lunedì 11 giugno 2012
Vattimo: la academia de filosofía itinerante
giovedì 1 settembre 2011
Ancòra sul postmoderno
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| Edmund Husserl |
venerdì 26 agosto 2011
Dibattito sul postmoderno
Nel ricordarvi di acquistare il numero di MicroMega in edicola (fino a lunedì, poi in libreria), segnalo qui la discussione aperta da MicroMega stessa sul suo sito, che raccoglie gli interventi apparsi in coda al dialogo pubblicato da Repubblica tra il sottoscritto e Maurizio Ferraris, L'addio al pensiero debole che divide i filosofi. Trascrivo qui, per i lettori di questo blog, gli articoli (in gran parte pubblicati da Repubblica in data odierna) in questione, firmati da Pierfranco Pellizzetti, Pier Aldo Rovatti, Paolo Flores d'Arcais, Paolo Legrenzi e Petar Bojanic. Un intervento di Giuliano Ferrara sugli stessi temi è uscito sul Foglio il 22 agosto ed è disponibile qui.di Raffaella De Santis
Il dibattito ferragostano tra Gianni Vattimo e Maurizio Ferraris, apparecchiato sulle pagine de La Repubblica il 19 agosto, potrebbe essere letto come una disputa interna alla famiglia accademica torinese, in cui il più giovane tra i due contendenti (Ferraris, già cucciolo della redazione che nel 1983 assiemò in volume la raccolta di saggi eponima del debolismo o, come lo chiama Carlo Augusto Viano, flebilismo) elabora ancora una volta il lutto dell'uccisione simbolica del padre accademico (appunto, Vattimo), tradito per i più up to date lidi del post-post-modernismo.
Chi scrive, d'istinto parteggerebbe per l'agonista under, certo più spiritoso dell'over e probabilmente – lui sì – ancora studioso, quando il suo antico maestro ormai campa di rendita; come risultò ancora una volta l'aprile scorso, nella performance vattimiana al Festival della Laicità di Reggio: la sua giustificazione dell'essere credente (in dio o Chavez?) era solo la deliberata volontà di prendersi gioco dell'uditorio o che altro?
Quale l'oggetto dell’attuale contendere? Presto detto (si fa per dire): se, in campo ontologico, dunque riguardo ai modi di esistenza della realtà, valga solo l'interpretazione oppure si mantenga un nocciolo duro di fattualità. Discussione che entra almeno nel suo secondo secolo di vita, come ricerca di una via altra tra idealismo e positivismo. D'altro canto lo snobismo torinese ama il remake. Anche filosofico. Operazione in cui uno come lo scrivente, che bazzica marciapiedi infinitamente sottostanti al ciel dei cieli del pensiero che riflette su se stesso, evita accuratamente di addentrarsi; lascia senza troppi rimpianti o frustrazioni a tipi come John Searle le questioni sul misterico del "come può esserci un insieme epistemicamente oggettivo di affermazioni relative a una realtà che è ontologicamente soggettiva" (Creare il mondo sociale, Cortina, Milano 2010 pag. 21).
Eppure anche il rozzo frequentatore del fatto sociale bruto intuisce che la filosofia sarà pure un genere letterario, quanto l’economia, la sociologia o la teologia; ciò nonostante l’assunto dell’ermeneutica quale teoria della verità-storicità, che interpreta il Moderno producendo favole e miti, incontra qualche difficoltà a non evaporare davanti all’obiezione di Flores d’Arcais: “una favola può smentire un’altra favola?” (Almanacco di filosofia, MicroMega 2011).
Difatti, dopo l’overdose decostruttiva, dopo tanto accatastare nuvole postmoderniste, dopo i tanti appelli narcisistici alla condizione del nomadismo senza scopo, in cui il bla-bla benaltristico finiva per produrre lische di pesce consistenti quanto il fumo di una papier mais da intellettuale di Rive Gauche, l'estensore di queste note aveva apprezzato il tentativo di ritrovare un ancoraggio di senso/significati.
Ben venga – dunque – chi dice che "senza ontologia non ci possono essere né epistemologia né etica, perché la realtà (l'ontologia) è il fondamento della verità (l'epistemologia) e la verità è il fondamento della Giustizia (l'etica)”. (M. Ferraris, Ricostruire la decostruzione, Bompiani, Milano 2010 pag. 89).
Possiamo spingere – però – la nostra ricostruzione post decostruzione fino al punto di rinunciare a quella fondamentale ermeneutica del sospetto che chiamiamo "critica"? Ferraris lo nega. Però, quanto è conseguente laddove contesta l'affermazione che la realtà viene ricostruita comunicativamente e presentata sotto forma di illusione, forgiata – appunto – dal Potere come arma al servizio della propria autoperpetuazione? Può negare la grande mistificazione come gioco degli specchi (deformanti) linguistici, in nome di una irriducibile verità della realtà, quando tale verità-realtà viene condivisa linguisticamente? Può farlo dopo "le armi di distruzione di massa irachene" o il "ghe pensi mì" berlusconiano?
Il mondo (per qualcuno) sarà pure una favola, ma (per tutti noi) è anche il campo di battaglia dove eserciti d’occupazione combattono per la conquista di una legittimità gabellata quale naturalità, corrispondenza all’ordine naturale delle cose. E questo, prima dei filosofi decostruttori e affabulatori, ce lo prospetta proprio un uomo di guerra; il generale dei generali David H. Petraeus: “quello che i decisori politici pensano sia accaduto è ciò che conta, più di quanto sia effettivamente accaduto”.
Difatti nella sua (molto blasé, dunque torinese) querelle con l'ex maestro Vattimo, l’allievo le spara davvero grosse: "se diciamo che la cosiddetta verità è un affare di potere, perché abbiamo fatto i filosofi invece che i maghi?".
Non so Ferraris, ma altri continuano a ragionare sospettosamente sulla realtà sociale, proprio perché su di essa sono al lavoro tanti spudorati maghi illusionisti. Magari – per dirla alla Pierre Bourdieu – per "rendere problematico quello che appare scontato" e mostrare come l'evidente sia sempre costruito, a partire da poste in palio e rapporti di forza. La Forza, un punto da cui ripartire nelle faccende umane dopo tanta indefinitezza debolistica. Non un'inesitente forza dei fatti "veri", quanto l'intrinseca cogenza del dominio e della sottomissione. In tutta la loro materialità.
Atteggiamento laico e critico, cui faceva appello una altro torinese (lui – però – ben poco snob; semmai severo come gli antichi maestri alla Gaetano Salvemini) – il buon Viano – quando bastonava in un libello einaudiano, dell'Einaudi del bel tempo che fu (Va' pensiero, 1985), la combriccola dei "flebili". Appunto, dal Vattimo al Ferraris.
(25 agosto 2011)
L’idolatria dei fatti
Il pensiero debole, nato 30 anni fa grazie a un reading curato da Gianni Vattimo e da me, ha avuto una imprevedibile diffusione internazionale. Certo, anche le sciocchezze possono andare in giro per il mondo e trovare ascolto. Non so se questo sia il caso, e comunque non mi affretterei a darlo per morto.
In autonomia dallo stesso Vattimo, con il quale tuttora condivido lo stile, la funzione e il senso di questo modo di pensare, e soprattutto la sua potenzialità emancipatoria, ci ho lavorato sopra da allora, puntando sui temi del gioco e del paradosso, senza di cui credo che si possa capire poco della difficile realtà in cui viviamo (e spesso ci dibattiamo).
L'amico Ferraris lavorava gomito a gomito con me e con Vattimo, poi ha ritenuto opportuno andare per la sua strada che oggi chiama "nuovo realismo". Ho letto con molta attenzione il suo dialogo con Vattimo e sono rimasto – come molti – alquanto perplesso. Vi ho trovato un'eccessiva semplificazione. Come accade quando si vuole tirare troppo la coperta dalla propria parte, si rischia di deformare un poco le cose.
