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lunedì 14 dicembre 2015

Non basta un quaderno nero per liquidare Heidegger


Riprendo con questo pezzo, uscito il 12 dicembre 2015 sul Fatto quotidiano, il discorso interrotto da più di un anno. A chi ha orecchie per intendere - Continua, spero. gv



Liquidare Heidegger? Questa domanda, che circola da tempo nel dibattito pubblico non solo italiano, si ripresenta ancora una volta dopo il recente convegno tenutosi a Roma per iniziativa del Dipartimento di Filosofia della Sapienza, con l’appoggio dell’ambasciata tedesca e della Fondazione Humboldt, e diretto da Donatella Di Cesare, la massima esperta italiana del tema. Che erano i Quaderni neri di Heidegger, i quattro volumi di note, appunti, osservazioni varie che il filosofo scrisse tra il 1931 e i 1948 lasciando  scritto nel testamento che essi avrebbero dovuto  venir  pubblicati  alla fine delle sue opere complete; queste, in numerosissimi volumi sono stampate dall’editore Klostermann, che vi ha annesso, come volumi 94,95,96,97 appunto i quaderni, curati da Peter Trawny, per un totale di circa 1700 pagine. 

giovedì 25 aprile 2013

L'opposizione perduta di Vendola nell'Italia colonizzata

di Gianni Vattimo,  Il Fatto Quotidiano



Sento Vendola in un talk show televisivo (Ballarò, credo) che ricostruisce le tappe della vicenda che ha portato alla rielezione di Napolitano e al nuovo governo di destra che incombe su di noi. Tutto giusto, soprattutto la tesi (credo di averla scritta anch’io, con mesi di anticipo su Vendola) che la situazione attuale è figlia dello Ur-golpe napolitaniano del 2011, quando non si rimandò il governo Berlusconi alle camere e se ne contrattarono (a che prezzo? Stiamo ancora scoprendolo) le dimissioni per creare il governo dei tecnici.

lunedì 28 gennaio 2013

Ingroia, Di Pietro e la rivoluzione che non può più attendere





Dal mio blog sul Fatto Quotidiano: www.ilfattoquotidiano.it


Inutile dire che voterò per la lista Ingroia, soprattutto perché è lì che ritrovo Di Pietro e quel che resta di IdV; giustamente purificata dagli elementi di destra che ci stavano dentro fino ad ora: persone per lo più rispettabili e solo di opinioni più conservatrici delle mie; a parte ovviamente quelli che hanno ceduto alle lusinghe berlusconiane in vari momenti, o quelli che hanno deciso di scappare con la cassa.

Di Pietro ha ragione: dobbiamo usare di questa emorragia di finti o scontenti militanti per rendere IdV più autenticamente quello che deve, voleva, essere: un partito di rinnovamento radicale della politica e della società italiana; non per niente, a parte l’innominabile Lega, è rimasto l’unico gruppo di opposizione al governo eurobancario Bersani-Monti-Napolitano.


sabato 25 agosto 2012

Firmare a sostegno dei pm anche per dire no al regime

Il Fatto Quotidiano, 23 agosto 2012


Si parla tanto, discutendo dell’articolo (decisivo, inappuntabile) di Gustavo Zagrebelsky, di eterogenesi dei fini. Ma varrebbe la pena anche, e più, di parlare di eterogenesi delle cause. Spieghiamoci: davvero possiamo pensare che le tante migliaia di cittadini – compreso il sottoscritto – che hanno firmato l’appello del Fatto a difesa dei pm di Palermosotto attacco da parte di quasi tutti i grandi media cosiddetti indipendenti, siano stati motivati dalla preoccupazione per la sorte di quei magistrati, per ora almeno non direttamente minacciati né di licenziamento né di carcere; o dalla irresistibile curiosità di sapere che cosa si dicevano Napolitano e Mancino nelle conversazioni illegalmente, criminalmente ascoltate e addirittura trascritte dalla magistratura palermitana? Ma che cosa davvero ci poteva essere di così decisivo in quei nastri, già per giunta dichiarati irrilevanti ai fini del processo? Confessiamo finalmente che del contenuto di quelle intercettazioni non ci potrebbe importare di meno. Figurarsi se il nostro saggissimo presidente (Giulia Bongiorno docet) si sarebbe mai lasciato andare, anche senza sospettare di essere ascoltato, a dire qualcosa di men che prevedibile, istituzionale, neutrale?

E allora? Perché in tanti avremmo dovuto sentirci così impellentemente spinti a firmare il documento pro pm? Le ragioni, le cause “eterogenee” di cui generalmente si tace nella discussione sullo scritto di Zagrebelsky, sono, appunto, altre. La diffusa e motivatissima insofferenza per il vero e proprio regime che è calato sul Paese per gli sforzi congiunti di Napolitano e Monti, è la ragione principale che spiega la popolarità dell’appello – anche se sia delle sorti dei magistrati palermitani, sia della trattativa Stato-mafia nessuno dei firmatari si era dimenticato. Ciò che si è voluto respingere con la valanga di firme è stato principalmente la progressiva instaurazione del regime, che del resto anche dalla vicenda delle intercettazioni palermitane ha ricevuto una intensificazione senza precedenti. Se qualcuno aveva ancora dei dubbi, dopo le esternazioni mediatiche degli ultimi giorni, anche e soprattutto da parte di padri della patria come Scalfari, questi dubbi non dovrebbero più esserci. Siamo di fronte non a una campagna di delegittimazione del Capo dello Stato, come vanno predicando ex esponenti della ex-ex-ex sinistra; ma a un generale sforzo di consolidamento del regime; temiamo, in vista di autunni e inverni caldi e caldissimi.

Le poche voci dissonanti, anzitutto quella di Antonio Di Pietro, accanto a quella di Grillo e all’altra - un po’ arrochita dal vecchio e nuovo berlusconismo - della Lega, sono ormai tacitate e demonizzate in tutti i modi, fino a dire esplicitamente che chi non sta con Napolitano o si permette di criticarlo non potrà appartenere al centrosinistra Bersanian-Casinista verso cui Quirinale e establishment ci stanno spingendo. Non solo c’è la luce in fondo al tunnel, ne siamo ormai fuori per merito di questo governo. Domandare conferma di tutto ciò agli esodati senza pensione, ai licenziati di tutte le fabbriche che hanno chiuso i battenti, ai tarantini presi in giro dalla compagnia di giro dei ministri inviati prontamente sul luogo da Monti. Quasi tutti i giorni la stampa “indipendente” ci informa che Monti ci è invidiato da tutti i paesi d’Europa e forse anche da Obama. Sarà anche vero che lo spread è un poco sceso, e che le borse hanno guadagnato qualche punto: già, le borse e le banche, pupilla degli occhi del premier. Ma per il resto, i costi della vita per le famiglie, ci sarà forse da aspettare un po’ di più, e così per avere un qualche recupero dell’occupazione. Ma intanto noi vediamo la luce in fondo al tunnel con gli occhi dei media; che del resto, insieme a Napolitano sono i creatori delle fortune politico-tecniche di Monti. Nessuno si è accorto che qualcosa sia migliorato in Italia negli ultimi mesi, anzi il contrario è sotto gli occhi di tutti. È anche questo clima di untuosa accettazione della menzogna ufficiale, quirinalizia o no che sia, ciò che (correggetemi se sbaglio) i firmatari dell’appello pro pm di Palermo vogliono combattere. Forse sarebbe ora di smettere di giocare tutti ai costituzionalisti dibattendo sulle prerogative del Presidente. Ne usasse finalmente una, decisiva: sciogliere le inutili Camere e mandarci finalmente a votare e restaurando quel poco di democrazia che ancora ci resta.

sabato 3 marzo 2012

Lettera agli amici NoTav

Dal mio blog sul sito de Il Fatto Quotidiano, 3 marzo 2012


Tav, quando le forze dell’ordine fanno paura

Cari amici NoTav,

Se nei prossimi giorni mi capiterà di non venire alle manifestazioni in Valle non sarà (solo) a causa di altri impegni, sarà principalmente perché ho paura. Lo confesso senza pudore, e tanto più esplicitamente quanto più mi sembra un sentimento nuovo, che non avevo più provato da tanti anni, almeno dai fatti di piazza Statuto (governo Tambroni, un millennio fa), anche perché ai tempi del G8 di Genova ero, fortunatamente per me, all’estero per lavoro. Dagli anni di Tambroni porto sempre con me il ricordo di un suggerimento a cui penso con un certo umorismo: quando stai per andare alla manifestazione non mangiare o mangia poco, perché se ti sparano nello stomaco vuoto è più facile che la ferita si rimargini. Non ho mai avuto modo di verificare se è vero.

