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venerdì 14 dicembre 2012

Gianni Vattimo: “La realidad es una hipótesis todavía no desmentida”

El filósofo italiano brindó una conferencia en el Aula Tanque del Campus Miguelete. Participaron autoridades, profesores y estudiantes de la Universidad Nacional de San Martin (UNSAM), Buenos Aires.

“Los hechos no hablan por sí mismos; la realidad es una operación”. Con frases como estas fue que Gianni Vattimo marcó la dirección de la discusión de la que participaron Enrique Corti, decano de la Escuela de Humanidades; Guillermo Schweinheim, de la Escuela de Política y Gobierno; Ricardo Ibarlucía, del Instituto de Investigaciones sobre el Patrimonio Cultural; y Arnold Spitta, del Programa de Estudios Alemanes y Europeos, entre otros.

Con citas y menciones de Aristóteles, Heidegger, Nietzsche, Kant y Lacan, el profesor italiano habló sobre su postura respecto de la realidad, la política, la crisis europea, el comunismo, la iglesia, los vampiros, las brujas y la moral. 
 

martedì 17 luglio 2012

È Topolino il filosofo del relativismo

I limiti delle posizioni contrapposte di Ferraris e Vattimo sul pensiero postmoderno
Modellare il reale in forme diverse non è un peccato bensì un dovere della ragione
 
Giulio Giorello, Il Corriere della Sera, 24 giugno 2012
 
Giulio Giorello
Come è morto Ramsete II? Di tubercolosi, dicono gli esperti delle varie discipline che scandagliano il pozzo del passato. Niente affatto, ribatteva il «sociologo della conoscenza» Bruno Latour circa una decina di anni fa: il bacillo responsabile di quella malattia (Mycobacterium tubercolosis) è stato scoperto solo nel 1882 da Robert Koch. Maurizio Ferraris, nel recentissimo Manifesto del nuovo realismo (Laterza), commenta sarcasticamente che «se la nascita della malattia coincidesse con la sua scoperta, si dovrebbero sospendere immediatamente tutte le ricerche mediche, perché di malattie ne abbiamo più che a sufficienza». Ma il bacillo di Koch uccideva prima e può continuare a uccidere anche dopo che è stato individuato, proprio come, indipendentemente dalla consapevolezza dei chimici che l’acqua è un composto di idrogeno e di ossigeno, questa sostanza comunque bagna «e io non potrò asciugarmi — ci dice ancora Ferraris — con il solo pensiero che l’idrogeno e l’ossigeno in quanto tali non sono bagnati».
 
Questa è la tesi del Manifesto: «Non si può fare a meno del reale, del suo starci di fronte. Se c’è il sole, la sua luce è accecante; se la lasciamo troppo sul fuoco, la caffettiera scotta. Non c’è alcuna interpretazione da opporre a questi fatti: le uniche alternative sono gli occhiali da sole e le presine». Insomma, la realtà con cui facciamo i conti, sia nell’impresa tecnico-scientifica sia nell’esistenza quotidiana, è una sorta di «reale che non ha voglia di svaporare in reality».
 
Un grido di dolore non meno accorato si leva da un altro odierno manifesto, Democrazia! (con tanto di punto esclamativo), per la penna di Paolo Flores d’Arcais (Add editore). Solo se manteniamo lo scarto tra cose e parole, possiamo smascherare l’«alchimia» creata dalla propaganda: «La lotta politica per la democrazia e la lotta filologica per il significato della parola sono terreni diversi dello stesso scontro», dichiara Flores, che teme l’arroganza di qualsiasi Grande Fratello. Né vale ribattere che «non ci sono fatti, ma solo interpretazioni», almeno quando si ha a che fare con l’acqua che bagna o con i bacilli che minacciano la nostra salute… Ma che dire quando in gioco sono espressioni come buon governo, virtù politica o democrazia?
 