Innanzi tutto, pensiero debole e postmodernità non possono essere sovrapposti. Forse la postmodernità ha fatto il suo tempo, mentre il pensiero debole era e rimane una maniera di leggere l'intera filosofia, mettendovi decisamente al centro la questione del potere. Nasceva infatti come uno strumento di lotta contro ogni violenza metafisica e di conseguenza sospettava di ogni fissazione oggettivistica della Verità (con la iniziale maiuscola). Non si presentava come un semplice discorso teorico, aveva una valenza esplicitamente "politica", e il carattere di una mossa etica che Vattimo chiamava pietas (cioè, sostanzialmente, un ascolto del diverso) e che per me era un contrasto tra pudore e prepotenza per guadagnare uno spazio di gioco nelle maglie strette dell'uso dominante della teoria.
Quando, oggi, si riduce tutto ciò a una querelle semplificata tra fatti e interpretazioni, si corre il pericolo di evacuare proprio questa sostanza etico-politica e di ridurre il pensiero debole a una specie di barzelletta. Non esistono fatti nudi e crudi che non abbiano a che fare con qualche interpretazione, questo è un fatto, così come sono fatti (duri e provvisti di effetti) le singole interpretazioni. Che oggi ci sia il sole o piova non mi dice niente sulla realtà in cui stiamo vivendo e nella quale temiamo di soccombere. Anzi, c'è da chiedersi perché qualcuno abbia bisogno di costruirsi questo paraocchi lasciando fuori dalla vista le cose più importanti. Il pensiero debole nasceva, poi, in una particolare consonanza con il pensiero critico di Michel Foucault e con le sue analisi del potere microfisico e della società disciplinare. Ora, che abbiamo potuto conoscere meglio le sue ultime ricerche, il debito si è allargato, e non è un caso che Foucault non trovi nessuna cittadinanza nel cosiddetto new realism di Ferraris.
Un punto fa da spartiacque, e riguarda la verità. Foucault ci ha insegnato, con un gesto nietzschiano, che la storia (sì, la storia!) è un susseguirsi di giochi di verità, il che significa che i valori del vero e del falso si trasformano, sono la posta in gioco di un pesante e determinato conflitto, vengono di volta in volta innalzati sulle bandiere dentro una lotta di posizioni e per ottenere vantaggi. Dal dispositivo di potere (reale) non si evade con un semplice colpo di filosofia, e quando si eternizzano le categorie, cercando di fissare cosa è veramente reale, non si fa altro che assumere una posizione dentro il dispositivo, che lo sappiamo oppure no. Mi chiedo cosa abbia da dire il nuovo realismo a questo riguardo, una volta che si sia sgombrato il campo da contrapposizioni un po' di scuola e un po' artificiose, dato che nessuno dubita che la realtà abbia una consistenza e produca effetti. Sicuramente non lo dubitano coloro che hanno trovato nel pensiero debole molti attrezzi per la loro cassetta.
(26 agosto 2011)
Per farla finita con il postmoderno
Il testo qui riportato è stato pubblicato in versione rimaneggiata da Repubblica il 26 agosto. di Paolo Flores d'Arcais
La querelle di venerdì 19 agosto su “la Repubblica” tra l’ermeneutica nichilista di Gianni Vattimo (“non ci sono fatti, solo interpretazioni”) e il suo più brillante allievo, Maurizio Ferraris, marrano del post moderno convertito ormai al “New Realism”, potrebbe rivelarsi un gioco di specchi, dove ciascuno dei contendenti ha ragione nel criticare l’altro ma entrambi hanno torto proprio nel nucleo filosofico che continuano a condividere. Situazione del resto frequente nei conflitti intellettuali. Ma andiamo con ordine.
Vattimo ammette che “sul piovere o non piovere, e anche sul funzionamento del motore dell’aereo su cui viaggio” potrebbe perfino convenire con Bush, accettare cioè che i fatti sono sovrani e perciò cogenti per entrambi, ma sulla direzione in cui battersi per cambiare il mondo i fatti non forniranno mai una guida “oggettiva”, “vera”: sarà sempre questione di lotta e di potere.
Ineccepibile (un esistenzialista-scientista come me sottoscriverebbe senza problemi), ma ragioniamo i due assunti fino in fondo. Se l’evidenza empirica è in grado di dirci che qui e ora sta piovendo (oppure no), e se il funzionamento di un aereo è materia “neutrale” e non opinabile, è l’intera scienza della natura galileiana, l’intera impresa scientifica moderna ad essere sottratta al nichilismo interpretativo e ad essere riconosciuta universalmente come intersoggettivamente cogente (se la parola “vera” disturba, benché funzionalmente equivalente). Infatti, nessuna autorità impone a Vattimo (e a tutti noi) di credere alle infinite leggi della natura imbozzolate nel funzionamento del motore con cui stiamo realizzando il sogno di Icaro, ma le procedure con cui ciascuna di esse è stata messa alla prova (tentando di smentirla in esperimenti ripetibili e ripetuti, da parte di ricercatori di ogni latitudine e di ogni fede o miscredenza) e la corrispondenza tra i fatti che esse ipotizzano (la capacità di levarsi in volo per un ciclope di miriadi di tonnellate) e quanto quotidianamente qualsiasi membro di “homo sapiens” può constatare, costituiscono l’unica fonte del nostro riconoscimento, l’unica “maestà” di una “oggettività” assolutamente critica e strutturalmente esposta al dubbio. La “auctoritas” del “chi lo dice?” qui non ha alcuno spazio.
Non si capisce perciò perché Vattimo, contraddicendosi con le sue stesse ammissioni (neutralità ideologica e cogenza di verità per “piove” e “motore”), rifiuti alle scienze della natura il loro status di oggettività e ne faccia una questione di fiducia personale, interessi, lotta di classe. Curiosamente, il sospetto verso le scienze della natura è condiviso da Ferraris, malgrado l’abiura del post-moderno e la via di Damasco del “New Realism” (su “Repubblica” non lo sottolinea, ma lo ha fatto nei suoi più importanti lavori, anche recenti). Questa idiosincrasia per l’oggettività della scienza (della natura) non è cosa nuova, domina purtroppo il pensiero progressista già dal sessantotto (a mio parere è una delle concause del fallimento di quel grande moto libertario) e anzi prima. Temo abbia molto a che fare con una sinistra impotente a rovesciare o squilibrare gli assetti di potere e che si consola (tramite i suoi intellettuali più eretici) lanciando strali contro l’inerme “violenza” dell’illuminismo anziché contro l’agguerrita oppressione di classe degli establishment.
Comunque sia, è evidente che Vattimo vuole mettere in discussione ogni verità di fatto per timore di riconoscere status scientifico anche alle cosiddette scienze dello spirito, o scienze umane. Che scienze però non sono affatto, sature come sono, esse sì, di interpretazione, di ideologia, di valori, dunque di preferenze soggettive e di interessi conflittuali, anche se utilizzano (dovrebbero, almeno) in alcuni settori delle relative discipline strumenti e criteri di accertamento scientifico. Prendiamo il sapere storico: qui l’accertamento dei fatti segue (almeno dovrebbe) il rigore che caratterizza ad esempio una scienza come la biologia evoluzionista nella datazione, descrizione e classificazione dei suoi reperti. Che un giorno di novembre dell’anno 1956 i carri armati sovietici abbiano invaso l’Ungheria per schiacciare il governo Nagy che si appoggiava sui consigli operai, è una realtà accertabile e anzi accertata, dunque oggettiva (perfino che Gesù non si proclamò mai messia è un fatto accertabile e accertato).
Che la rivoluzione ungherese nella sua ultima fase finisse per fare suo malgrado il gioco dell’imperialismo è l’interpretazione (a mio parere aberrante) con cui Jean-Paul Sartre finì per giustificare il secondo intervento sovietico. Ma un’interpretazione, anche aberrante, non sarà mai liquidabile nei termini di vero/falso. Si può sostenere Stalin contro Trockij (e ambedue contro gli insorti di Kronstandt), perché purtroppo i gusti morali di homo sapiens hanno santificato di tutto (se ne lamentava il cristianissimo Pascal, riconoscendo come la morale “naturale” fosse una fola), mentre è verità incontrovertibile che in una foto famosa della rivoluzione d’ottobre, appoggiato al palco da cui Lenin sta parlando, c’è Lev Trockij, numero due dei bolscevichi, anche se nei decenni staliniani la sua figura in quella foto verrà miracolosamente riassorbita nelle assi di legno dello sfondo (con un procedimento chimico in sé neutrale: solo il suo uso sarà stalinista). In questo senso aveva perfettamente ragione Hannah Arendt a ricordare che le “modeste verità di fatto” sono i nemici più intrattabili di ogni dispotismo, e a vedere nell’equiparazione tra verità di fatto e opinione il prodromo della vocazione totalitaria.