Comunque, non si sa mai, dato il clima che il governo sta deliberatamente creando per costruire il TAV. Rifletto su questa faccenda della paura fisica pensando all’immagine di Perino trascinato via e con il gomito rotto a manganellate; pensando ai dimostranti inseguiti nelle strade del paese e fin nel bar, quando ormai la manifestazione era dispersa e si trattava solo di “punirli” a botte. Che cosa posso aspettarmi da un governo che dice di voler “andare avanti a tutti i costi”? E comunque: è normale una situazione in cui un cittadino decide di restare a casa per paura? Non paura dei violenti black bloc – credo ce ne fossero anche sabato passato che marciavano in Valle del tutto inermi, allegri e amichevoli. No, ho paura delle “forze dell’ordine”, non dei singoli carabinieri e poliziotti, che, lo penso anch’io, “fanno solo il loro dovere”. Ma paura di chi questo dovere glielo impone in forme e modi fuori da ogni legalità. Difficile pensare che la caccia all’uomo di lunedì sera a Chianocco e Bussoleno, come la carica di sabato a Porta Nuova, sia stata una iniziativa di singoli agenti scatenati e assetati di vendetta.

Paura, dico. Certo può capitare di trovarsi in un tafferuglio dove si prendono anche manganellate. E la prudenza consiglia sempre di non fermarsi sul luogo in casi come questi: “circolare”… Ma qui si tratta davvero di tafferuglio casuale, di ristabilimento dell’ordine? In Valle la faccenda dura da più di vent’anni, il dialogo è stato sempre rifiutato: mente Virano sapendo di mentire, da quando ha deciso – con il pieno favore di tutte le autorità, PD in testa – che al tavolo dell’osservatorio sedessero solo i sindaci preliminarmente favorevoli alla TAV, cioè la minoranza, mentre tutti gli altri non avevano voce in capitolo.
 
Se nel futuro vicino la resistenza della Valle dovesse attenuarsi, se altri, come me, vi dicessero “non contare più su di me, ho paura, mia madre, mia moglie, i miei figli, ci stanno troppo male”; oppure: “io sono troppo vecchio e debole per sdraiarmi per terra, farmi trascinare via a calci e pugni” – non sarà certo perché ha vinto la sana ragione di chi vuole lo sviluppo, isolare i violenti, tenere l’Italia agganciata all’Europa, promuovere il lavoro e i commerci… Sarà solo perché un governo sempre più esplicitamente fascista (organizzazione armata delle classi dirigenti) avrà vinto la battaglia per la sua pretesa legalità (Berlusconi prescritto docet!), costringendo i cittadini a una più o meno rassegnata clandestinità. Purtroppo ce n’est qu’un debut!

Gianni Vattimo

mercoledì 1 febbraio 2012

Governo Monti, danni collaterali

Dal mio blog su Il Fatto Quotidiano, 29 gennaio 2012

I danni collaterali del governo tecnico

Non so se stia davvero crescendo la nostalgia per Berlusconi, certo aumenta vistosamente l’insofferenza verso il governo Monti, e anche verso chi, come il Pd, se ne è fatto sostenitore senza se e senza ma. Il sospetto niente affatto inverosimile è che tutto sia un gioco delle parti, quale che sia la consapevolezza degli attori.

La destra maledice Monti, e proprio per questo la cosiddetta sinistra lo difende. In termini elettorali (prima o poi si dovrà pure andare a votare) chi paga il prezzo di questo governo del rigore bancario-fondomonetarista, è il Pd, che finirà per dissanguarsi e per scoraggiare definitivamente il suo elettorato. Il quale ha sopportato finora solo perché terrorizzato dalla grande stampa “indipendente”: se va male alle banche va malissimo a tutti. E così via.

Ma fino a quando durerà questa sopportazione?
In giro per l’Italia ci sono scioperi e agitazioni sociali di vario tipo. Non basta stimolare l’odio per i camionisti e i forconi “infiltrati” dalla mafia, o contro i parlamentari e i loro privilegi. Presto o tardi, anzi già ora, la protesta sociale di padroncini, famiglie monoreddito, mamme che devono badare ai bambini cacciati anzitempo dalle scuole, anziani lasciati senza assistenza sociale, pensionati ridotti a rubare nei supermercati, si farà sentire in modi meno soft.

Quando Di Pietro dice, come qualche tempo fa, che prima o poi ci scappa il morto lo si copre di insulti come se fosse un terrorista; ma intanto il morto ai blocchi stradali dei camionisti ci è scappato, e i pacchi esplosivi alle agenzie delle tasse sono arrivati. I sacrifici che Monti (e Napolitano, e il potere bancario) chiede agli italiani non possono più essere sopportati in nome del governo “tecnico”. O si va a elezioni subito o la situazione sociale non farà che peggiorare. Non è la marcia su Roma, certo; o non ancora. Ma un governo tecnico messo di fronte a tensioni sociali crescenti non diventerà prima o poi, per ragioni puramente “tecniche”, un governo autoritario?

Sono solo ragioni “tecniche” quelle che hanno ispirato l’ondata di arresti di No-Tav ordinata da un magistrato sicuramente democratico come Giancarlo Caselli: non poteva fare diversamente di fronte all’evidenza di azioni violente perpetrate in Val di Susa nell’estate scorsa. Inutile dire che dei gas illegali sparati dalla polizia contro i manifestanti anti-Tav non si sa più nulla; e della illegalità permanente in cui hanno proceduto finora i lavori per la nuova ferrovia – dalla mancata consultazione delle comunità territoriali interessate, alle menzogne spacciate all’Unione Europea per spremerne i fondi, alla militarizzazione della Valle e alla sordità rispetto a tutti i pareri tecnici contrari all’opera – non vi è traccia nei mandati di arresto caselliani. Tutto questo, del resto, è politica, non tecnica, e va tenuto lontano.