Per difendere il nostro patrimonio di significati c’è davvero bisogno di un’idea «forte» di verità? Per esempio, occorreva già qualcosa del genere per opporsi ai totalitarismi del Novecento o ce n’è urgenza oggi contro i vari dittatorelli del Medio Oriente, o contro l’ancor più subdolo dispotismo di democrazie in via di avanzata decomposizione? Non basterebbe la tenace volontà di non cedere mai, ovvero la decisione di resistere a qualunque potere che si spaccia per irresistibile?

La questione non è puramente accademica. Un conto sono le verità di «puro buon senso», come direbbe il Kit Carson amico di Tex Willer, o le stesse affermazioni della scienza, un conto la Verità (con la maiuscola), quella invocata, per esempio, da tutti coloro che si sentono assolutamente convinti del «fatto» che Dio starebbe dalla loro parte. Non potrebbero emergere così forme di dominio ancor peggiori di quelle che in nome della fede si vorrebbero abbattere?
Proprio per questo Gianni Vattimo non risparmia le varie manifestazioni di «nevrosi fondamentalista che percorre la società tardo-industriale», tra le quali include il realismo filosofico, che per lui è solo una «possibile ideologia della maggioranza silenziosa», come scrive nel suo Della realtà (Garzanti).
 
 La disputa, non solo italiana, finisce con l’investire i territori elusivi della politica e dell’etica. Per questo essa non si riduce a mere contrapposizioni personali. Il «nuovo realista — precisa Ferraris — non si limita a dire che la realtà esiste», ma insiste sulla tesi che «non è vero che essere e sapere si equivalgono». Il suo avversario potrebbe ricorrere, a questo punto, a Paul Feyerabend (un pensatore che Vattimo ben conosce), piuttosto che ai soliti numi del postmoderno, come Lyotard o Baudrillard, per i quali il reale si sarebbe ormai dissipato come fumo virtuale. Invece, è proprio il realismo che porta acqua alla tesi per cui nell’avventura umana — e non solo nella dinamica della conoscenza scientifica — emergono schemi di pensiero «incommensurabili», in cui cose e parole variano radicalmente di significato. Noi definiamo, infatti, il valore di qualsiasi oggetto dal suo uso, e la portata di un concetto o di un nome dall’impiego linguistico che ne facciamo. Feyerabend l’ha mostrato trattando di come la nuova scienza della natura di Galileo spazzò via l’opposizione degli aristotelici o di come la «sovversiva» fisica quantistica mandò in pezzi la costellazione dei pregiudizi dei fisici più legati alla tradizione. Ma è anche stato estremamente abile nello sfruttare il patrimonio di esperienze e informazioni che ci vengono dal lavoro degli antropologi.
 
Qui in poche righe non possiamo addentrarci nei dettagli. Ci limitiamo allora all’apologo narrato da Merrill de Maris (sceneggiatura) e Floyd Gottfredson (soggetto e matite) per la Walt Disney, Il selvaggio Giovedì (1940) — che il lettore del «Corriere» ha avuto modo di apprezzare negli allegati «Gli anni d’oro di Topolino» (2010). In breve, i nervi del nostro Topo sono messi a dura prova da Giovedì, capitatogli in casa per sconvolgere l’uso abituale di cose e termini. Così, il preteso «selvaggio» scambia la pelliccia leopardata di una superba dama per l’animale vero e proprio e non esita a colpire con la sua lancia le prosperose natiche della signora. Per non dire che impiega vetri, penne, matite, ciabatte, eccetera in modi nuovi ma a lui perfettamente funzionali.
 