Quello che vale per la storia vale in modo esponenziale per l’economia, dove l’ideologia la fa da padrona. Se davvero i comportamenti economici fossero prevedibili, gli economisti sarebbero tutti dei Creso poiché in borsa non sbaglierebbero un colpo. Ma soprattutto: qualsiasi “ricetta” per affrontare una crisi (e la nozione stessa di crisi) dipende dalle variabili che vengono privilegiate come valori: che sia il Pil, o il tasso di disoccupazione, o le tutele sindacali, o la forbice massima dei redditi, o la redistribuzione tramite tassazione e pensioni, o l’orario di lavoro (dodici o quattordici ore anche per i minori, così è decollato il capitalismo in Inghilterra, così è di nuovo in aree crescenti di Gaia, compreso il suo civilissimo Occidente), o l’eguaglianza di fronte a casa, salute, istruzione (il welfare, insomma), tutto ciò non riguarda l’incontrovertibile mondo dei fatti, ma la libera scelta dei valori che si vogliono affermare, quasi sempre a danno (almeno parziale) di altri valori. E degli interessi che spesso vi si accompagnano.
E’ paradossale, però, che Vattimo, per tenere aperta la prospettiva dell’emancipazione e dell’eguaglianza (più che legittima, a mio modo di vedere anzi sacrosanta e cui aderisco “toto corde”), anziché scegliere la via maestra e diretta della separazione quasi manichea tra fatti e valori, dunque tra scienze della natura e ideologie dello spirito (le componenti scientifiche delle discipline socio-storiche rientrano nel primo ambito), o per dirla col venerabile Hume tra essere e dover-essere, compia un doppio salto mortale: dapprima unifica verità di fatto (in effetti accertabili) e “verità” di valore (introvabili in natura e sempre soggettive) nell’unico spauracchio della “scienza”, della “ragione”, attribuendo così all’eredità dei lumi le pretese dispotiche di Wall Street (o dei gerarchi cinesi che le sostituiranno): elevate a “verità oggettiva” come l’equazione di Einstein o la scoperta di Darwin. Di fronte all’insopportabile cogenza di “verità” che i poteri degli establishment ricevono così in dono per i loro soggettivissimi (e iniqui) interessi, Vattimo è allora costretto ad attribuire l’arroganza del potere a tutti i “saperi”, non solo ai Bush e Murdoch (Berlusconi e Marchionne) ma ai figli legittimi di Galileo che continuano ad accertare la verità del comportamento della natura.
In tal modo però, Vattimo resta disarmato di fronte ad ogni menzogna del potere, che non potrà più essere tacciata neppure di manipolazione, visto che non ci sono fatti ma solo interpretazioni. Il valore “verità” viene regalato all’arroganza del potere, con buona pace di Gramsci che aveva intuito come essa fosse invece strutturalmente rivoluzionaria. Bastava attenersi alla classica distinzione di Hume, riconoscere alle scienze della natura l’indagine sull’essere e all’esistenza individuale e collettiva la sovranità sul dover-essere. Ma con un esistenzialismo così sobrio, naturalista-scientista, sarebbero state liquidati tutti i barocchismi iper-metafisici intorno all’invio dell’essere e i culti esoterici sulla differenza ontologica tra essere ed ente.
Perciò resta assai problematico che un “New Realism” possa davvero affrontare le antinomie filosofiche (e politiche) di un nichilismo ermeneutico che si rivela – ahimè – realizzato da Berlusconi e dalla dismisura del trend internazionale di menzogna di ogni potere (l’esatto opposto, non a caso, della democrazia come trasparenza), senza andare a fondo nella critica alle giustificazioni che di quell’ondata filosofica (effettivamente egemone per lunghissimi anni, e non solo sul continente) ancor oggi Ferraris ripropone. E’ storicamente falso, infatti, che agli inizi degli anni sessanta in Italia fosse ancora dominante in ambito filosofico la tradizione idealista. Nell’immediato dopoguerra Abbagnano, Bobbio e Geymonat, tre maestri molto lontani sotto importanti aspetti, e che coprivano il versante positivista come quello esistenzialista, avevano lanciato insieme (e con crescente successo) l’appello anti-idealista per un nuovo illuminismo. Aggiungiamo che il marxismo eretico di Della Volpe e della sua scuola aveva valorizzato la critica antihegeliana del giovane Marx. Insomma, esattamente mezzo secolo fa circolavano nella filosofia italiana tutti gli elementi per dar luogo a quel “New Realism” – capace di andare oltre la povertà etico-politica del positivismo logico egemone nel mondo anglosassone – che ha ora conquistato Ferraris.
Se si è perso mezzo secolo è solo perché, anziché lavorare sulle tradizioni che ho richiamato, per superarne limiti e contraddizioni, in Italia negli anni sessanta ha preso piede un’inaspettata rivincita di spiritualismo, cattolico e non, che ha declinato Heidegger in tutti i modi possibili, ma sempre contro quelle promettenti istanze neo-illuministe. Pareyson e Severino hanno cresciuto le punte di diamante di questa screziata “vague” heideggeriana, Vattimo e Cacciari, che ha vinto e dilagato nella sinistra, esattamente come in Francia altri irrazionalismi trionfavano con Foucault e Derrida (quando erano a disposizione, per il “New Realism” ora tardivamente invocato, i mattoni filosofici predisposti da due grandi pensatori con Camus e Monod, trascurati invece come “dilettanti”, oltretutto politicamente sostenitori, ad anni di distanza, dell’unico vero riformatore di sinistra che l’Europa del dopoguerra abbia avuto, Pierre Mendes-France).
Naturalmente, meglio tardi che mai. Purché il “New Realism” non rimuova una volta di più le due pietre d’inciampo che troppa filosofia “emancipatoria” ha paura di affrontare: il radicale addio ad ogni metafisica o post-metafisica (in realtà l’heideggerismo costituisce una iper-metafisica), riconoscendo che “essere” può valere esclusivamente come stenogramma per la totalità degli enti, per il resto è solo una cattiva ipostasi, la personificazione (animismo!) del predicato generico (e dunque insignificante) dei reali oggetti discreti. E che si tratta di tener ferma senza titubanza alcuna la barra della separazione gnoseologica tra fatti e valori, oggetto di accertamento intersoggetivamente cogente i primi, di libera decisione (dunque di lotta) i secondi.
La visione che ci restituisce il mondo

Nella psicologia è circolata per molto tempo l'idea che quel che conta sono le interpretazioni, e non i fatti. Anzi, sono le interpretazioni stesse a creare i fatti. In una variante di psichiatria sociale, il matto era, semplificando (ma non tanto), il risultato di chi lo classificava come tale. Cambiata la società, eliminata l'etichetta, trattati i matti da persone normali, il problema si sarebbe ridotto, se non dissolto. In forme meno grossolane, questa stessa idea permeava altre scienze umane.
Oggi il vento è cambiato. Due grandi tradizioni di ricerca, l'evoluzionismo e lo studio del cervello, anche grazie a nuove tecniche di osservazione, stanno occupando la scena. L'uomo è un pezzo della natura biologica, e non è poi così speciale. L'idea che sia lui a costruire il mondo, con le sue categorie di osservazione e d'interpretazione, è al tramonto. Si celebra così la fine del presunto primato dell'interpretazione sui fatti. Non ci si era mai spinti ad affermare che leggi scientifiche – come, poniamo, la legge dei gas –, fossero interpretazioni del comportamento dei gas. E tuttavia per le scelte individuali e le società era così. Circola poi, ancor oggi, una variante politica, nel senso che chi detiene il potere politico e i media può "costruire" la realtà. Era questo cui alludeva Donald Rumsfeld, il segretario alla difesa del secondo Bush, quando affermava, dopo la caduta del comunismo: «Ora il mondo lo facciamo noi».