Il fatto – non solo questo fatto specifico dei No-Tav, ma del governo tecnico in generale – è che, come si è detto spesso, sbagliando, del fascismo italiano rispetto a quello tedesco, Berlusconi era meglio perché era meno serio. Monti è un rigoroso – anche perché apolitico – esecutore delle regole del sistema. Non per niente il Financial Times lo considera la colonna portante dell’Europa; e Obama lo vede tanto di buon occhio. Miseria, disoccupazione, infelicità crescente in tutti i livelli della società? Danni collaterali.

domenica 4 dicembre 2011

Sulla manovra di Monti

Dal mio blog sul sito de Il Fatto quotidiano, 3 dicembre 2011

La disgregazione sociale renderà vani i sacrifici

Dicono i giornali di oggi che i due leader dei partiti maggiori che hanno dato la fiducia a Monti non si fanno sentire, e anche i commentatori e gli opinion maker si interessano per lo più alle indiscrezioni circa l’uno o l’altro aspetto della “manovra” piuttosto che al significato politico generale di quello che sta per accadere, o caderci sulla testa. Persino la lodevole campagna del “Fatto” sui conflitti di interesse che, nonostante le buone intenzioni, o presunte tali, di Monti gravano su non pochi componenti del governo si può leggere come un richiamo al dovere di attenersi davvero al programma enunciato in parlamento dal premier piuttosto che come un’espressione di riserve politiche su tutta l’operazione. Certo, la sapida satira di Travaglio sulla “sobrietà” e le lodi universali tributate dai giornali main stream alla figura di Monti ha l’aria di esser qualcosa di più che un semplice divertimento. Sta di fatto, però, che l’attività di Monti e dei suoi ministri, per quel che se ne sa, rimane circondata da una specie di silenzio sacramentale che non fa sperare niente di buono; o meglio, che preannuncia la rassegnata accettazione da parte di una maggioranza “emergenziale” che salverà qualche faccia tollerando (o anche programmando?) qualche voto contrario su questo o quel punto della manovra.

Intanto, i giornali sono pieni di illustrazioni apocalittiche delle conseguenze che seguirebbero alla fine dell’euro, il temuto default, la dissoluzione dell’Unione Europea e il ritorno a quella sorta di stato di natura da cui credevamo di essere usciti. Non si pecca di eccessiva sospettosità se si pensa che tutto questo sia una sorta di “concertazione” generale diretta a far digerire anche i peggiori aspetti dell’azione che il governo si prepara ad attuare. E’ una tattica ricalcata su quella della lotta al “terrorismo internazionale”: se sollevate anche il minimo dubbio su come siano andate davvero le cose l’11 settembre siete bollato come potenziale terrorista; se vi scandalizzate ancora per il lager di Gaza e le sorti della flottiglia siete antisemiti. Sarà possibile armare una piccola flottiglia per limitare i danni che il governo Monti minaccia di infliggere agli strati più poveri della società italiana? Per esempio, mostrando che se si applicheranno tutte le misure (misurate? Impressionanti!) di cui sentiamo parlare l’Italia rischia davvero di cadere in una condizione di disgregazione sociale che renderà vane proprio quelle misure. Anche noi tendiamo dunque a criticare Monti dall’interno, obiettandogli che il suo piano sarebbe buono ma non avrà efficacia? Forse sì, la flottiglia ha sempre avuto anche il senso di portare alcuni soccorsi immediati. Che non la lascino operare mostra che, se lo potesse fare, romperebbe anche il “blocco”. Siamo anche noi, qui in Italia, vittime di un blocco – l’universale approvazione della cosiddetta opinione pubblica nei confronti di Monti. Se riuscissimo anche solo a far cancellare qualcuno dei punti più selvaggi del suo piano avremmo già fatto qualcosa anche per liberarcene.


Gianni Vattimo

venerdì 28 ottobre 2011

Il lavoro in un box di un testo di economia

Dal mio blog sul sito de Il Fatto Quotidiano, 28 ottobre 2011

Il lavoro in un box di un testo di economia

Chi l’avrebbe mai detto che davvero funziona così, nella diplomazia politico-economica del continente? Leggendo il testo della missiva Draghi-Trichet al governo italiano (5 agosto), si rimane un po’ sorpresi dallo stile asciutto, “americano”, utilizzato dai due uomini della Bce. Sembra un box di un testo di economia, “La crisi: 2011, le richieste della Bce all’Italia”.

Un caso da manuale, nel vero senso del termine: fin troppo. Se non siamo al “Bruxelles consensus”, dopo quello di Washington, poco ci manca, e poco li differenzia, nonostante la pessima performance del secondo negli anni Novanta. Tutto si basa sulla fiducia degli investitori, che prevede un gioco ricorsivo tra i mercati finanziari, che sulle analisi delle istituzioni internazionali fondano le loro decisioni di investimento, e le istituzioni internazionali stesse, pronte a giustificare qualsiasi avanzata sulla strada dell’agenda integrazionistica con la necessità di ristabilire la fiducia dei mercati stessi.

Il solito mantra delle riforme strutturali, ma anche il pareggio di bilancio in costituzione (la rivincita, semmai ce ne fosse bisogno, dell’ultraliberismo); misure per la crescita, ma condite da ciò che con tutta probabilità le toglierà respiro: privatizzazioni, concorrenza, politiche dell’offerta ed “efficienza del mercato del lavoro”: “C’è… l’esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione”.

Risultato: auspicando la fine dell’orpello inutile della contrattazione collettiva, si procede (lettera di risposta del governo italiano) a: promuovere contratti di apprendistato, di rapporti a tempo parziale, naturalmente concedendo crediti d’imposta alle imprese; e a una riforma della legislazione del lavoro “funzionale alla maggiore propensione ad assumere e alle esigenze di efficienza dell’impresa”, “anche attraverso una nuova regolazione dei licenziamenti per motivi economici nei contratti di lavoro a tempo indeterminato”.

Licenziamento per crisi, insomma. Davvero basta il box di un libro di testo di economia per riformare la legislazione sul lavoro nel senso auspicato dalla Bce? Davvero le istituzioni europee intendono procedere su questa strada per implementare la tristemente nota strategia di Lisbona, ormai così lontana, nel tempo e nelle aspettative che aveva suscitato? Non abbiamo imparato nulla dalla lettura del bellissimo saggio di Luciano Gallino (foto a sinistra), Finanzcapitalismo (Einaudi 2011), che ci ricorda come, ai tempi della crisi, e di una politica ormai felice di causare quegli stessi danni cui poi le si chiede di rimediare, il lavoro sia ormai l’ultima delle preoccupazioni delle imprese “irresponsabili” e completamente finanziarizzate del nuovo millennio?

Anche per questo vorremmo invitare tutti i lettori del Fatto Quotidiano a un convegno che terremo a Torino, nei prossimi due giorni, sul lavoro in prospettiva europea: convegno che vedrà la partecipazione, tra gli altri, dello stesso Gallino, nonché dei sociologi Alain Ehrenberg e Alessandro Casiccia, ma anche di Antonio Di Pietro e Guy Verhofstadt, presidente del gruppo Alde al Parlamento europeo. Per parlare di lavoro, e in particolare della filosofia e della cultura del lavoro, per riportare il tema al centro della scena. A Torino, presso il Torino Youth Centre di Via Pallavicino 35.

lunedì 19 settembre 2011

Politica italiana, domande kantiane

Dal mio blog sul sito de Il Fatto quotidiano, 19 settembre 2011

Politica italiana, domande kantiane

Paradossale attualità delle tre grandi domande kantiane: che cosa posso sapere, che cosa devo fare, che cosa posso sperare. E urgenza di rovesciarne l’ordine, partendo magari da interventi come quelli di Bifo Berardi e di Ermanno Rea (Il Manifesto di giovedì 15 e domenica 18 settembre) e di Paolo Flores (Il Fatto quotidiano, domenica 18). Magari assumendosi la responsabilità di radicalizzarne le conclusioni. Possiamo sperare qualcosa da questo Parlamento? Flores non fa che riassumere ciò che tutti sappiamo e leggiamo continuamente da mesi nei nostri mitridatizzati giornali: questi parlamentari non sfiduceranno mai il loro capo banda, nel migliore dei casi perché temono fondatamente di non essere mai rieletti; e più spesso perché rischiano posti e prebende, e poi anche loro (come il loro signore e padrone) arresti, processi, sanzioni varie, non escluse vendette mafiose, una volta usciti dall’ombrello dell’immunità. Rivolgersi allora alla coscienza dei meno turpi tra gli esponenti della maggioranza? Ma come trovarli?