 In questo modo, la lancia di pietra del selvaggio Giovedì non solo mostra quanto convenzionali e fragili siano alcuni dei nostri più consolidati valori, ma manda in pezzi… anche le tesi opposte dei due miei cari amici, Vattimo e Ferraris. Se è vero che essere e sapere non coincidono, che questo scarto è una delle più forti molle per l’innovazione nella scienza e nell’arte e che tutto lascia aperta una via di scampo nel mondo stesso della politica, cercare schemi concettuali «incommensurabili», escogitare usi e dunque significati nuovi, modellare in maniere differenti il reale che pure così ostinatamente ci resiste, non è un peccato bensì un dovere della ragione, una genuina esperienza di libertà, che vale più di qualsiasi imbalsamata «verità».

mercoledì 20 giugno 2012

Vattimo: le risposte della filosofia

ViviMilano, 20 giugno 2012. Di Ida Bozzi

Che cosa sta succedendo nel mondo e nella concezione del mondo? Come il pensiero contemporaneo si confronta con elementi quali la crisi del capitalismo e il cosiddetto ”nuovo ordine mondiale”? L’occasione per capire uno dei fronti di elaborazione in cui si trova il pensiero filosofico, è la presentazione del nuovo saggio del filosofo Gianni Vattimo, ”Della realtà. Fini della filosofia” (Garzanti), nell’incontro di giovedì 21 alla Fnac con il pubblico milanese. 

“Proprio in tempi di crisi – ha illustrato Vattimo a ViviMilano, anticipandoci i temi del libro – come quella che stiamo vivendo, che tutti riconoscono come crisi strutturale, mi sembra importante la filosofia. Che certo non ha suggerimenti immediati da fornire – su come ridurre il debito, come rifinanziare (ancora una volta!) le banche, eccetera – ma ci chiede una riconsiderazione generale del nostro modo di vivere e dei nostri sistemi di valori. Potremmo dire che attraverso questo saggio si ha una panoramica del ”prima” e del ”dopo”, a partire dal ”pensiero debole” della fine del Novecento per arrivare all’oggi, un tempo che il filosofo descrive nel libro come il «ritorno all'ordine che nella cultura, non solo filosofica, si è fatto sentire in questi ultimi anni – effetto forse dell’11 settembre? Della lotta contro il terrorismo internazionale? Della crisi finanziaria che sembra si possa battere solo con un ”nuovo realismo”?».

Insomma, in un saggio che non è di pura divulgazione ma nemmeno solo teoretico, Vattimo prende posizione su quello che sta accadendo nel mondo, non solo del pensiero, con il ritorno al ”realismo” e i richiami al rigore, allo stringere la cinghia e così via. Qual è, in breve, la sua posizione, lo anticipa lo stesso filosofo, che conclude illustrandoci il senso del suo libro: “Richiamando i (miei) lettori a non lasciarsi imporre le pretese ricette ”realiste”, che si fondano sempre su una interpretazione (situata, socialmente e storicamente; e dunque interessata) della realtà e non, come pretendono, sulla conoscenza oggettiva delle cose (la conoscenza che sarebbe propria dei ”tecnici” neutrali), invita a professare la filosofia come progetto attivo di modifica del mondo com’è e non come contemplazione inerte dell’ordine (!) esistente”. La filosofia, insomma, si occupa come non mai delle questioni più scottanti del presente, e il dibattito è aperto e caldissimo.

Pensiero debole ma idee forti

Il nuovo Vattimo


LA VERITÀ vi farà liberi, sta scritto nel Vangelo. Il problema è come trovarla senza subire gli inganni del potere. È uno dei grandi temi di Della realtà (Garzanti), nuovo libro di Gianni Vattimo, filosofo e eurodeputato (Italia dei Valori). Un saggio sulle trasformazioni della società contemporanea firmato da un pensatore, classe 1936, che continua a definirsi "resistente". Prende posizione - dai No Tav ai palestinesi, all'eutanasia -, e dà spazio ai giovani. Giovedì alla Fnac (ore 18) lo presenterà Tommaso Portaluri, studente di 18 anni, appena nominato per meriti scolastici Alfiere della Repubblica. 
 
Professor Vattimo, cos'è "Della realtà"? «Raccoglie i corsi che ho tenuto a Lovanio (1998) e Glasgow (2010) nelle Gifford Lectures, una specie di premio Nobel per la filosofia. Non è un'opera di divulgazione per il grande pubblico, ma nemmeno un documento teoretico per gli addetti ai lavori o i biografi. È un itinerario filosofico sul senso e il risultato di una vita di lavoro». 
 