Questa versione "forte" del credo "interpretativo" è fallita miseramente. I fatti si vendicano nella politica estera americana. I fatti presentano il conto. Il potere politico può, anche per molto tempo, far sì che l'opinione pubblica riconosca un fenomeno "da un certo punto di vista", ma non può fare di più.
Quando s'insegna psicologia, al primo anno di studi, si deve contrastare lo spontaneo "realismo ingenuo" degli studenti. Esso consiste nel pensare che noi vediamo il mondo così com'è, semplicemente perché è fatto così. In realtà il nostro sistema percettivo è un intreccio di meccanismi inconsapevoli che ci "restituisce" il mondo in seguito a una complessa elaborazione di ipotesi su quello che c'è là fuori. E anche il pensiero umano funziona così. Questo però non implica sposare la tesi che la mente crea il mondo. Al contrario, la mente dell'uomo e degli altri animali fa ipotesi su come funziona il mondo e le aggiorna continuamente perché l'azione umana cambia il mondo. Questa è la tensione che sbrigativamente si etichetta con il binomio natura/cultura.
Agli psicologi cognitivi piace che in filosofia stia emergendo una posizione chiamata "nuovo realismo". Non possono concordare né con il realismo ingenuo, né con la rozza idea che siamo noi a creare i fatti con le nostre interpretazioni. Per quanto concerne la versione politica, questa tesi si è sconfitta da sola.
Perché serve una prospettiva diversa
Nel gennaio scorso Ferraris e io eravamo a Parigi, e al termine di una sua conferenza sul futuro della decostruzione qualcuno gli ha chiesto: «Ma perché senti tutta questa necessità di richiamarti al realismo e ai fatti? In fondo, le interpretazioni possono dare libertà». Ferraris ha risposto: «È vero. Ma possono anche negare tutto, comprese le peggiori tragedie della storia». Ripensandoci, è lì che è nata l'idea di un convegno sul "New Realism".
Il realismo è la grande novità filosofica dopo trent'anni di postmoderno, ed è un punto a cui sono arrivato, per parte mia, lavorando su una "fenomenologia dell'istituzionale" che, rispetto a Ferraris, è più aperta alle proposte di Foucault. Sull'essenziale però siamo d'accordo. Derrida, il nostro comune maestro, ci ha resi attenti alla necessità di decostruire, di smontare, di non fermarsi alle apparenze (perché ovviamente non tutto quello che appare è reale, ci sono anche le allucinazioni, lo sappiamo bene). Ma di farlo con una prospettiva di speranza, la speranza, appunto, che la decostruzione potesse portare emancipazione e verità. Se trascuriamo questa circostanza, si finisce nel nichilismo, una posizione che costituisce un problema non solo dal punto di vista teorico (perché è una negazione del sapere) ma anche, e soprattutto, dal punto di vista morale, perché se si sostiene che tutto è fluido e tutto è interpretabile anche il passato può essere riscritto.
C'è un altro segnale importante che, secondo me, viene dal "Nuovo Realismo", e che è particolarmente significativo per chi, come me, si è trovato a vivere e a lavorare in situazioni culturali molto diverse e a volte contrapposte (dall'Inghilterra alla Francia alla Serbia). Il postmodernismo, malgrado la sua pretesa di cosmopolitismo filosofico, era in effetti una teoria che si limitava alla cosiddetta "filosofia continentale". Con la svolta realistica si sta facendo esperienza di un dialogo tra scompartimenti un tempo non comunicanti, per esempio fra temi che vengono da filosofi analitici, come Searle, e temi che vengono da filosofi continentali, come Derrida.
Questo aspetto non mi sembra puramente formale, e tocca la sostanza del lavoro filosofico. Perché "Nuovo Realismo" significa confrontarsi sulle cose, senza limitarsi a chiedersi l'un l'altro "da dove parli?", il gioco postmoderno che spesso riduceva i confronti filosofici alla deferenza nei confronti dei rituali della propria tribù di appartenenza.
venerdì 19 agosto 2011
L'addio al pensiero debole che divide i filosofi
Ferraris e Vattimo discutono il manifesto del "New Realism" che propone di riportare i fatti concreti al centro della riflessione
FERRARIS Gli ultimi anni hanno insegnato, mi pare, una amara verità. E cioè che il primato delle interpretazioni sopra i fatti, il superamento del mito della oggettività, non ha avuto gli esiti di emancipazione che si immaginavano illustri filosofi postmoderni come Richard Rorty o tu stesso. Non è successo, cioè, quello che annunciavi trentacinque anni fa nelle tue bellissime lezioni su Nietzsche e il "divenir favola" del "mondo vero": la liberazione dai vincoli di una realtà troppo monolitica, compatta, perentoria, una moltiplicazione e decostruzione delle prospettive che sembrava riprodurre, nel mondo sociale, la moltiplicazione e la radicale liberalizzazione (credevamo allora) dei canali televisivi. Il mondo vero certo è diventato una favola, anzi è diventato un reality, ma il risultato è il populismo mediatico, dove (purché se ne abbia il potere) si può pretendere di far credere qualsiasi cosa. Questo, purtroppo, è un fatto, anche se entrambi vorremmo che fosse una interpretazione. O sbaglio?

VATTIMO Che cos’è la "realtà" che smentisce le illusioni post-moderniste? Undici anni fa il mio aureo libretto su La società trasparente ha avuto una seconda edizione con un capitolo aggiuntivo scritto dopo la vittoria di Berlusconi alle elezioni. Prendevo già atto della "delusione" di cui tu parli; e riconoscevo che se non si verificava quel venir meno della perentorietà del reale che era promessa dal mondo della comunicazione e dei mass media contro la rigidità della società tradizionale, era per l’appunto a causa di una permanente resistenza della "realtà", però appunto nella forma del dominio di poteri forti – economici, mediatici, ecc. Dunque, tutta la faccenda della "smentita" delle illusioni post-moderniste è solo un affare di potere. La trasformazione post-moderna realisticamente attesa da chi guardava alle nuove possibilità tecniche non è riuscita. Da questo "fatto", pare a me, non devo imparare che il post-modernismo è una balla; ma che siamo in balia di poteri che non vogliono la trasformazione possibile. Come sperare nella trasformazione, però, se i poteri che vi si oppongono sono così forti?
FERRARIS Per come la metti tu il potere, anzi la prepotenza, è la sola cosa reale al mondo, e tutto il resto è illusione. Ti proporrei una visione meno disperata: se il potere è menzogna e sortilegio ("un milione di posti di lavoro", "mai le mani nelle tasche degli italiani" ecc.), il realismo è contropotere: "il milione di posti di lavoro non si è visto", "le mani nelle tasche degli italiani sono state messe eccome". È per questo che, vent’anni fa, quando il postmoderno celebrava i suoi fasti, e il populismo si scaldava i muscoli ai bordi del campo, ho maturato la mia svolta verso il realismo (quello che adesso chiamo "New Realism"), posizione all’epoca totalmente minoritaria. Ti ricorderai che mi hai detto: "Chi te lo fa fare?". Bene, semplicemente la presa d’atto di un fatto vero.
VATTIMO Se si può parlare di un nuovo realismo questo, almeno nella mia esperienza di (pseudo)filosofo e (pseudo)politico, consiste nel prender atto che la cosiddetta verità è un affare di potere. Per questo ho osato dire che chi parla della verità oggettiva è un servo del capitale. Devo sempre domandare "chi lo dice", e non fidarmi della "informazione" sia essa giornalistico-televisiva o anche "clandestina", sia essa "scientifica" (non c’è mai La scienza, ci sono Le scienze, e gli scienziati, che alle volte hanno interessi in gioco). Ma allora, di chi mi fiderò? Per poter vivere decentemente al mondo devo cercare di costruire una rete di "compagni" – sì, lo dico senza pudore – con cui condivido progetti e ideali. Cercandoli dove? Là dove c’è resistenza: i no-Tav, la flottiglia per Gaza, i sindacati anti-Marchionne. So che non è un verosimile programma politico, e nemmeno una posizione filosofica "presentabile" in congressi e convegni. Ma ormai sono "emerito".
