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giovedì 22 settembre 2011

Le insidie del "new realism"

Le insidie nascoste nel "New Realism"
Il Manifesto, 22 settembre 2011
di Guido Traversa


IDEOLOGIA ITALIANA Nel 2009 esce per Meltemi l'ultimo libro di Gianni Vattimo, Addio alla verità. Nel numero dello scorso luglio «Micromega» pubblica un'intervista a Vattimo nella quale il filosofo italiano rinnova il suo «addio»; Maurizio Ferraris difende la verità e il realismo, temendo che il testo del suo «una volta» maestro possa cadere nelle mani di Niccolò Ghedini e rendere possibile una epistemologia ad personam; e Flores d'Arcais ci richiama politicamente a non rinunciare «alle modeste verità di fatto (v minuscola)» per «smascherare chi si appella abusivamente alla Verità».
L'8 Agosto 2011 su «la Repubblica» Ferraris pubblica un articolo che apre con un «atto» preso dalle scene di metà Ottocento: «uno spettro si aggira per l'Europa». È lo spettro di ciò che propone «di chiamare 'New Realism'» e che darà tema e titolo ad un convegno che si terrà a Bonn nel 2012. La stessa democrazia verrà salvata dalle tre parole chiave del «New Realism»: Ontologia, Critica e Illuminismo.
Il 19 Agosto la questione, non solo lo "spettro" evocato undici giorni prima, prosegue con la discussione (prevedibile?) tra Vattimo e Ferraris; l'articolo ha scenograficamente come sfondo una enorme quercia che, un po' come un albero di Natale, ha appesi tanti riquadri delle facce dei filosofi direttamente o indirettamente chiamati in causa con nome e cognome, titoli dei libri principali, tutti divisi tra amici e nemici, fondatori, antagonisti e precursori del postmoderno. E l'intera tematica non si sviluppa solo sul piano teoretico ma anche e in molti punti su quello della maggiore o minore compatibilità dell'ermeneutica, che abbandonerebbe verità e fatti, con il realismo «new» che salverebbe entrambi, con l'etica e la politica della democrazia.
Certo chi ha preso parte in prima persona al dibattito filosofico e politico degli anni Ottanta e Movanta del secolo scorso (il riferimento è all'iniziativa editoriale I Libri di Montag apparsi tra il 1997 e il 2005 prima con Fahrenheit 451 e poi con Il Manifesto Libri) sa di quale ermeneutica si sta parlando; si tratta di quella strana ma coerente in sé linea che parte da due scuole inizialmente incompossibili: diciamo per comodità il Circolo di Vienna, con i suoi «fatti» e non «cose», con il suo criterio di significato come verificazione, e l'ermeneutica heideggeriana ancora legata negli anni Venti all'Essere. Queste due posizioni già negli anni '50 risultano profondamente unite nel ruolo primario dato al linguaggio (il secondo Wittgenstein e Quine da una parte, Gadamer dall'altra), tanto che Rihard Rorty e Jacques Derridda potevano sostenere tesi tra loro molto simili anche se con costruzioni linguistiche diverse: i «continentali» e gli «analitici» erano con lingue diverse entrambi relativisti.
Una medaglia bifronte
Meno certo è sapere a quale realismo si richiama il «New Realism». Già dalla fine degli anni Novanta un fenomeno di «pentitismo» attraversava le fila della «svolta linguistica» comune all'olismo, al decostruzionismo, all'ermeneutica; quindi l'esigenza di realismo non sembra poi tanto nuova. Pentitismo che si veniva maturando ed esprimendo non in un realismo in quanto tale - forse solo Umberto Eco in Kant e l'ornitorinco parlava dello zoccolo duro dell'essere (peraltro proprio lui disse, in una delle sue pochissime apparizioni in televisione, che era necessario bacchettare le mani dei suoi allievi eccessivi che riducevano tutto alle infinite interpretazioni, «bacchettatura» già iniziata con i Limiti dell'interpretazione) - ma in quel realismo di tipo riduzionista delle cognitive sciences e della philosophy of mind. Erano gli anni in cui, sempre in chiave antiermeneutica, si parlava spesso della «ontologia applicata» e dell'«etica applicata»; anche qui il realismo emergeva di contro al solo interpretare, ma era un realismo diverso da quello delle scienze cognitive o del mind-body problem: la realtà era costituita dalle «nuove realtà» costruite dal e nel sociale.
Jürgen Habermas
Reale e sempre antipostmoderno era il realismo della «comunicazione critica», dell'«agire comunicativo» (Jürgen Habermas) dove l'unità della ragione si esprimeva nella molteplicità delle sue voci. E forse l'elenco delle forme di realismo apparse sulla scena del dibattito filosofico potrebbe continuare.
Insomma, sarebbe opportuno sapere qualcosa di più sul tipo di realismo pensato nel «New Realism». Inoltre ci sarebbe da sapere se esso intende contrapporsi all'ermeneutica come suo semplice «opposto», al ché verrebbe il dubbio che si tratti delle due facce della medesima medaglia, e soprattutto (e la cosa è importante come la prima) se è ben chiara ai suoi sostenitori la causa storica della genesi dell'ermeneutica, di quella che personalmente definisco una «illusione trascendentale» da cui ci si può liberare solo dando una risposta adeguata alle giuste esigenze che la hanno fatta sorgere. L'ermeneutica è nata come ben motivata critica ad una metafisica essenzialista che cancellava la molteplicità varia dell'esistente in una essenza univoca, ma a questa esigenza si poteva e ancora oggi si può rispondere con una posizione non linguistico-relativistica. Per far ciò non basta appellarsi al realismo in quanto tale, ma bisogna dire anche a quale forma.
Un giro di vite
Realismo si dice in tanti modi e l'etica e la politica, così tante volte chiamate in causa dallo scorso luglio, non possono non farsi abili nel «dirne» le differenze e scegliere di conseguenza la via realistica da seguire.
La questione si fa interessante. Varrà la pena di andare a Bonn.
Nel frattempo, la discussione continua sulle pagine della cultura di «la Repubblica»: si tratta di un turn of screw, il titolo dell'articolo che raccoglie quattro interventi è: a che punto è il pensiero, debole, forte o esistenziale? Legrenzi, neuro psicologo, ci dice che il vento è cambiato rispetto ai tempi della psichiatria sociale, l'evoluzione e lo studio del cervello riportano l'uomo nella realtà biologica; Bojanic, allievo di Derrida, accetta il confrontarsi sulle cose senza chiedersi solo «da dove parli?»; Rovatti ricorda tutta la complessità filosofica e politica del pensiero debole, e ne difende la ancora forte capacità di porre la questione del potere; da ultimo FloresD'Arcais, proseguendo il suo dire su Micromega chiama in causa contro il debolismo Nicola Abbagnano, Norberto Bobbio e Ludovico Geymonat.
La comunicazione imposta
Questi ulteriori interventi incominciano a dare una voce alla genesi dell'ermenuetica, il che potrebbe metterci nella condizione di non perderne ciò che c'è di vivo e necessario per il nostro presente, e si vede qualche tassello in più sulla fisionomia del «realismo» da proporre.
La realtà andrebbe sottratta tanto al realismo riduzionista, quanto all'ermeneutica autoreferenziale. La realtà, soprattutto quella umana, etica, sociale, politica e storica ha così tante e varie componenti che impone a chi la voglia capire l'arte del cogliere le somiglianze e le dissomiglianze. Questo pensiero analogico salva la verità e la realtà sia dall'essere dittatorialmente dissolte in ciò che qualcuno vuole che siano (il potere della comunicazione imposta), sia dall'essere ridotte in uno solo dei loro reali elementi (il potere di ridurre la complessità sociale, per esempio, alla sola biologia e/o al solo cervello)