Di lei dicono tutti: è l' inventore del pensiero debole. Ovvero? «Il pensiero debole è un mix di ermeneutica, l'analisi critica della realtà, e nichilismo. I miei maestri sono Heidegger e Nietzsche. Le teorie di quest'ultimo ruotano attorno alla celebre: 'Non esistono fatti, solo interpretazioni' . Salvo poi aggiungere: 'Anche questa è un' interpretazione' . L'avversario da battere è il ritorno all'ordine nella cultura, non solo filosofica. Effetto dell'11 settembree della lotta contro il terrorismo? della crisi finanziaria?». 
 
Uno dei capitoli di Glasgow si sofferma sull' importanza, sottovalutata dai non filosofi, delle virgolette. «La costante pratica dell'interpretazione ci permette di superare la dittatura del presente, passando dalla "realtà" alla realtà. Chiunque dovrebbe mettersi in discussione, rifiutando la perentorietà dei dati. Se hai un solo televisore, vale come fonte della verità. Se ne hai venti, sei libero come il superuomo di Nietzsche, scegli in chi credere. I miei colleghi sostenitori del "neorealismo" cercano un'oggettività che nessuna scienza o tecnologia potrebbe avere». 
 
Perché la filosofia piace tanto alla gente, occupando classifiche e festival? «Hanno successo i filosofi perbenisti, che coltivano valori mainstream promuovendo i loro libri da Fabio Fazio, non quelli che si ribellano. Il vero filosofo è maledetto, prende le distanze dal sistema, guarda le cose del mondo con scetticismo». 
 
Come si concilia il suo "cattocomunismo" con l'Idv di Antonio Di Pietro? «Sono stato eletto come indipendente nell'unico partito di opposizione. La politica è un impegno morale e non totalmente fallimentare, nonostante i limiti delle rivoluzioni. Sappiamo come sono andate a finire quella sovietica e cinese o i tentativi riformisti della sinistra italiana. L'Unione Europea è un insieme di agenzie burocratico bancarie incapaci di realizzare un socialismo dal volto umano. Il comunismo, la società senza classi, restano l' unico orizzonte contro il dio mercato». 
 
Come passerà l'estate? «Insegnerò in Colombia, a Vilnius e in Austria, dove terrò un seminario su Wittgenstein. Tra un'università e l'altra vorrei rileggere i classici. Ho nostalgia di quando vent'anni fa tornavo dal mare con l'ansia di proseguire Guerra e pace. Merito di Tolstoj, del tramonto di Santorini o, forse, di uno stato d'animo diverso. Anche i filosofi credono nella felicità».

"Il pensiero debole è ancora forte" (Pier Aldo Rovatti)