FERRARIS Ovviamente no. Ma nemmeno dire che "la cosiddetta verità è un affare di potere" mi dice niente in questa direzione, al massimo mi suggerisce di non aprire più un libro. Ci vuole un doppio movimento. Il primo, appunto, è lo smascheramento, "il re è nudo"; ed è vero che il re è nudo, altrimenti sono parole al vento. Il secondo è l’uscita dell’uomo dall’infanzia, l’emancipazione attraverso la critica e il sapere (caratteristicamente il populismo è a dir poco insofferente nei confronti dell’università).
VATTIMO Chi dice che "c’è" la verità deve sempre indicare una autorità che la sancisce. Non credo che tu ti accontenti ormai del tribunale della Ragione, con cui i potenti di tutti i tempi ci hanno abbindolato. E che talvolta, lo ammetto, è servito anche ai deboli per ribellarsi, solo in attesa, però, di instaurare un nuovo ordine dove la Ragione è ridiventata strumento di oppressione. Insomma, se "c’è" qualcosa come ciò che tu chiami verità è solo o decisione di una auctoritas, o, nei casi migliori, risultato di un negoziato. Io non pretendo di avere la verità vera; so che devo render conto delle mie interpretazioni a coloro che stanno "dalla mia parte" (che non sono un gruppo necessariamente chiuso e fanatico; solo non sono mai il "noi" del fantasma metafisico). Sul piovere o non piovere, e anche sul funzionamento del motore dell’aereo su cui viaggio, posso anche essere d´accordo con Bush; sul verso dove cercare di dirigere le trasformazioni che la post-modernità rende possibili non saremo d’accordo, e nessuna constatazione dei "fatti" ci darà una risposta esauriente.
FERRARIS Se l’ideologia del postmoderno e del populismo è la confusione tra fatti e interpretazioni, non c´è dubbio che nel confronto tra un postmoderno e un populista sarà ben difficile constatare dei fatti. Ma c'è da sperare, molti segni lo lasciano presagire, che questa stagione volga al termine. Anche l’esperienza delle guerre perse, e poi di questa crisi economica, credo che possa costituire una severa lezione. E con quella che affermo apertamente essere una interpretazione, mi auguro che l’umanità abbia sempre meno bisogno di sottomettersi alle "autorità", appunto perché è uscita dall’infanzia. Se non è in base a questa speranza, che cosa stiamo a fare qui? Se diciamo che "la cosiddetta verità è un affare di potere" perché abbiamo fatto i filosofi invece che i maghi?
VATTIMO Dici assai poco su dove cavare le norme dell’agire, essendo il modello della verità sempre quello del dato obiettivo. Non hai nessun dubbio su "chi lo dice", sempre l’idea che magicamente i fatti si presentino da sé. La questione della auctoritas che sancisce la veritas dovresti prenderla più sul serio; forse io ho torto a parlare di compagni, ma tu credi davvero di parlare from nowhere?
lunedì 18 luglio 2011
In edicola il nuovo numero di MicroMega
Il nuovo numero di MicroMega sarà domani in edicola...DIALOGOPaolo Flores d’Arcais / Roberta De Monticelli - Controversia sull’etica
È possibile una fondazione razionale del pensiero pratico? Esiste una morale razionalmente ‘vera’? Se sì, in che modo vi si può risalire dal momento che la storia non ci dà testimonianza di una sola norma universalmente accettata in tutte le società di Homo sapiens? E se no, come è possibile salvarsi dal nichilismo e dalla legge del più forte?
ICEBERG - verità/Verità
Richard Rorty - A sinistra con Heidegger
Tessendo insieme in maniera originale cristianesimo, Heidegger e ideali democratici, Gianni Vattimo propone il nichilismo come la filosofia più funzionale a una politica di sinistra, che trarrebbe beneficio dalla rinuncia al razionalismo illuminato. Per Vattimo – sottolinea in questo saggio uno dei maggiori esponenti dell’ermeneutica contemporanea – ‘emancipazione e nichilismo vanno a braccetto’.
Paolo Flores d’Arcais - Per una critica esistenzial-empirista dell’ermeneuticaLa filosofia di Gianni Vattimo è essenzialmente una filosofia etico-politica e l’ermenutica rappresenta per l’autore di Oltre l’interpretazione la migliore filosofia sulla cui base costruire un progetto politico di emancipazione. Ma essa si scontra – sia sul piano etico-politico che su quello strettamente teoretico con difficoltà insormontabili. Per superare le quali non le resta che compiere l’ultimo decisivo passo: la rinuncia all’essere.
Richard Rorty in conversazione con Joshua Knobe - Un talento da bricoleurCe n’è per tutti: da Platone a Kant, da Putnam a Foucault. In questa brillante intervista rilasciata a The Dualist nel 1995 (e pubblicata qui per la prima volta in italiano), un Richard Rorty schietto e diretto spiega le sue scelte filosofiche – spesso dettate da contingenze e casualità – e si interroga sul motivo del suo successo.
Gianni Vattimo in conversazione con Daniel Gamper - Addio alla verità. Ma quale?
Esiste un uso appropriato del concetto di verità? Oppure è davvero tutto solo interpretazione? In base a che cosa si sceglie ‘da che parte stare’? Che cos’è la violenza? Qual è il rapporto tra secolarizzazione e cristianesimo? A partire dal suo ultimo libro, Addio alla verità, Gianni Vattimo ripercorre il suo itinerario filosofico e politico, spiegando come sia possibile una lettura di sinistra di Heidegger.
Maurizio Ferraris - Epistemologia ad personam Speriamo che l’ultimo libro di Gianni Vattimo, Addio alla verità, non finisca nelle mani di Niccolò Ghedini. L’avvocato del premier potrebbe trovarci infatti delle ottime argomentazioni a sostegno di originali interpretazioni circa le serate ad Arcore. Rinunciare alla verità, oltre a essere assurdo sul piano teorico, è pericoloso su quello etico-politico: da sempre infatti, nel realismo è incorporata la critica, nell’irrealismo l’acquiescenza.
Paolo Flores d’Arcais - Addio alla verità? Addio all’essere!La pretesa di Gianni Vattimo di dire addio alla verità – che egli avanza addirittura come dovere democratico – dimentica l’essenziale: che le affermazioni sui fatti (piove) e quelle sulle norme (il matrimonio è indissolubile) appartengono a due ambiti completamente diversi. E rinunciare alle ‘modeste verità di fatto’ (v minuscola) ci impedisce anche di smascherare chi si appella abusivamente alla Verità.
INEDITO 1
Hannah Arendt - La storia e l’azione (presentazione di Dario Cecchi)Conclusa la stesura di Le origini del totalitarismo, nella prima metà degli anni Cinquanta Hannah Arendt si dedica all’approfondimento della relazione fra totalitarismo e marxismo e all’indagine di alcune categorie della filosofia antica e moderna che diventeranno fondamentali per la sua riflessione successiva, quella confluita nella Vita activa e nella raccolta di saggi Tra passato e futuro. Negli scritti qui proposti per la prima volta in italiano, il concetto di ‘tradizione’ è contrapposto a quello di ‘storia’ come ‘orizzonte aperto all’avvenimento di tutte le possibili storie singolari’.
INEDITO 2Günther Anders - Senza radici (presentazione di Micaela Latini)Con la sua intensa attività filosofica ‘d’occasione’, Günther Anders ha sviluppato una originale riflessione sulla condizione della ‘non-appartenza’. Nei testi che seguono, proposti per la prima volta al lettore italiano, la tematica dello ‘sradicamento’ è prima declinata come necessità/impossibilità di una ricostruzione unitaria della propria vita nel ricordo, poi con riferimento alla questione della credenza religiosa, sotto forma di un dialogo socratico fra l’incarnazione del dogmatismo e quella della libertà di pensiero.