Ermanno Rea pensa (bontà sua) a Maurizio Lupi che sbandiera tutti i momenti la propria fede cattolica: la quale del resto, come si ricava dalla interpretazione che ne danno le supreme gerarchie vaticane, non osta a nessun compromesso con l’immoralità – dai costumi sessuali alle ruberie clientelari e fiscali. Persino la Gelmini e Mara Carfagna vengono nominate in questo appello accorato. Tutti costoro dovrebbero dimettersi, magari accompagnati da una buona parte dei parlamentari della inutile opposizione, creando le condizioni per la caduta del regime e lo scioglimento del Parlamento. Forse allora – ma non possiamo sperare nemmeno questo, temo – il presidente della Repubblica si deciderebbe a indire nuove elezioni.

Il più disperatamente lucido dei tre interventi citati è quello di Bifo. Quello che possiamo aspettarci, certo non sperare, è solo che la situazione peggiori continuamente nel futuro prossimo: magari con la sostituzione di Berlusconi da parte di un meno sputtanato fiduciario della finanza internazionale, che, sollecitato opportunamente dal capo dello Stato, applichi inflessibilmente la manovra e magari la rafforzi con altri giri di vite. Con la conseguenza di aumento di disoccupazione, disagio sociale intensificato, forse qualche sussulto di piazza che Maroni o chi per lui si incaricherà di reprimere – sul modello della Val di Susa e della lotta ai No Tav con i carri armati della Taurinense. Dovremo anche dare nuove prove della nostra lealtà atlantica (si veda La Stampa di domenica 18 settembre: secondo Riotta l’Atlantico si è allargato, bisogna restringerlo!), comprando altri caccia bombardieri per mandarli nelle “missioni di pace” della Nato (in Libia, 50.000 morti finora, non è ancora finita, del resto) e sbarrare l’ingresso dell’Onu ai Palestinesi, aspettando che Israele ne completi la sottomissione o lo sterminio (vera “soluzione finale” del problema).

Se non questo, che cosa? Il pudore democratico di Flores, e addirittura il pacifismo professato da Rea, escludono che si possa pensare a un esito diverso, e cioè che – pur non sapendo niente perché viviamo in regime di censura giornalistico-televisiva – si possa pensare a fare qualcosa che non siano i piagnistei di Bersani e Pd. Ma, sempre a proposito di speranza: non ci sarà la possibilità che i trecentomila fucili della feccia padana, magari al comando della Trota, comincino la guerra di secessione, obbligando la Nato a una missione di pace anche sul nostro territorio? Guerra (no: missione di pace) igiene del mondo? Non ce lo auguriamo, visti i risultati libici. Ma davvero, caro Kant, che cosa possiamo sperare?


Gianni Vattimo

sabato 27 agosto 2011

Gheddafi e i suoi ribelli

Dal mio blog sul sito de Il Fatto Quotidiano, 27 agosto 2011

Gheddafi e i suoi ribelli
La caduta di Gheddafi suscita pochi rimpianti in Italia. Certo, industriali e speculatori di borsa possono vedervi nuove opportunità di guadagno, e alcuni sionisti, più o meno fanatici, la potrebbero considerare anche una vittoria di Israele, quale in effetti è (immagino le critiche, mi vien da aggiungere; ma che dire della politica di potenza di Tel Aviv? Non è forse questa un’ennesima occasione per discuterne?). Ma negli ultimi anni, e sempre più, col passar del tempo, il carattere totalitario del suo governo in Libia aveva allontanato da lui ogni simpatia nata negli anni in cui si presentava come capo di una rivoluzione anti-imperialista. Un destino peraltro condiviso da molti capi di stato di paesi arabi rapidamente divenuti satelliti obbedienti dell’Occidente (anche qui, non sarebbe ora di svecchiare il nostro modo di guardare, e dunque stare, al mondo? Possibile che nemmeno oggi, dopo la fine del colonialismo e della guerra fredda, non sia questa la questione principale da porsi per i cittadini europei nelle relazioni internazionali?). In Italia, poi, era divenuto l’alleato naturale dei fascisti della Lega Nord (immagino ancora critiche; ma davvero esistono altri termini per definire la relativa politica leghista?) che lo utilizzavano, con tutto il governo Berlusconi, per reprimere l’immigrazione clandestina aprendo veri e propri lager sulla sponda meridionale del Mediterraneo.



Quindi, nessun rimpianto per Gheddafi e la sua dittatura. Ma proviamo certamente sdegno, anche vero e proprio disgusto per la politica della Nato e dell’Ue, nonché per  le bugie che ci propinano i giornali e le televisioni, quando (sempre) parlano di vittoria dei “ribelli“. Che sono quasi tutti ex collaboratori del regime di Gheddafi, armati e organizzati, molto prima delle “rivoluzioni arabe” dei mesi scorsi, da Francia e Gran Bretagna con l’approvazione degli Usa.

La Libia, del resto, era il paese più ricco dell’Africa mediterranea; l’opposizione al regime, se aveva qualche radice popolare, era ispirata da motivi etnici, per lo più, non era certo una rivolta di proletari affamati o anche di sinceri democratici assetati di libertà. La cosiddetta liberazione della Libia è solo l’ennesimo atto del colonialismo occidentale che usa la Nato come propria polizia privata per difendere gli interessi economici del grande capitale multinazionale. Sono forse gli interessi dei popoli europei frustati dalla crisi della finanza? Non lo sappiamo, ci sarà certo un po’ di lavoro in più per la cosiddetta ricostruzione (affidata poi alle ditte di Cheney, come in Iraq?). Le borse, come si sa, hanno reagito benissimo alla caduta di Gheddafi. Il senso di questa lotta “popolare” è tutto lì, e le tante vittime civili sono alla fine servite a far salire di qualche punto il valore delle azioni di tante compagnie. Alla salute della democrazia!

Gianni Vattimo

domenica 17 luglio 2011

Alta velocità, Chiomonte: dietro al recinto non c'è traccia del cantiere

Da Il Fatto quotidiano, 15 luglio 2011

L'eurodeputato Vattimo in visita al sito dove dovrebbe partire il cunicolo esplorativo della Torino-Lione: "Abbiamo constatato che i lavori non sono neanche iniziati"
di Stefano Caselli

Fino al 27 giugno la chiamavano “libera repubblica della Maddalena”. In quelle settimane, in cui il movimento No Tav prese possesso dell’area del futuro, primo cantiere della Torino-Lione, si gridò all’abdicazione dello Stato.

Era un’osservazione non del tutto impropria, tuttavia, tra quei pochi ettari di vigne e di bosco, si poteva camminare, con il solo incomodo di qualche tronco di ciliegio da scavalcare.

Oggi, a tre settimane dallo sgombero della “libera repubblica” e a dieci giorni dai pesanti scontri del 3 luglio, l’area è completamente off limits per tutti, stampa compresa, anche se i giornalisti sono stati invitati per la visita dell’europarlamentare Gianni Vattimo. Entra solo lui (non senza difficoltà) accompagnato da un membro della Comunità montana e da un paio di esponenti dei Comitati No Tav; gli altri, compresa una signora che da venti giorni non può lavorare nelle sue vigne, fuori.



All’imbocco della via dell’Avanà, dove i No Tav montarono la barricata “Stalingrado” che si sbriciolò come un grissino al primo colpo di ruspa, c’è ora un pesante cancello metallico con tanto di filo spinato, presidiato da carabinieri in mimetica. I locali della centrale elettrica, come quelli più a monte del museo archeologico della Maddalena, sono occupati dalle forze dell’ordine.