domenica 17 aprile 2011

Piazza, fascismo, par condicio


Un post dal mio blog sul sito de Il Fatto quotidiano, 16 aprile 2011

Piazza, fascismo, par condicio


I custodi della democrazia parlamentare (non parlo ovviamente di Giuliano Ferrara) che si sono scandalizzati dell’articolo di Asor Rosa sul Manifesto del 13 aprile hanno forse letto meno attentamente un articolo di Juergen Habermas uscito su La Repubblica dello stesso giorno. Le considerazioni di Habermas, meno esplicitamente riferite alla situazione italiana, erano però le stesse di Asor Rosa: prendevano atto (citando persino il New York Times) della crisi irreversibile del sistema democratico parlamentare in cui viviamo noi del “mondo libero”, e tematizzava la dissoluzione sempre più marcata di ogni politica degna di questo nome. Secondo Habermas, solo (forse) l’ideale dell’unità europea, praticato seriamente, potrebbe ancora fornire contenuti significativi per i quali impegnarsi come cittadini. In considerazione di questo, l’articolo concludeva con la tesi che “forse per i partiti politici sarebbe ora di rimboccarsi le maniche” (ahi, ha letto Bersani?) e “scendere in piazza per l’unificazione europea”.

Ciò che colpisce, in un pensatore “moderno” e istituzionalista come Habermas, è proprio l’allusione alla piazza. Proprio un razionalista illuminista come lui, da sempre persuaso che si possa fondare una politica democratica sul dialogo e, in definitiva, le istituzioni (parlamenti, Onu, ecc.), chiamare i partiti a scendere in piazza è un segno che la speranza (o la pazienza) sta venendo meno. Non c’è da aspettarsi che la politica ritrovi un contenuto e un volto decente, capace di non defraudare i cittadini dei loro diritti, se si guarda solo ai parlamenti e alle istituzioni. Asor Rosa, nel suo articolo, è più habermasiano di lui: non invoca la piazza (forse per la semplice ragione che, come l’esperienza italiana insegna, la piazza non ce la fa; Berlusconi resiste perché ha “servi di acciaio” che occupano il parlamento), ma chiede l’intervento costituzionale delle forze dell’ordine: Carabinieri, Polizia, Guardia di Finanza.