INEDITO 3
Theodor W. Adorno - Massa e leader (presentazione di Stefano Petrucciani)
Per la prima volta tradotti in italiano, questi tre brevi saggi di Adorno – Televisione come ideologia (1953), Indagini d’opinione e sfera pubblica (1964), Leadership democratica e manipolazione delle masse (1950) – sviluppano tematiche tipicamente francofortesi, prima fra tutte la critica dei dispositivi di dominio presenti nelle società di massa novecentesche.
Ma ci consegnano anche un Adorno inedito e sorprendente, che spiega quale deve essere il comportamento di un leader politico ‘veramente democratico’.
INEDITO 4Friedrich W.J. Schelling - La Bibbia e la storia (presentazione di Adriano Ardovino)
Le recenti pubblicazioni su Gesù di papa Benedetto XVI rappresentano il massimo tentativo – in epoca post-conciliare – di mettere in discussione il metodo storico-critico nell’interpretazione dei testi sacri. Eppure già il giovane Schelling vedeva nella lettura storico-critica (insieme all’indagine filosofica intorno al fenomeno della religione in quanto tale) l’unico modo per salvare la teologia dalla crisi in cui era sprofondata all’epoca dei Lumi. Una lezione di grande attualità che riproponiamo con due testi inediti del ‘periodo tubinghese’ (1790-1795).
SAGGIOGiorgio Cesarale - Marx sugli scaffali di Barnes & NoblesCi avevano detto che era rimasto sepolto sotto i detriti del Muro di Berlino, travolto dal crollo dei regimi del socialismo reale. In realtà negli ultimi anni il pensiero di Karl Marx è stato protagonista di un prepotente ritorno sulla scena, complice anche una crisi economica planetaria che ha dimostrato la debolezza dell’impianto teorico ‘mainstream’ nelle scienze economiche. Ripercorriamo le principale tendenze del revival marxiano.
domenica 17 luglio 2011
A review of "Farewell to Truth" - una recensione di "Addio alla verità"
Dal sito Guardian.co.uk
Et cetera: non-fiction roundup – reviews
Steven Poole - guardian.co.uk, Friday 15 July 2011 22.55 BST
A Farewell to Truth, by Gianni Vattimo, translated by William McCuaig (Columbia, £17)
In this dense but spryly provocative work, leaning mainly on Heidegger and Nietzsche, Vattimo – both a philosopher and a member of the European parliament – reclaims "nihilism" as a positive guiding spirit for our time, in an age where the "death of metaphysics" is widely acknowledged, yet leaders still appeal to "absolutes" to justify wars. Despairing of the Catholic church, our "enslavement" to "electronic media", and analytic philosophy, Vattimo bets everything on what he sees as the central Christian ideal of "charity", translatable also as Richard Rorty's "solidarity". Both require, as the book's lovely final image has it, that we keep an eye on "a more distant future that we can never really forget".
sabato 25 giugno 2011
La construcción de la verdad
La construcción de la verdad
“Entre uno que miente por el amor del proletariado y otro que miente por amor a las putas, como Berlusconi, hago una diferencia”, afirma en este diálogo el filósofo italiano, para quien, de la religión a la política, “decimos que encontramos la verdad cuando nos pusimos de acuerdo”. De paso por Buenos Aires, Vattimo analiza las ideas centrales de sus dos últimos libros y reflexiona sobre la relación entre eso que llamamos verdad y el poder.
POR Hector Pavon - hpavon@clarin.com
Ñ; Clarín.com
Gianni Vattimo va en auto a Ezeiza y lleva una valija que prácticamente no abrió. Estuvo sólo unas horas en Buenos Aires. Las cenizas volcánicas le impidieron llegar a tiempo para cumplir con su agenda y estuvo detenido en el tiempo en Río de Janeiro. Apenas llegó a Buenos Aires, compartió un panel con Ernesto Laclau, Jorge Alemán y Jorge Coscia en la Casa del Bicentenario, dentro del ciclo “Debates y combates “ de la Secretaría de Cultura de la Nación.
En su bolso de mano trae dos libros recientes de su autoría:
el diálogo con el antropólogo francés René Girard ¿Verdad o fe débil? y Adiós a la verdad .
Dos libros que interrogan lo verídico y lo cruzan con la vida y el mundo de hoy.
En el camino de retorno, Vattimo lleva en sus manos un puñado de papeles que componen la ponencia que leerá en Londres. Tema: la plegaria. De ella habla al referirse a la verdad en un corte transversal con la filosofía, la política, la religión y la ciencia. Mientras recorremos la geografía común internacional en la ruta hacia el aeropuerto, Vattimo brinda un relato verdadero. Una interpretación creíble.
En su libro “Adiós a la verdad” dice que la cultura actual se ha despedido de la verdad. ¿Es realmente una mala noticia?
Yo sostengo que hay algo bueno en el sentido de que, si llamamos verdad a la intuición inmediata de los principios primeros de los que todo depende, el hecho de no tener más la ilusión de lo que es la verdad, es casi como decir adiós a la violencia. ¿Me comprende? Casi todas las violencias históricas más graves no se limitan a ser reacciones emotivas de uno. Hitler no fue alguien que odiaba simplemente a los judíos. Encontró una teoría general que estableció: necesitamos matar a los judíos. Lo que significa que en la violencia histórica siempre hay un plus de carga teórica. Empezando por esa frase que se le atribuye a Aristóteles: soy amigo de Platón pero soy más amigo de la verdad .
Esa es la historia de la verdad. Eso es lo que la Iglesia siempre dijo cuando quemaba a los herejes durante la época de la Inquisición: no tenemos nada en su contra pero antes que violar el derecho o la verdad, matémoslos. Podemos imaginar que Aristóteles habría podido decir: desde el momento en que Platón enuncia errores yo lo discuto, si después continúa trato de acallarlo y si sigue, quizá por el honor de la verdad, lo mato. Hoy ocurre que quien produce violencia se justifica con una razón metafísica. Por ejemplo el bombardeo sobre Irak; todas las guerras llamadas humanitarias no son guerras normales. Es como si uno dijera: hay un pedazo de tierra, que nos disputamos, hagamos una guerra para quedárnoslo. No. Decimos que los otros son criminales y nosotros los matamos, los ajusticiamos, los metemos en la cárcel. Incluso en la política mundial hoy no hay nadie que diga: esos son nuestros enemigos porque tienen el petróleo que nos sirve. Para bombardear Libia se acusa al gobierno de violar los derechos humanos. Sí, pero se violan en muchísimas otras partes del mundo. ¿Por qué bombardean sólo ahí? La ideología de la criminalización del disenso es la que triunfa en la globalización. Y ése es sin duda uno de los motores del discurso sobre la verdad. El otro es que, teniendo en cuenta estos hechos objetivos políticos, sociales, de esas experiencias colectivas, la filosofía asumió que la verdad definitiva, esa que pretende ser la evidencia primera y última, es sólo un acto de fuerza hasta cierto punto. Se establece en base a un poder, por ejemplo con el poner fin a las preguntas de los niños. ¿Quién creó a Dios? ¿Quién creó el mundo? Llega un momento en que el padre le dice: Basta, no hagas más preguntas. Ese es el concepto de los primeros principios. Se puede preguntar hasta cierto punto. ¿Por qué? Porque el resto es natural, es así y no se puede discutir más.
Pero, ¿quién es el que decide que no se puede discutir más?
Eso nunca es un acto teórico; es un acto de fuerza. Es decir, la verdad objetiva pertenece a quien ostenta el poder, fundamentalmente. Siempre he compartido la idea de metafísica de Heidegger. Es decir, la idea de que hay una verdad objetiva que todos debemos reconocer y que no tiene en cuenta la idea, en cambio, de que nosotros siempre interpretamos. Siempre somos sujetos interesados frente a algo que ya es un evento, no es la estructura objetiva del ser. Son sucesos históricos, otras personas que nos dicen algo que nosotros podemos aceptar o rechazar. Esa es la interpretación. Ahora, Heidegger siempre criticó la metafísica pensándola así pero no era claramente consciente de que lo que él estaba criticando era la autoridad. Descartes mismo, cuando dice “pienso luego existo” realiza un acto de conciencia de un principio absoluto. Pero en definitiva, se lo ve perfectamente por la continuación del discurso. ¿Por qué debo pensar que la evidencia de conciencia sea un signo de verdad? Porque está Dios que no me engaña. De nuevo hay un principio de poder que garantiza que la verdad de la evidencia de una proposición que yo pienso es signo de verdad, pero no por sí misma. Justamente porque hay una autoridad que la garantiza.