Alle 13, ora del cambio turno, si possono contare nove mezzi (di cui tre blindati) salire verso la zona del cantiere, sotto il viadotto della Ramat dell’autostrada Torino-Bardonecchia. Tra Carabinieri, Polizia e Guardia di Finanza erano in seicento subito dopo lo sgombero: “Ora – racconta un agente in borghese fuori dalla “zona rossa” mentre un elicottero militare sorvola la zona – siamo di meno, tre, quattrocento”. Sono settimane pesanti, anche per loro: “Noi abbiamo fatto il nostro mestiere – racconta – e lo abbiamo fatto bene, credo. Almeno rispetto al 2005 (scontri di Venaus, Ndr), per non parlare del 2001… Il problema è che non si può andare avanti così per molto. Basta che inizi il campionato di calcio, e qui rischiamo di smobilitare”. Pochi metri più in là un geometra di Almese sembra dargli ragione: “Noi non molliamo. Voglio vedere – dice indicando la stretta gola di fronte alla centrale elettrica – come faranno a far passare di qui il primo camion di terra. Ce ne vogliono migliaia. Che fanno? Li scortano uno a uno fino al Mocenisio (una delle probabili zone di smaltimento dello smarino, Ndr)?”.

Ma cosa difende questo imponente schieramento di forze? L’inizio dei lavori del Tav Torino-Lione? No di certo. Il cunicolo della Maddalena è un semplice tunnel esplorativo per sondare il ventre della montagna. I lavori portati finora a termine, oltre alla discenderia provvisoria dal viadotto dell’A32, sono soltanto quelli di recinzione dell’area sottoposta a ordinanza prefettizia, lavori realizzati dalla Italcoge e dalla Martina, due imprese locai della Valle, una della quali (la Italcoge di Susa), inciampata negli anni scorsi in qualche procedimento giudiziario. Della Cmc di Ravenna, che ha vinto l’appalto per scavare il tunnel, non c’è ancora traccia: “Secondo me non arriveranno mai”, ghigna il geometra di Almese.

Del “cantiere fantasma” parla Gianni Vattimo dopo un’ora di visita guidata: “Abbiamo constatato una cosa molto semplice – racconta il filosofo europarlamentare – che il cantiere semplicemente non c’è. O almeno, non ci sono le condizioni per cui il fondo europeo a favore di Ltf (Lyon-Turin Ferroviaire, l’impresa incaricata della progettazione, Ndr) è stato sbloccato: l’unico lavoro realizzato è la recinzione della zona, oltre a qualche lavorino stradale per l’accesso alla Maddalena, ma nell’area dello scavo non c’è un bel niente”. “E non possono fare nulla – giura un esponente della Comunità montana – perché nella zona dove dovrebbe materialmente partire il tunnel (non compresa nel territorio requisito dal prefetto, Ndr) gli espropri temporanei non sono neanche stati avviati. Ci vorrà tempo”.

Il Tar del Lazio, intanto, ha respinto il primo dei ricorsi della Comunità montana contro la legittimità del cantiere; ce ne saranno altri.

Sembra risolto, invece, il “giallo” della commissione Via. I deputati torinesi Stefano Esposito (Pd) e Agostino Ghiglia (Pdl) erano saltati sulla sedia mercoledì nell’apprendere che la commissione incaricata di fornire la valutazione d’impatto ambientale (Via) entro il 31 luglio, era scaduta e vacante. Ventiquattrore di panico per i finanziamenti europei, poi la soluzione: la proroga della Commisione Via è stata inserita in un emendamento alla Manovra finanziaria.

sabato 9 luglio 2011

Salviamo l'Indice


Salviamo l’Indice
Dal mio blog sul sito de Il Fatto quotidiano, 9 luglio 2011

Ne ha parlato recentemente il Corriere della Sera (ad esempio in questo articolo), e se ne parla su Facebook e vari blog. Aggiungo allora il mio personale appello, qui su Il Fatto quotidiano, sperando di raggiungere altri lettori. Lettori in tutti i sensi: lettori del Fatto e di questo blog, ma soprattutto i lettori – pochi o tanti che siano, nel paese (sempre più stanco) di B. – di quello strano oggetto, il libro, che sembra richiamare, anche se non per derivazione etimologica, il concetto di libertà. “L’Indice dei libri del mese”, storica rivista oggi diretta da Mimmo Candito, fondata nel 1984 da un gruppo di intellettuali in buona parte torinesi (Cesare Cases, Gian Giacomo Migone, Gian Luigi Beccarla, Diego Marconi, Tullio Regge, Marco Revelli, Lore Terracini, solo per citarne alcuni), rischia di scomparire sotto il peso dei debiti accumulati negli anni (e in particolare in quelli più recenti, a causa del sempre più scarso appeal della pubblicità su riviste cartacee e dell’aumento dei costi di produzione, ma anche della selvaggia politica culturale del governo di B., che consente a Tremonti di tagliare a più non posso i finanziamenti all’editoria). Un patrimonio di 37.500 recensioni scritte dalle migliori firme del panorama intellettuale italiano (Bobbio, Magris, Foa, Sanguineti, Galante Garrone, e così via) meriterebbe ben altro destino.

Le pagine di presentazione della rivista che compaiono sul suo sito, così come quella fornita da Wikipedia, sottolineano giustamente l’importante ruolo culturale svolto negli anni dall’Indice, che ha avuto l’indubbio merito di resistere al progressivo svuotamento del mestiere e della funzione sociale del recensore nella società mediatica (e da ultimo, di internet), continuando a proporre saggi di qualità elevata, concepiti con l’intento di fornire un vero e proprio servizio culturale, e con la speranza di contribuire al dibattito politico (nel senso alto del termine) di una società difficile come quella italiana. Già, ma se l’Indice è oggi in difficoltà, non sarà per colpa (merito) dei tanti supplementi culturali dei tanti quotidiani italiani, che offrono ormai gratuitamente un veloce sguardo (rapidissimo, e cioè al passo – settimanale – coi tempi; e, ahimè, spesso pubblicitario, anche perché suggestionato dalle vendite di narrativa e saggistica) sulle novità in libreria? Non sarà per colpa (merito) di internet, che autorizza a cercarsi da sé il libro prescelto, magari avendo spulciato qualche nota di lettura sui blog? Non sarà perché il tono spesso accademico (che però assicura quantomeno l’accuratezza di giudizio) dell’Indice si scontra con una società che dell’accademia non sa che farsene, e anzi tenta di restringerne gli spazi ogni volta che può?

Se (se) l’Indice non serve più, è forse perché non ha mai servito alcuno e alcunché, al punto da rimanere, proprio per questo, un po’ indietro coi tempi: e tuttavia è bello poter leggere una rivista che si occupa di tutti i settori, senza seguire le mode culturali; una rivista i cui numeri durano effettivamente un mese, anziché una settimana, un giorno o un veloce passaggio di occhi sullo schermo; una rivista che, mantenendo uno standard elevato, costringe il lettore a scelte ragionate su ciò che leggerà e a ritornare su ciò che ha letto. Certo, l’adeguamento coi tempi è comunque, in una certa misura, necessario, come riconoscono gli animatori della rivista; e sarebbe però importante concedere all’Indice (più di) una chances di adeguarsi. Personalmente, spero che al mio contributo finanziario e di riflessione se ne aggiungano tanti altri (il sito della rivista spiega come sostenerla). Il tanto auspicato risveglio della società civile nell’era del berlusconismo sguaiato, che della semplificazione culturale ha fatto la sua bandiera, passa anche per iniziative di questo tipo; chi volesse passarle in rassegna, cominci pure dall’Indice.

