in sostanza dello spirito critico?

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