La Repubblica, 16 giugno 2012

Pier Aldo Rovatti
Non possiamo far finta che non si stia combattendo un sintomatico conflitto di idee. Esso esisteva ancor prima che venisse alla superficie attraverso articoli, saggi e libri. Con il Manifesto del nuovo realismo (Laterza) Maurizio Ferraris ha il merito di averlo fatto emergere e di avere surriscaldato la scena. Umberto Eco, nel suo intervento intitolato Di un realismo negativo (in “alfabeta2”, n. 17, e su questo stesso giornale), ha stemperato i toni. Gianni Vattimo, pubblicando (da Garzanti) Della realtà, cioè quello che ha detto e scritto nell’ultimo decennio, ha documentato la propria dissidenza filosofica con la consueta chiarezza, ed è a partire da questo libro che vorrei esprimere alcune mie considerazioni.
Lascio perdere le punte polemiche (per esempio, Vattimo che pubblica sul manifesto una lettera a Eco, e Ferraris che gli risponde contestualmente, come a dire «se vuoi parlare con me, fallo direttamente»). E vengo subito al conflitto delle idee: in gioco mi pare soprattutto la domanda «dove sta andando la filosofia?» e, più precisamente, «che fine stanno facendo il “sociale” e il “politico” in questa svolta di pensiero? ». Nessuno dei contendenti si sogna di dichiararsi “contro il realismo”: da una parte, però, si propone di salvare il nocciolo “ontologico” della questione sbarazzandosi di tutto quanto è avvenuto dal ’68 a oggi, dall’altra si valuta con preoccupazione quel che si perderebbe procedendo così.
A detta di Vattimo si rinuncerebbe al potenziale di trasformazione che la filosofia può ancora avere e che anzi, proprio adesso, in tempi in cui la crisi tende a comprimere anche gli spazi di pensiero, dovremmo cercare di attivare e valorizzare. Il suo punto di vista è netto: per lui rischiamo di ingabbiarci in un atteggiamento ultraconservativo dal sapore accademico, se togliamo alla filosofia quel mandato sociale e politico costruito in decenni di lavoro ermeneutico e fenomenologico, attraverso la rilettura critica di Nietzsche e di Heidegger, gli apporti mutuati dalla microfisica del potere di Foucault e dal decostruzionismo di Derrida, senza dimenticare il ruolo non marginale giocato da Benjamin. Tutto questo percorso – che ora si vorrebbe devitalizzare (omologandolo in un generico postmodernismo) – conduce secondo Vattimo proprio a una descrizione critica della “realtà”, nella sua complessità ma soprattutto nei suoi dispositivi oggettivanti e che limitano la libertà dei soggetti in quanto cittadini in lotta per i loro diritti.
 
Umberto Eco
Come è noto, anche se non mi sono mai del tutto identificato filosoficamente con Vattimo (per formazione e scelte specifiche), ne condivido nella sostanza l’impianto (cfr. in Della realtà soprattutto le “Lezioni di Glasgow” del 2010): è una posizione che permette, nell’attuale conflitto di idee, di vedere bene i rischi del disboscamento in atto e soprattutto di illuminare il tratto più sorprendente di questa “pulizia” culturale, e cioè la rimozione della soggettività. Sembra infatti che il realismo ora rilanciato voglia e possa fare a meno della soggettività, quasi fosse inglobata o sottintesa e non una questione aperta e cruciale. Un realismo senza soggetto, per dir così, chiude o comunque squalifica come irrilevanti i problemi che, secondo Vattimo (e secondo me), dovrebbero invece essere considerati vitali per il discorso filosofico: quelli, per esempio, dell’identità e dell’alterità e di cosa può significare oggi socializzazione o legame sociale; oppure quelli della prossimità e della distanza e di cosa, appunto, può voler dire “soggetto” nel momento in cui è chiaro che nessuno può essere più padrone a casa propria e che l’idea di individuo neoliberale sembra ormai andare in frantumi.
Ipotizzo che Vattimo si sia rivolto a Eco (nella lettera che ho sopra ricordato) perché gli attribuisce una sensibilità sull’intera questione, nonostante il fatto che Eco appaia schierato nel campo avverso. Una sensibilità innanzi tutto “storica”: una cautela nel buttar via il bambino con l’acqua sporca, salviamo almeno l’insegnamento in fatto di “ironia” che ci arriva da quella stagione che ora vorremmo frettolosamente cancellare. E poi una sensibilità verso un “realismo minimo”, inteso come un limite «che non ci garantisce che noi possiamo domani possedere la verità».
 
Maurizio Ferraris
Ecco gli ulteriori e imprescindibili fronti della battaglia in corso, molto evidenti nel libro di Vattimo: la storia e la verità. Storia significa provenienza, genealogia, processo sociale attraverso cui si forma la coscienza politica del presente e al di fuori del quale la parola “critica” e anche la stessa parola illuminismo (invocata da Ferraris) rischiano di restare parole senza spessore. “Verità” (con le virgolette!) vuol dire appunto negazione della pretesa di possedere una volta per tutte la verità (senza virgolette). Le due questioni sono ovviamente intrecciate: per combattere le pretese di chi ha creduto o ancora crede di avere in mano la verità, occorre che gli “eventi” vengano ogni volta attraversati dalla storicità e che i soggetti storici ne siano i responsabili effettivi, concreti, politici: tutti i soggetti, non solo quei supposti “funzionari dell’umanità” che chiamiamo filosofi.
Vattimo ha costantemente combattuto questa battaglia e continua a farlo anche in Della realtà. Qualcuno ritiene che sia ormai passato il suo tempo. A me pare lampante che la sostanza del suo programma filosofico sia ancora incisiva, oggi – forse – ancora più di ieri.