Gianni Vattimo

giovedì 21 aprile 2011

La nuova PidUE

Un post dal mio blog su Il Fatto quotidiano, 20 aprile 2011

La nuova PidUE

Il 30 marzo 2011 presentavo, insieme con Sonia Alfano e alcuni colleghi dell’Alde, un’interrogazione parlamentare alla Commissione europea e al Consiglio dei ministri in merito alla revisione della costituzione presentata al parlamento ungherese dal premier Viktor Orban. In particolare, chiedevamo ai due organi se a loro parere il testo della carta dovesse essere considerato come portatore di un deciso contrasto con il trattato dell’Unione europea. La nuova costituzione, approvata l’altro ieri con la maggioranza dei due terzi dell’aula (e scarso rispetto, sostengono le opposizioni – quella di sinistra si è polemicamente allontanata dall’aula stessa –, delle procedure di consultazione), esalta “un’idea di unità nazionale dell’Ungheria”, fondata sui valori del Cristianesimo e sul ruolo di quest’ultimo nel preservare appunto la nazionalità ungherese; limita fortemente i poteri della Corte costituzionale e modifica il mandato dei suoi membri (così come dei presidente della Corte dei conti e del governatore della banca centrale); potenzia il controllo governativo sui media e sulla magistratura; riduce il concetto di famiglia in modo tale da escludere ogni riferimento alle famiglie monoparentali, alle coppie conviventi e dello stesso sesso; vieta la discriminazione, ma non per motivi di orientamento sessuale, età e caratteristiche genetiche; chiede che “la vita del feto” sia tutelata fin dal concepimento; estende il diritto di voto ai minori o alle loro madri, così come agli Ungheresi che risiedono all’estero (ciò che ovviamente preoccupa le nazioni confinanti).

“Dio, patria e famiglia”, riassumono correttamente i principali organi di stampa. Un episodio agghiacciante di quella che appariva, fino a poco fa, come la storia quasi conclusa dell’Unione europea, ormai ridotta a inseguire obiettivi stabiliti troppi anni fa, percorsa come sempre da divisioni interne che sembrano però sempre più difficili da neutralizzare, ancora vittima dei divergenti interessi nazionali in materia di politica estera, e dell’ormai scontata subalternità nei confronti delle potenze emerse (gli Stati Uniti) ed emergenti (Cina, Bric, ecc.). Curiosamente, tuttavia, l’episodio ungherese ristabilisce l’attualità (troppo facilmente venuta meno) delle osservazioni di Asor Rosa a proposito del caso italiano. Come notano alcuni quotidiani (La Repubblica, ad esempio), l’Europa intervenne con decisione ai tempi di Haider (la cui colpa era più semplicemente quella di essere stato eletto), ma è prevedibile che stenti a farlo oggi con l’Ungheria. Difficile intervenire, in generale, quando una democrazia decide, (più o meno) democraticamente, di limitare la democrazia stessa. Ancora più difficile è farlo quando l’ente sovranazionale europeo è debole, e tale si presenta agli occhi di cittadini ai quali il sogno europeo dice ormai troppo poco.

Soprattutto, però, quello che ci preoccupa è che il caso ungherese prefigura, mutatis mutandis, il futuro (che è però già tra noi) del caso italiano. È utile ricordare che il nostro presidente del Consiglio è stato un membro della P2, così come il capogruppo alla Camera (l’innominabile Cicchitto) del suo partito; e che il Piano di rinascita democratica di Licio Gelli (si veda la lucida analisi compiuta da Marco Travaglio dei progressi attuativi del piano stesso a opera dei vari governi di B. dal 1994 a oggi, che contiene precise indicazioni delle volontà politiche dell’esecutivo italiano). Si noti poi la somiglianza tra i nuovi dettami della costituzione ungherese e i pilastri del Piano stesso; e la convergenza tra i valori ispiratori della carta di Budapest e i nuovi slogan dell’invadente B., che vorrebbe sottrarre i giovani ai professori di sinistra per restaurare i valori della famiglia. Se un tempo l’Europa era il futuro dei paesi europei ex comunisti, oggi questi ultimi potrebbero essere il futuro di non pochi paesi europei (si ricordi la Finlandia), nei quali la democrazia si ribella a se stessa ma in nome del fantomatico sostegno degli elettori, non a caso sbandierato dal regime italiano ogniqualvolta lo si critichi. A quando l’istituzione di un nuovo ministero per l’attuazione del Piano anziché del Programma? Nel frattempo, si studi bene la nuova costituzione ungherese; tanto vale prepararsi. E, soprattutto, si cominci seriamente a riflettere sul da farsi: in fondo, con buona pace dei tanti che l’hanno demolito, quello di Asor Rosa non è che un tentativo di ripensare gli anticorpi (mai come ora la metafora è calzante) che la democrazia dovrebbe possedere contro la sua stessa degenerazione.

Gianni Vattimo

domenica 17 aprile 2011

Piazza, fascismo, par condicio


Un post dal mio blog sul sito de Il Fatto quotidiano, 16 aprile 2011

Piazza, fascismo, par condicio


I custodi della democrazia parlamentare (non parlo ovviamente di Giuliano Ferrara) che si sono scandalizzati dell’articolo di Asor Rosa sul Manifesto del 13 aprile hanno forse letto meno attentamente un articolo di Juergen Habermas uscito su La Repubblica dello stesso giorno. Le considerazioni di Habermas, meno esplicitamente riferite alla situazione italiana, erano però le stesse di Asor Rosa: prendevano atto (citando persino il New York Times) della crisi irreversibile del sistema democratico parlamentare in cui viviamo noi del “mondo libero”, e tematizzava la dissoluzione sempre più marcata di ogni politica degna di questo nome. Secondo Habermas, solo (forse) l’ideale dell’unità europea, praticato seriamente, potrebbe ancora fornire contenuti significativi per i quali impegnarsi come cittadini. In considerazione di questo, l’articolo concludeva con la tesi che “forse per i partiti politici sarebbe ora di rimboccarsi le maniche” (ahi, ha letto Bersani?) e “scendere in piazza per l’unificazione europea”.

Ciò che colpisce, in un pensatore “moderno” e istituzionalista come Habermas, è proprio l’allusione alla piazza. Proprio un razionalista illuminista come lui, da sempre persuaso che si possa fondare una politica democratica sul dialogo e, in definitiva, le istituzioni (parlamenti, Onu, ecc.), chiamare i partiti a scendere in piazza è un segno che la speranza (o la pazienza) sta venendo meno. Non c’è da aspettarsi che la politica ritrovi un contenuto e un volto decente, capace di non defraudare i cittadini dei loro diritti, se si guarda solo ai parlamenti e alle istituzioni. Asor Rosa, nel suo articolo, è più habermasiano di lui: non invoca la piazza (forse per la semplice ragione che, come l’esperienza italiana insegna, la piazza non ce la fa; Berlusconi resiste perché ha “servi di acciaio” che occupano il parlamento), ma chiede l’intervento costituzionale delle forze dell’ordine: Carabinieri, Polizia, Guardia di Finanza.

Il capo delle forze armate è il Presidente della Repubblica, che è anche il custode della Costituzione. Come ha il potere, uditi i presidenti delle Camere e del Consiglio (ma non ci sarebbe un ennesimo conflitto di interessi, nel caso del cavaliere? Lo “oda” pure, ma non gli dia retta!), di sciogliere il Parlamento e indire nuove elezioni, così (se leggiamo bene la Costituzione) può decretare lo stato di emergenza e ordinare alle forze dell’ordine di difendere, per l’appunto, l’ordine democratico. Gli esempi che Asor Rosa adduce sono dei più convincenti: sarebbe stato golpe se Vittorio Emanuele III avesse schierato l’esercito contro le milizie fasciste in marcia su Roma, e avesse rifiutato di affidare il governo a Mussolini? Possiamo allora chiedergli di aspettare che il pericolo fascista – anche solo della corruzione dilagante, del trionfo del potere mafioso su cui si regge Berlusconi – diventi più evidente e cioè, ormai, incontrastabile?

