Né deboli né positivisti
Left-Avvenimenti, 22 settembre 2011
di Simona Maggiorelli
Non si può dire addio alla verità. Ma nemmeno
rinunciare all’interpretazione. Nella querelle fra New Realism e Postmoderno
che ha animato l’estate interviene il filosofo Salvatore Veca indicando una
terza strada possibile.
Salvatore Veca |
“Non si può dire addio alla verità. Non si può
abdicare all’impegno nella ricerca della verità in filosofia. Pur sapendo che
questa ricerca non ha sempre un happy end. Si procede per prove e errori.
Esattamente come nella scienza». Da sempre critico verso il cosiddetto
Postmoderno il filosofo Salvatore Veca interviene così, con una forte presa di
posizione a favore dell’«irriducibilità dei fatti» e del valore irrinunciabile
della conoscenza nella querelle fra Pensiero debole e Nuovo realismo che, dopo
aver animato per settimane i giornali, nel fine settimana è andato in
piazza al Festivalfilosofia di Modena, Carpi e Sassuolo dove Maurizio Ferraris
ha tenuto il 17 settembre una lectio magistralis sul New Realism (vedi
left n.35), ma anche nel Castello dei conti Guidi a Poppi (AR) dove,
nell’ambito di una tre giorni di seminari, domenica 18 settembre Veca ha tenuto
una conferenza su un tema cruciale come la giustizia. Che qualsiasi addio alla
verità renderebbe impraticabile.
Professor Veca, nel libro L’idea di incompletezza di recente uscito per Feltrinelli lei dedica ampio
spazio al tema dell’interpretazione. Come è noto i pensatori deboli eleggono a
slogan la frase di Nietzsche: “Non ci sono fatti ma solo interpretazioni”. Qual
è la sua posizione?
Dagli anni Settanta, Vattimo in Italia, Lyotard in
Francia e Rorty negli Usa, a partire da quel motto di Nietzsche, hanno detto
che non possiamo ancorare i nostri discorsi, privati e pubblici, alla ricerca
scientifica. Sostenendo che il pensiero non può mai trovare un fondamento saldo
e roccioso ma solo un vortice di possibilità. Il contesto era quello del
collasso delle ideologie e della crisi delle grandi narrazioni degli ultimi
vent’anni del Novecento in Occidente. E loro pensavano che abbandonare l’idea
di una oggettività dei fatti avesse un effetto emancipatorio. Ma di fronte a un
acquazzone, dire che piove è un’affermazione vera; è un fatto inemendabile come
direbbe il mio amico Ferraris. Nel libro che lei ricorda cerco di connettere la
posizione di Nietzsche alla tesi scettica: come fai a sapere che è così? Come
fai a dimostrare la veridicità delle tue asserzioni? La mia idea è di prendere
sul serio le ragioni degli ermeneutici, degli interpretazionisti, ma con una
obiezione. D’accordo dire che qualsiasi fatto può essere interpretato. Ma non
tutti i fatti congiuntamente possono essere sottoposti a interpretazione.
Qualcosa deve star fermo perché altro si possa muovere. Qualcosa deve essere
tenuto fuori dal dubbio perché si possa dubitare di qualcosa. Qualunque
credenza può essere messa in discussione, è una vecchia idea illuministica.
Però non posso criticare tutto allo stesso tempo. Dunque, diversamente dai
“debolisti” io penso che una verità sia tale fino a prova contraria, Questo non
elide lo spazio d’interpretazione. Un esempio: pensiamo al 14 luglio del 1789,
che chiamiamo presa della Bastiglia. In realtà solo il 2 agosto si arrivò a
all’interpretazione chiara che si era trattato di un gesto per la libertà
contro il dispotismo. Ogni volta che noi ci rivolgiamo alla reinterpretazione
del passato non facciamo altro che rendere insaturi i fatti, riapriamo il gioco
delle interpretazioni.