lunedì 11 giugno 2012

Vattimo: “Soy un cristiano heterodoxo y nostálgico”

Vattimo: “Soy un cristiano heterodoxo y nostálgico”

Revista Criterio, n. 2382, Jnio 2012; por Poirier, José María - Ryan, Romina

El filósofo italiano Gianni Vattimo afirma que no existen los hechos sino las interpretaciones y que los conceptos absolutos no son viables en la Posmodernidad. Como en años anteriores, Gianni Vattimo visitó Buenos Aires y la Feria del Libro, donde además de dictar una divertida conferencia presentó su libro Della realtà. Fini della filosofia, una compilación de los últimos 15 años de trabajo universitario. Profesor emérito, en la actualidad es representante en el Parlamento Europeo del partido Italia de los Valores, cuyo líder es Antonio Di Pietro, “el único partido de oposición auténtica a Berlusconi y ahora a Monti”, explicó en diálogo con CRITERIO.
–Algunos dicen que hay un Vattimo anterior a la obra Creer que se cree y uno posterior; otros dicen que hay varios. ¿Cuántos Vattimo hay?
–Me gusta muchísimo que se diga que hay diferentes Vattimo, porque eso sucede sólo con algunos grandes filósofos como Heiddeger, Wittgenstein oNiezschte… Yo, sin embargo, creo que hay una continuidad en mi historia intelectual. Cuando terminé mis estudios en la escuela superior decidí inscribirme en la carrera de Filosofía por intereses teológicos y políticos. Más tarde comprendí que como inquietud religiosabuscaba lo que más tarde se llamó Posmodernidad, la idea de poder construir un pensamiento filosófico no tomista, no demasiado tradicionalista, pero sí cristiano. Siempre digo que soy un “cato-comunista”, un católico de izquierda. Si tenemos que hablar de rupturas, en mi historia la primera fue en 1968. Si bien no participé en el movimiento estudiantil, tenía muchos amigos allí. En ese momentoya era catedrático en Turín, gracias al apoyo de una mayoría de católicos de derecha y debido a la influencia del profesor que dirigía mis estudios. Pero después de tres meses alejado de la universidad e internado en un hospital por un problema de salud, al regresar me di cuenta de que había devenido maoísta. Cuando hablé con mi profesor y amigo me dijo: “¿Cómo? ¿Y ahora me lo dices? ¡Qué problema! ¿Qué hago?”. “¡Es que ha sucedido ayer!”, le expliqué. En ese período de enfermedad había leído a Herbert Marcuse, al griego KostasAxelos que había escrito Marx, pensador de la técnica, es decir que se empezaba a reconocer una conexión entre al antitecnicismo de Heidegger y el anticapitalismo de Marx, y aún sigo creyendo que se puede ser marxista o comunista siendo hegeliano. El último libro mío traducido al inglés, HermeneuticCommunism, tiene como subtítulo “De Heidegger a Marx”.
Una primera ruptura entonces sucedió en 1968, cuando se convierte en maoísta. ¿Y después?
–En 1974 se publicó mi libro sobre Nietzsche, escrito entre 1968 y 1972, que era absolutamente revolucionario en tanto el asunto principal eraunir la aspiración revolucionaria de la burguesía –la liberación del sujeto, la liberación sexual, el divorcio– con la revolución proletaria, que era básicamente económica. Obviamente Nietzsche no fue revolucionario en lo personal, pero muchas de sus ideas pueden ser utilizadas en ese sentido. Ese año fue también muy interesante porque empecé a trabajar en estos pensamientos de transformación socio-cultural inspirados por Nietzsche y Heidegger juntos y, finalmente, todo el desarrollo sucesivo fue la elaboración de la conexión entre ambos, algo que ellos nunca hubieran pensado. Cuando algo se combina es difícil distinguirlo de lo que viene después. En este sentido, el conocimiento personal con los estudiantes más radicales se convirtió para mí en una manera de tomar distancia del