Asor Rosa, nell’intervista a La Repubblica (del 14 aprile, ndr), sembra volersi limitare alla messa in luce di una questione di metodo: se la maggioranza parlamentare – di cui sappiamo come è stata reclutata, e persino a che prezzi – calpesta la Costituzione e si rifiuta di essere giudicata dalle autorità competenti, che cosa bisogna fare? Difendere l’ordine democratico con le forze dell’ordine è appunto quel che si deve fare. Se no, di grazia, che cosa? Se Hitler, sia con l’uso dei media di cui illegalmente dispone, sia comprando i voti, o semplicemente perché una maggioranza di cittadini lo preferiscono, vince le elezioni, lo stato democratico non ha mezzi per difendersi? Può una tornata elettorale ordinaria valere come base di legittimità per il cambio della Costituzione? La banda di gangster che oggi occupa il governo dispone, oltre tutto, di una maggioranza estremamente esigua, e con le leggi che approva sta di fatto stravolgendo la Costituzione. Non è ora per il Capo dello Stato di intervenire? Fermi con la forza legale di cui dispone questa inedita marcia (anche nel senso di marciume!) su Roma. Prima che sia troppo tardi. O la sua inerzia significa che, appunto, troppo tardi è già?

Post-scriptum (post-post?)

Forse il mio, ma anche quello di Asor Rosa e Habermas, è solo un problema di salute: s’invecchia, e si diventa insofferenti. Sta di fatto, però, che poco fa ho rifiutato l’ennesimo invito di una televisione privata in cui ho anche degli amici, che mi chiedeva di partecipare a una trasmissione in cui avrei dovuto misurarmi anche con la Santanché. E, cosa ancora più grave, ieri sera sono scappato, subito dopo l’inizio, da Annozero per vedere un film. La parte della Santanché lì era esercitata da Cota. Non faccio queste confessioni per mettere in piazza i miei stati d’animo o di stomaco, ma per chiedere ai non pochi con cui condivido orientamento politico e esili speranze di futuro se non sia il caso di mettersi in sciopero del “dialogo”, in una sorta di Aventino civico che consista nel rifiutare di scendere troppo in basso, per rispetto della dignità e della, sia pur limitata, intelligenza di cui ancora ci sembra di disporre. Se per sentire dire da Santoro alcune verità sullo stato del Paese dobbiamo ascoltare anche – democraticamente – le autentiche turpitudini di figure e figuri come la Santanché, Cota, o persino di quel brav’uomo di Paniz, allora meglio il silenzio, svegliateci quando sarà passata la nuttata, oppure quando verranno ad arrestarci per vilipendio della par condicio.

Par condicio con i banditi, i bugiardi, i credenti nella relazione di parentela di Ruby con Mubarak, i venduti a un tanto al chilo (posti di sottosegretario, o anche solo mutui da pagare…)? Preferiamo riconoscere francamente che il fascismo c’è già; non possiamo sparare, per ora (come dicono Castelli e Speroni), ma almeno siamo coscienti che lì, prima o poi, ci porteranno questi affaristi e delinquenti che occupano il governo del paese in violazione di ogni elementare diritto umano. E l’Europa, che pure ha decretato sanzioni contro l’Austria quando in Carinzia aveva vinto le elezioni il “fascista” Haider, buonanima, tace sullo scempio della democrazia in Italia? Altro che aiuto sull’immigrazione, qui ci sarebbero gli estremi per un intervento armato della Nato… Paradossi, paradossi – come quelli che, secondo la timorata direttrice del Manifesto, sarebbero il vero senso dell’intervento di Asor Rosa, che così risulta solo un’ennesima chiacchiera da “dibattito” in regime di par condicio… Quando ci accorgeremo che l’Italia è (ri)diventata un paese fascista sarà troppo tardi. Magari ci verranno conservati i dibattiti televisivi con la Santanché, finché i nostri stomaci resisteranno…

martedì 5 aprile 2011

Libia o un viejo mundo en guerra

Libia o un viejo mundo en guerra

“¿No sería hora de dejar de usar a la ONU como pantalla? ¿Qué legitimidad puede derivar de ella hoy?”, se pregunta el filósofo italiano, para quien la crisis de Libia exhibe el sometimiento de la política a la economía.

Escribir algo sensato sobre la guerra en Libia es difícil. Y es difícil escribir algo sensato en general sobre guerras como ésta, ahora más que nunca. Se podía quizás en vísperas de las primeras intervenciones militares posteriores a la Guerra Fría, Irak, etcétera. Pero ahora, con la carga de esas experiencias, no podemos hacer otra cosa que leer y releer el artículo de Massimo Fini, publicado por el Fatto Quotidiano (ilfattoquotidiano.it) y retomado por MicroMega, y estar sustancialmente de acuerdo con él.

Estamos en guerra, con la bendición (justamente...) de la ONU, del presidente napolitano y de todos los intervencionistas humanitarios. Y a toda velocidad, con una facilidad desarmante (la guerra se apodera también del vocabulario) nos deslizamos en ella sin darnos cuenta. A tal punto que, pensándolo bien, los resultados reales que obtendremos son los señalados por Fini: crearemos un precedente sin precedentes, justamente, el de una intervención dentro del ámbito reservado de un Estado que no invadió a ningún vecino, pero cuyo poder central se rebela contra la rebelión de una parte del país que nunca asimiló la unidad. Reavivaremos el terrorismo, feliz con la evolución de la crisis, legitimando por otra parte cualquier venganza libia. Protegeremos nuestros intereses, haciéndonos como de costumbre portadores de un ideal de democracia que es tal, precisamente, porque nos queda cómodo, es más, nos permite hacer lo que se nos da la gana cómodamente.

Intervenimos con fines humanitarios, contentos de no haber sido cuestionados por Egipto –actuar contra Mubarak habría sido francamente demasiado, para Estados Unidos y los numerosos proveedores del tirano– pero conscientes de la imposibilidad de ver pasar los cadáveres sobre las orillas –las playas– libias. Si el pueblo se arregla solo, exultamos. De lo contrario, intervenimos. Imponiendo en los dos casos –porque siempre es posible después lamentarnos del peligro del extremismo islámico– la norma democrática occidental como regla del “ Brave New World ”.

El problema principal, como ocurre siempre en estos casos, es que habrá que esperar para saber qué deberíamos haber hecho. Tendríamos que haber aplaudido cuando Vietnam invadió la Camboya de Pol Pot, y en cambio, en esos tiempos, nos escandalizamos por la primera guerra entre dos países comunistas.

Tendríamos que haber detenido la masacre en Ruanda, y seguramente tendríamos que haber intervenido para frenar la guerra en Yugoslavia. Pero habríamos podido (debido) actuar antes, no después: tendríamos que haber discutido públicamente, como Europa, en vez de limitarnos a observar atónitos, el inmediato reconocimiento por parte de Alemania y los países europeos, de las reivindicaciones nacionales de Eslovenia y compañía.

Tal vez habríamos comprendido que la adopción de una estrategia pura de interés personal económico produce consecuencias no deseadas, y no sólo la feliz mano invisible smithiana, sino también el fortalecimiento de nacionalistas estilo Milosevic.

Pero aquí y ahora (en Libia) ¿qué hacer? Protestar, sobre todo, por el sometimiento exagerado de la política internacional a los intereses económicos: donde estos intereses no existen, el problema de los derechos humanos no se plantea. Indignarnos por la cómoda excusa, la de los derechos humanos (que lamentablemente, aun cuando se la emplea de buena fe, sigue siendo un pretexto en la Realpolitik internacional), utilizada para bombardear un país –perdón, para salvaguardar una “zona de exclusión”– y no simplemente para bloquear, y en rigor incluso deponer, a un tirano.