Esa autoridad, ¿está vigente?
El mundo posmoderno entró en crisis porque ya no hay una autoridad central. La filosofía europea avanzó como filosofía del progreso, de la historia, de la verdadera humanidad mientras existió el eurocentrismo, pero cuando los pueblos que nosotros llamábamos primitivos se rebelaron y nos impusieron dejar de llamarlos así, fue muy importante el papel de Lévi-Strauss que utilizó la lingüística de Saussure para describir las culturas como organismos de signos, de normas, etcétera, cada uno con su propia legitimidad. Si la cultura de los llamados salvajes del Amazonas pudo durar tanto es porque rige y tiene los mismos derechos que la nuestra. Las culturas no están todas sometidas a una sola. Terminó la época del universalismo general del pensamiento europeo. Y eso es lo que Nietzsche describe como el nihilismo, la muerte de Dios, etcétera. Ya no se puede hablar de la verdad, sino de las verdades.
¿Por eso concluye que la verdad absoluta es más un peligro que un valor?
Decididamente sí, en el sentido de que nunca he visto a un nihilista haciendo una guerra por la religión, pero he visto a muchas iglesias o incluso personas con principios metafísicos, hacer guerras, Bush, el papa, los papas del Renacimiento, las Cruzadas, todo, siempre se hizo en nombre de la verdad. Y en nombre de Dios lo cual es todavía peor.
Tenemos una verdad absoluta y otra interpretada. En ambos casos es algo peligroso porque surge la dominación como consecuencia directa de la imposición de las dos verdades...
Primero, la verdad absoluta es, sin ninguna duda, falsa porque no quiere reconocer que es verdad interpretada. Luego, cuando alguien dice “te estoy diciendo la verdad”, tenés que prestar atención de no creerle. Si alguien te dice: Y o lo pienso de esta forma, puede convertirse en un problema de negociar, en cambio, si te dice: Yo lo pienso así y es tu jefe, es difícil que negocies; si él te dice “yo lo veo así”, tenés que estar atento. Siempre se puede disentir, pero depende de la relación de poder que tengas. Ese discurso del jefe y la verdad, la interpretación y el dominio, siempre es un problema referido a si podemos prescindir de la verdad absoluta. Hay un dicho italiano para bromear sobre quienes le temen al relativismo: “Eh, señora mía, ya no hay más religión”. Lo que quiere decir, ya no hay verdad absoluta. ¿Cómo hacemos? Para vivir en sociedad, necesitamos un acuerdo. Y mejor que sea una verdad democrática que una autoritaria. Ese es el verdadero problema. En el Leviatán, Hobbes dice que salimos del estado de guerra de todos contra todos atribuyendo el poder a un soberano. Ese soberano hoy es elegido a partir de un acuerdo sobre una Constitución. O sea que siempre hay un momento autoritario en la existencia, incluso en el nacimiento. Nadie me preguntó si quería nacer o no, pero nací, ahora debo hacer de la necesidad virtud, como se dice. Y por lo tanto es necesario imaginar en cierto modo esa situación: que ninguno de nosotros vive nunca desde el origen, es decir, ninguno de nosotros vivió nunca el pasaje de la guerra de todos contra todos al estado cultural, al estado político. Sino que vivimos en una situación en la cual esa imagen determina nuestra vida. Es decir, nos movemos dentro de una condición en la cual estamos de acuerdo, pero digamos que hasta cierto punto. Yo no puedo aceptar todo lo que la sociedad me impone. Por otra parte, los que quieren imponerme esto también me dicen “entonces, sé un salvaje”. Calma. Yo me convierto nuevamente en un salvaje cada tanto para discutir la constitución, los principios, las leyes, etcétera. Es decir, no discuto que tenemos necesidad de la verdad. La verdad sería una forma de última instancia, como un tribunal, que debemos no obstante instituir, es decir que debemos fundar democráticamente, y no aceptarla como si fuera un hecho natural. Toda la lucha moderna contra el derecho divino de los reyes, por ejemplo, era ésa. La idea de que tiene que haber un soberano, porque de lo contrario no se hace ni el código vial, debe surgir de que ese soberano dependa más de nosotros, no del hecho de que ya está ahí y de que tiene el derecho de Estado. Todo esto es importante porque se puede invertir lo que nosotros siempre pensamos: nos pusimos de acuerdo porque encontramos la verdad. Lo cierto es lo contrario: decimos que encontramos la verdad cuando nos pusimos de acuerdo. Es toda otra perspectiva que implica mucho más la libertad de los individuos y de las comunidades incluso.
Bush, Obama, Berlusconi, Zapatero, por ejemplo, construyeron una verdad política. Ahora, política y verdad es un matrimonio bastante complicado, ¿no?
Sí, lo que yo digo es que estos señores han justificado su autoridad con pretensiones de verdades objetivas. Como máximo, se puede pensar que una autoridad democrática como la de Obama no dice que debemos bombardear a Irán porque somos los buenos y ellos los malos. Es un poco más respetuoso de los derechos humanos pero no tanto. Yo no me escandalizo por el hecho de que la verdad se construya también políticamente. Entre uno que miente por el amor del proletariado y otro que miente por amor a las putas como Berlusconi hago una diferencia. Es decir, no digo que todos deberían ser absolutamente objetivos pero no sólo decir la verdad porque se convierte en un círculo vicioso porque, ¿quién establece si es verdad lo que dicen?
Luego, establecer la verdad es una decisión personal...
Yo decido estar a favor o en contra de una construcción de verdad social cuanto más la comparto. Depende de los grupos, las clases que la sostienen. Por ejemplo, en Italia tuvimos un referéndum por la energía nuclear. ¿Debo votar a favor o en contra? La primera respuesta que daría sería: escuchemos a los científicos. Pero los científicos no siempre están de acuerdo entre ellos. Entonces elijo al mejor, pero ¿y la autoridad para decidir eso? Finalmente, ¿qué hago? Elijo al científico que encuentro todos los domingos en misa o que es hincha de mi equipo. Elijo por afinidades. Es un discurso siempre de grupos y no es tan horrible porque ¿quiénes son los que no quieren aceptar la idea de que yo elijo siempre en base a afinidades históricas, culturales y amistosas? ¿A quién le parece escandalosa esa visión de la verdad? A los que ostentan el poder. Los que tienen el poder quieren que la verdad sea objetiva. Yo dije, una vez: tiene que haber una verdad objetiva porque de lo contrario no se puede ejercer el poder. Lo digo todavía. Ahora voy a Londres a dictar una conferencia sobre la plegaria a un grupo de teólogos. Les digo que paradójicamente Dios debe existir para justificar el poder de la Iglesia. O sea: decir que Dios existe objetivamente. No es que no se pueda dudar, es sólo un modo para afirmar el poder de los que hablan en su nombre. Que Dios no exista para todos, francamente, no podría importarme menos. Importa si cuenta para mí. Y todo eso me parece bastante importante. La verdad objetiva es siempre una función del poder que pretende que no es interpretación sino que es pura verdad. Y uno empieza a luchar un poco más contra esos tipos de autoridad absoluta.
Ahora, ¿qué pasa cuando la libertad tiene la capacidad de proponer una verdad contraria al sentido común?