Il capo delle forze armate è il Presidente della Repubblica, che è anche il custode della Costituzione. Come ha il potere, uditi i presidenti delle Camere e del Consiglio (ma non ci sarebbe un ennesimo conflitto di interessi, nel caso del cavaliere? Lo “oda” pure, ma non gli dia retta!), di sciogliere il Parlamento e indire nuove elezioni, così (se leggiamo bene la Costituzione) può decretare lo stato di emergenza e ordinare alle forze dell’ordine di difendere, per l’appunto, l’ordine democratico. Gli esempi che Asor Rosa adduce sono dei più convincenti: sarebbe stato golpe se Vittorio Emanuele III avesse schierato l’esercito contro le milizie fasciste in marcia su Roma, e avesse rifiutato di affidare il governo a Mussolini? Possiamo allora chiedergli di aspettare che il pericolo fascista – anche solo della corruzione dilagante, del trionfo del potere mafioso su cui si regge Berlusconi – diventi più evidente e cioè, ormai, incontrastabile?

Asor Rosa, nell’intervista a La Repubblica (del 14 aprile, ndr), sembra volersi limitare alla messa in luce di una questione di metodo: se la maggioranza parlamentare – di cui sappiamo come è stata reclutata, e persino a che prezzi – calpesta la Costituzione e si rifiuta di essere giudicata dalle autorità competenti, che cosa bisogna fare? Difendere l’ordine democratico con le forze dell’ordine è appunto quel che si deve fare. Se no, di grazia, che cosa? Se Hitler, sia con l’uso dei media di cui illegalmente dispone, sia comprando i voti, o semplicemente perché una maggioranza di cittadini lo preferiscono, vince le elezioni, lo stato democratico non ha mezzi per difendersi? Può una tornata elettorale ordinaria valere come base di legittimità per il cambio della Costituzione? La banda di gangster che oggi occupa il governo dispone, oltre tutto, di una maggioranza estremamente esigua, e con le leggi che approva sta di fatto stravolgendo la Costituzione. Non è ora per il Capo dello Stato di intervenire? Fermi con la forza legale di cui dispone questa inedita marcia (anche nel senso di marciume!) su Roma. Prima che sia troppo tardi. O la sua inerzia significa che, appunto, troppo tardi è già?

Post-scriptum (post-post?)

Forse il mio, ma anche quello di Asor Rosa e Habermas, è solo un problema di salute: s’invecchia, e si diventa insofferenti. Sta di fatto, però, che poco fa ho rifiutato l’ennesimo invito di una televisione privata in cui ho anche degli amici, che mi chiedeva di partecipare a una trasmissione in cui avrei dovuto misurarmi anche con la Santanché. E, cosa ancora più grave, ieri sera sono scappato, subito dopo l’inizio, da Annozero per vedere un film. La parte della Santanché lì era esercitata da Cota. Non faccio queste confessioni per mettere in piazza i miei stati d’animo o di stomaco, ma per chiedere ai non pochi con cui condivido orientamento politico e esili speranze di futuro se non sia il caso di mettersi in sciopero del “dialogo”, in una sorta di Aventino civico che consista nel rifiutare di scendere troppo in basso, per rispetto della dignità e della, sia pur limitata, intelligenza di cui ancora ci sembra di disporre. Se per sentire dire da Santoro alcune verità sullo stato del Paese dobbiamo ascoltare anche – democraticamente – le autentiche turpitudini di figure e figuri come la Santanché, Cota, o persino di quel brav’uomo di Paniz, allora meglio il silenzio, svegliateci quando sarà passata la nuttata, oppure quando verranno ad arrestarci per vilipendio della par condicio.

Par condicio con i banditi, i bugiardi, i credenti nella relazione di parentela di Ruby con Mubarak, i venduti a un tanto al chilo (posti di sottosegretario, o anche solo mutui da pagare…)? Preferiamo riconoscere francamente che il fascismo c’è già; non possiamo sparare, per ora (come dicono Castelli e Speroni), ma almeno siamo coscienti che lì, prima o poi, ci porteranno questi affaristi e delinquenti che occupano il governo del paese in violazione di ogni elementare diritto umano. E l’Europa, che pure ha decretato sanzioni contro l’Austria quando in Carinzia aveva vinto le elezioni il “fascista” Haider, buonanima, tace sullo scempio della democrazia in Italia? Altro che aiuto sull’immigrazione, qui ci sarebbero gli estremi per un intervento armato della Nato… Paradossi, paradossi – come quelli che, secondo la timorata direttrice del Manifesto, sarebbero il vero senso dell’intervento di Asor Rosa, che così risulta solo un’ennesima chiacchiera da “dibattito” in regime di par condicio… Quando ci accorgeremo che l’Italia è (ri)diventata un paese fascista sarà troppo tardi. Magari ci verranno conservati i dibattiti televisivi con la Santanché, finché i nostri stomaci resisteranno…