Avergonzarnos por el espectáculo obsceno de la diplomacia internacional –el aterrador Sarkozy y el arribista Cameron; la OTAN invocada por quienes la forman pero no la dirigen, porque quien la dirige tiene miedo de los efectos que provocaría la bandera; la nuestra, incalificable, cruza de profesor de esquí y cantante de crucero; la formación de la santa alianza anti-BRIC (Brasil, Rusia, China, India) y, como recordaba Paolo Ferrero, incluso la inserción de un verdadero y auténtico campeón de la democracia, Qatar, en el grupo de los cruzados.

En resumidas cuentas: ¿No sería hora de dejar de usar a Naciones Unidas como pantalla? ¿Qué legitimidad puede derivar de la ONU, hoy? De un acuerdo aprobado en 1945, que asigna explícitamente a las potencias vencedoras de una guerra mundial el deber de mantener la paz, y que como tal nunca funcionó (la paz fue asegurada por el régimen de terror frío dirigido por las dos superpotencias, y cuando éste acabó, la ONU terminó autorizando guerras que no podían contar con el consenso de la parte derrotada, la Rusia post-soviética).

El Consejo de Seguridad es un órgano no democrático y, lisa y llanamente, vetusto. Una Europa iluminada debería preocuparse sobre todo por rediscutir los organismos de cooperación internacional con los países BRIC. Entonces sí, podremos preguntarnos legítimamente qué hacer con Libia y su régimen. No tener una guerra mundial y sus vencedores sobre las espaldas puede ser una debilidad, pero también una fuerza, si se aprovecha para crear una institución que realmente sea supranacional, que pueda velar (un poco más) por el interés general.

En cualquier caso, la cuestión es urgente. Las tecnologías envejecen, como enseña Fukushima. Todo nuestro mundo es demasiado viejo: es viejo el FMI, es vieja Europa, es vieja la ONU. Y, en la próxima crisis, los BRIC no se quedarán mirando.

Gianni Vattimo

(c) MicroMega y Clarin, 2011. Traduccion de Cristina Sardoy.

domenica 27 marzo 2011

Un mondo vecchio in guerra


Articolo postato sul mio blog de Il Fatto quotidiano.

Un mondo vecchio in guerra

Scrivere qualcosa di sensato sulla guerra in Libia è difficile. Ed è difficile scrivere qualcosa di sensato in generale su guerre come questa, ora più che mai. Lo si poteva forse fare alla vigilia dei primi interventi militari post-guerra fredda, Iraq e seguenti. Ma ora, appesantiti da queste esperienze, non possiamo che leggere e rileggere l’articolo di Massimo Fini, pubblicato dal Fatto Quotidiano e ripreso da MicroMega, e trovarci sostanzialmente d’accordo con lui.

Siamo in guerra, con buona pace (appunto…) dell’Onu, del presidente Napolitano e di tutti gli interventisti umanitari. E lo siamo in tutta rapidità, con una facilità disarmante (la guerra s’impadronisce anche del lessico), ci siamo scivolati dentro senza accorgercene. Tanto che, a ben guardare, i veri risultati che otterremo sono proprio quelli indicati da Fini: creeremo un precedente senza precedenti, appunto, quello di un intervento nel dominio riservato di uno stato che non ha invaso alcun vicino, ma il cui potere centrale si ribella alla ribellione di una parte del paese che non ha mai digerito l’unità. Ravviveremo il terrorismo, ben felice dell’evoluzione della crisi, legittimando per altro qualsiasi ritorsione libica. Proteggeremo i nostri interessi, facendoci come al solito portatori di un’ideale di democrazia che è tale proprio perché ci fa comodo, anzi ci permette di fare i nostri comodi.

Interveniamo per fini umanitari, contenti di non essere stati chiamati in causa per l’Egitto – agire contro Mubarak sarebbe stato francamente troppo, per gli Stati Uniti e i tanti foraggiatori del tiranno – ma consapevoli dell’impossibilità di veder passare i cadaveri sulle rive – sulle spiagge – libiche. Se il popolo ce la fa da solo, esultiamo. Altrimenti, interveniamo. Imponendo, in entrambi i casi – perché è sempre possibile, dopo, lamentarsi del pericolo dell’estremismo islamico –, lo standard democratico occidentale come regola del brave new world.

Il problema principale, come sempre in questi casi, è che bisognerà attendere per sapere che cosa avremmo dovuto fare. Avremmo dovuto applaudire l’invasione della Cambogia polpottiana da parte del Viet Nam, e invece, ai tempi, ci scandalizzammo per la prima guerra tra due paesi comunisti. Avremmo dovuto fermare il massacro in Rwanda, e sicuramente avremmo dovuto intervenire per fermare la guerra in Jugoslavia. Ma avremmo potuto (dovuto) agire prima, non dopo: avremmo dovuto discutere pubblicamente, come Europa, anziché limitarci a osservare attoniti, l’immediato riconoscimento, da parte della Germania e dei paesi europei, delle rivendicazioni nazionali di Slovenia e compagni. Avremmo forse capito che l’adozione di una strategia pura di economic self-interest produce conseguenze non desiderate, e non solo la felice mano invisibile smithiana, ma anche l’irrobustimento di nazionalisti alla Milosevic.

Ma ora e qui (in Libia), che fare? Protestare, innanzitutto, per lo smaccato asservimento della politica internazionale agli interessi economici: laddove questi interessi non esistono, il problema dei diritti umani non si pone. Indignarsi per il comodo pretesto, quello dei diritti umani (che purtroppo, anche quando lo si impiega in buona fede, resta un pretesto nella realpolitik internazionale), utilizzato per bombardare un paese – pardon, per salvaguardare una “no-fly zone” – e non semplicemente per bloccare, e al limite persino deporre, un tiranno. Vergognarsi per l’osceno spettacolo della diplomazia internazionale – il terrificante Sarkozy e l’arrivista Cameron; la Nato invocata da chi ne fa parte ma non la comanda, perché chi la comanda ha paura degli effetti che il vessillo provocherebbe; la nostra, inqualificabile, accoppiata tra maestro di sci e cantante da crociera; la formazione della santa alleanza anti-Bric (Brasile, Russia, Cina, India) e, come ricordava Paolo Ferrero, persino l’inserimento di un vero e proprio campione della democrazia, il Qatar, nel gruppo dei crociati.

A dirla tutta: non sarebbe ora di smetterla di usare le Nazioni Unite come paravento? Quale legittimità può ormai derivare all’Onu, oggi, da un accordo approvato nel 1945, che assegna esplicitamente alle potenze vincitrici di una guerra mondiale il compito di mantenere la pace, e che come tale non ha mai funzionato (la pace fu assicurata dal regime di terrore freddo retto dalle due superpotenze, e quando questo venne meno, l’Onu finì per autorizzare guerre che non potevano contare sul consenso della parte sconfitta, la Russia post-sovietica). Il Consiglio di Sicurezza è un organo non democratico e, più semplicemente, vetusto. Un’Europa illuminata dovrebbe preoccuparsi innanzitutto di ridiscutere gli organismi di cooperazione internazionale con i paesi Bric. Allora sì, potremo chiederci legittimamente cosa fare con la Libia e il suo regime. Non avere una guerra mondiale e i suoi vincitori alle spalle può essere una debolezza, ma anche una forza, se sfruttata per creare un’istituzione che sia realmente sovranazionale, che possa guardare (un po’ più) all’interesse generale. In ogni caso, la questione si pone con urgenza. Le tecnologie invecchiano, come Fukushima insegna. Tutto il nostro mondo è troppo vecchio: è vecchio l’Fmi, è vecchia l’Europa, è vecchia l’Onu. E, alla prossima crisi, i Bric non staranno a guardare.