Ese sí que es un problema. Todos los que me objetan dicen: ¿pero cómo? Si no existiera la verdad objetiva metafísica no podrías rebelarte contra el poder porque cuando lo hacés, lo hacés en nombre de una verdad diferente de la que sostiene el poder. Sí, pero puedo perfectamente pensar que cuando reivindico los derechos humanos, por ejemplo, en la Revolución Francesa contra los reyes, ¿los reivindico por amor al hecho de que son derechos humanos o los reivindico por amor a los que están a mi alrededor, apresados por esa autoridad? Una vez más, el revolucionario que se cree autorizado por el conocimiento de la verdad es tan peligroso como el autoritario en sí porque significa que en determinado momento en que rige la revolución no se permite hablar a nadie. En el fondo el estalinismo fue eso. Ahora pensemos si Stalin se puede reducir a esas cosas. El comunismo soviético, cuando se vuelve poder, fatalmente, creo, debe defenderse de los ataques de los países capitalistas pareciéndose cada vez más a sus enemigos incluso en el plano de la economía. Porque Stalin hizo una revolución industrial en 40 años. En los 50, Rusia competía con Estados Unidos en la carrera espacial y en el 17 era todavía un país agrícola, con caballos que arrastraban los trineos. Para llegar a ese punto tuvo que haber baños de sangre, transporte de poblaciones, defensa incluso contra la desunión interna del régimen, las purgas estalinistas, todas esas cosas.
Y esa ¿es una verdad correcta?
No la justifico, digo solamente que, entre otras cosas, todo eso nos salvó del nazismo porque sin Stalingrado, con los tanques armados, etcétera, el nazismo todavía seguiría vivo y en pie. Por lo tanto, ni siquiera la idea de que debo tener una justificación para rebelarme debe llevarme a pensar que entonces tiene que existir la verdad objetiva. Si no, me expongo al riesgo de convertirme en Stalin, dicho brutalmente.
Todos los días leemos en la prensa mundial, por ejemplo, toda la verdad: investigación especial…
Como WikiLeaks.
... sobre la política, toda la verdad sobre el mundo del espectáculo, sobre el fútbol…
Sobre Strauss-Kahn.
... ¿cuál es la idea, el concepto de verdad de los medios?
Digamos que usan la idea de verdad, a veces, cuando son honestos, sobre la base de testimonios directos. Es decir: hablé con Beckham que me dijo que traiciona a la mujer. Entonces, yo lo informo. Y eso para mí no está tan mal. El problema es que decir también una verdad sobre un hecho determinado, como diría Marx, puede ser desviante porque olvida todo el cuadro. En realidad, una verdad parcial, la verdad objetiva sobre un hecho parcial, a veces lo es, pero los diarios viven justamente de eso. Por ejemplo, dicen la verdad sobre Beckham, sobre el fútbol, sobre el espectáculo, pero no dicen en general quién es el dueño del diario. No lo escriben. Este diario pertenece a Berlusconi: Ça va sans dire. Ahora, esto es un modo no de despreciar la verdad descriptiva. Yo estoy contento cuando un diario me dice que llueve cuando llueve y no, que no llueve, obviamente. Prefiero eso. Pero no me conformo y ese es el principio de la transformación social. Después en lo que se refiere a las verdades de hecho siempre hay criterios para verificar. Por ejemplo, la verdad jurídica, cuando un tribunal termina condenando a alguien, ¿sabemos si fue realmente él el asesino? No, pero hay un sistema de verificación y falsificación por el cual según esos cánones, podemos decir que es verdad que fulano mató a la viejita. Y lo condenamos. Pero alguno puede decir, ¿pero qué pasó? En el fondo en nuestra vida social que haya una verdad convenida de alguna manera es útil porque tenemos criterios para establecer en los casos individuales como cuánto cuesta el taxi. Hay principios. Todo eso funciona muy bien para la vida práctica. Cuando se pretende, no obstante, modelar en base a las verdades, los valores, ahí hay diversidad de consideraciones.
¿Y en la política?
En la política la diferencia de opiniones no se puede superar tomando a un científico que nos diga cómo son las cosas. Incluso los economistas no están de acuerdo: sólo acentuar un hecho más que otro, quizá significa mandar a la ruina a Grecia o Portugal. Por eso, siempre existe ese margen de libertad de interpretación, que se puede sólo mediar con el consenso interpersonal, no con el ver objetivamente. Por ejemplo, no es que si se repite un experimento científico, va a implicar que las cosas son “así”; quiere decir que hay más gente que cree. ¿Eso significa que después de 100 experimentos conozco mejor la caída de la manzana? No. Quiere decir que no se desmiente, que funciona. Hasta Popper podría estar de acuerdo con eso. O sea que siempre hay una componente de consenso, de escucha del otro que justifica el coloquio interpersonal que nos hace hablar de verdad, entre comillas, “objetiva”, pero sólo una verdad subjetiva compartida y funciona muy bien.
¿Cómo se coexiste con la verdad de la religión?Esa que se manifiesta contra el divorcio, el aborto, los homosexuales, la fecundación in vitro...
Eso es una porquería. ¿Cómo decirlo? El problema es reducir los absolutos, incluso en el campo de las religiones. Allí donde las religiones se presentan como principios de verdad absoluta son en general religiones autoritarias. Como decir: Dios debe existir objetivamente porque si no el poder de la Iglesia no tiene base. Pero cómo, ¿debemos decir que Dios existe sólo por amor al Papa? No. De hecho es así porque hasta la madre Teresa de Calcuta decía que cuando se ponía a rezar le venían todas las dudas sobre la existencia de Dios, de Jesucristo. Pensemos si eso lo dijera el Papa, ¿vos le ordenás a la gente que no use preservativo, que no aborte, en base al hecho de que hay Dios o no? Por lo tanto, estos discursos sobre la ética de parte de las religiones son indicaciones generalmente útiles. Los diez mandamientos de Moisés sirvieron durante mucho tiempo en la vida de la gente que trataba de no matar, de no traicionar a la mujer o al marido... Ok. Pero que eso se convierta en un principio de una imposición incluso para las leyes civiles... Es decir: cuando la Iglesia ordena a sus fieles que no forniquen, es asunto de ellos; pero si lo ordena a todos, en nombre del hecho de que conoce la verdad de la naturaleza humana, es simplemente un hecho de autoritarismo. A veces el Papa habla de la antropología bíblica... ¿y con la astronomía bíblica cómo hacemos dado que Galileo fue perseguido en nombre de la astronomía bíblica? Ahora de la astronomía no se habla más, afortunadamente, pero se sigue diciendo que en la Biblia hay una antropología, una doctrina sobre el hombre, sobre lo que debe ser, y esa es otra estupidez. La Biblia no es un manual ni de antropología ni de astrología, no es nada de eso, no es siquiera un manual de teología. No es que nos explique cómo hizo Dios y entonces estamos más contentos. Nos dice que si queremos salvar el alma debemos hacer esto y aquello. Si creemos en la Biblia lo hacemos, pero no podemos tomar los principios del Vaticano y aplicarlos a la ley italiana porque esos son los principios de la naturaleza del hombre. ¿Cuáles son? Tonterías.
Usted habla también del cristianismo hedonista. ¿Retoma a Michel Onfray? ¿Onfray?
Quizá lo he sobrevaluado un poco. Es muy simpático, pero no sé hasta qué punto. Salió un libro de un teólogo americano llamado Fox, un ex dominico que fue expulsado de la orden, que escribe un libro titulado: En el principio fue la alegría y trata de transformar el negativismo de la ética cristiana en un hecho positivo. Yo creo que me gusta más un cristianismo hedonista que uno punitivo. ¿Debería ser mejor? ¿Por qué, si yo estoy haciendo el amor no debo pensar que Dios me ve? La gente se esconde. Si tengo una relación sexual, debo esconderme porque si no Dios me ve. No digo que podría hacerlo en la Iglesia, pero sólo por respeto a las convenciones. Del mismo modo que no hago mis necesidades en público: voy a un baño. Ahora, hay cosas que efectivamente no parecen decorosas desde el punto de vista de la relación con Dios. Masturbarse mientras se reza. A mí me ha pasado de pensar en rezar incluso si una noche llegando a un local equívoco... ¿Por qué no? Digamos que como no soy el padre eterno, no soy Dios, no puedo hacer como si todo esto no valiera nada, trato de atenerme a la disciplina social, al respeto por los otros, está bien; después si tengo que involucrar a Dios cada vez que uso o no uso el preservativo, francamente, me parece incluso una ofensa. ¿Qué tiene que ver? ¡Que se ocupe de sus asuntos!