Estremizzando il pensiero di Nietzsche si arriva al
nichilismo. D’altro canto il New Realism rischia il neopositivismo, L’essere
umano non è fatto solo di razionalità. Cosa ne pensa?
Senza dubbio. Sono più che d’accordo. Tanto
che negli anni ho cercato di riflettere su una terza strada diversa dalle due
menzionate. Faccio un esempio concreto. Non possiamo trascurare che mentre per
noi è possibile studiare e classificare le proteine, quando cerchiamo di capire
qualcosa di più delle rivolte arabe, abbiamo a che fare con strani tipi di
oggetti che tendono a autodefinirsi. Lo stesso vale per i riots a Londra. In
questo caso cosa vuol dire interpretare? Possiamo attribuire volontà
collettive? In Medioriente prevalgono i jihaidisti? O i giovani twitters?. Non
nego i fatti, ma resta aperto l’onere intellettuale dell’interpretazione. E se
si irrigidisce, se si ipostatizza la si può sempre fluidificare. Ecco il punto.
In una conferenza al Festival della mente ha
parlato di immaginazione filosofica. Un concetto quasi ossimorico vista la
nascita del Logos come pensiero razionale…
L’immaginazione, per me, è un cardine. Non so
neanche pensare che si possa fare ricerca filosofica senza che il primo passo
non coincida con la capacità di “vedere” le cose, di immaginare un mondo, una
questione, un problema. Il nostro lavoro è fatto da una continua tensione fra
la ricerca di nessi, connessioni, fra idee e quella che io chiamo coltivazione
di memorie: cioè lasciare che riemerga l’eco della tradizione, così pasticciata
e meticcia e veramente creola quale è quella alle nostre spalle. Poi certo
esistono metodi con cui si cerca di “acchiappare” ciò che si è intravisto. Mi
sembra di vedere in una certa area qualcosa che mi attrae e cerco di andarci.
Naturalmente per andarci servono dei metodi che siano giustificabili e non
dipendenti dalle mie idiosincrasie. Per dirlo in una battuta, la visione
filosofica è cieca se non c’è l’analisi, ma l’analisi è vuota se non viene
messa in moto dall’immaginazione filosofica.
Un altro filone della sua ricerca riguarda l’eros,
criticando la trattazione platonica, ma anche quella cristiana.
Cartesio |
Ho ripreso questo tema di ricerca per il festival
di Sarzana, ma il lavoro più completo che gli ho dedicato è in un libro di
qualche anno fa, L’offerta filosofica. Mi interessava provare a mettere alla
prova il motore della ricerca, provare a vedere sotto il profilo filosofico la
passione, come accade che ci innamoriamo di qualcuno. Intanto continuo un corpo
a corpo va con il Discorso sul metodo
di Cartesio, con quel suo tentativo di dire: metto sotto pressione tutte le
credenze e arriverò a una credenza che non posso mettere in questione. Cartesio
lo risolve con il problema di Dio. Ma io dico che anche quella credenza lì è
questionabile. Infine anche nell’intervento che ho preparato per Poppi continuo
su un filone a cui mi dedico da trent’anni: il problema della giustizia
sociale. Ce la facciamo a estendere concetti di giustizia a tutta l’umanità
presente sul globo? Qui uso il pensiero politico di Rawls come punto di
partenza.
Lei ha affrontato il tema della giustizia ora anche
in forma di epos moderno, molto intensa in Sarabanda?
Nasce, in realtà, come reading per il teatro
sociale fondato da Teresa Pomodoro a Milano… Sui miei libri filosofici posso
rispondere lucidamente, ma riguardo a questo esordio mi sento un po’ come
ragazzino. Lì c’è il precipitato dei miei ricordi, di ciò che ho provato di
fronte all’ingiustizia. Una cosa però la posso dire: sono molto legato al fatto
che il primo atto cominci con voce di donna.
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