terrorismo italiano, muy presente en aquellos años. Un día, por ejemplo, uno de mis discípulos me dijo que habían arrestado a un estudiante en Bolonia sólo porque tenía mi número telefónico en su agenda. En 1978 fui amenazado por las Brigadas Rojas porque el discurso era que si había alguien en la izquierda que no estaba con ellos, era un enemigo. Y yo era decano de la Facultad, pertenecía al Partido Radical, que era contestatario pero pacifista, y había aceptado formar parte del primer juicio popular a las Brigadas Rojas. En ese momento empecé a pensar que una revolución no podía ser leninista y violenta porque tendríamos 20 años de guerrilla y otros 20 años de stalinismo. En ese tiempo de reflexión sobre la experiencia del terrorismo escribí un ensayo que para mí es fundamental, Dialéctica y diferencia del pensamiento débil; la dialéctica era el marxismo, a diferencia del pensamiento de nombres como Jacques Derrida o GillesDeleuze, que no terminaban de gustarme porque eran un poco anarquistas pero se abstraían de la lucha política efectiva. El pensamiento débil guardaba relación con la idea de hacer uso de Nietzsche y Heidegger para imaginar una filosofía de la historia que adquiere sentido en la reducción de la violencia y no en la realización, incluso violenta, de un modo pensado antes. Esto era importante política y éticamente. En esos años, además, me pidieron una introducción a la edición de El mundocomo voluntad y representación de Arthur Schopenhauer. En ese momento dejé de ser maoísta ingenuo para convertirme en izquierdista no violento, pero menos ilusionado con la idea de revolución total.
–¿Hubo un tercer quiebre?
–Sí, vinculado a la lectura de RenéGirard: la idea de una interpretación de la religión no en el sentido victimario, sacrificial, sino viendoal cristianismo como superador del carácter violento de las religiones naturales. Cuando uno se pregunta por qué Jesús fue asesinado,es porque precisamente reveló esa visión, algo muy escandaloso.
–¿Qué relación establece entre el pensamiento débil y la teología del anonadamiento, la kénosis?
Tengo que volver a un momento importante, incluso a unrencuentro conmi religiosidad personal.Paradójicamente, cuando estuve viviendo en Alemania a comienzos de los años ’60, donde no leía los diarios italianos porque llegaban demasiado tarde, cuando dejéde tener el problema de discutir con la jerarquía católica italiana y con los católicos de derecha, no fui más a misa. Pero repensando a Girard creo que volví a ser cristiano, y también por mérito de Nietzsche, de Heidegger y hasta de Mao.
–Algunos escribieron que a partir de Creer que se cree usted volvía a la religión pero también que la religión volvía al pensamiento y al debate.
–Esasí en cuantouno intenta relacionar siempre en el discurso la historia personal con la historia de la época. En 1968 era típico: los estudiantes pedían la liberación sexual porque era lo que a ellos les interesaba, pero pensaban que debía ser mundial. Eso refleja la idea de vocación histórica, es decir que no siento la filosofía como una vocación para ocuparme de los absolutos sino para leer los signos de los tiempos, que es una expresión evangélica. Cuando empecé a escribir Creer que se cree, un verano en la montaña, me parecía que ya no había razones filosóficas “objetivas” para no ser cristiano en tiempos de la Posmodernidad. Cuando se disuelven los meta-relatos (materialista, positivista, etc.) que intentan explicarlo todo, uno puede releer escrituras sagradas como el Evangelio –no tengo mucha simpatía con el Antiguo Testamento, sobre todo por la violencia, es demasiado antiguo–. Fue un esfuerzo por interpretar la situación filosófico-cultural desde el punto de vista de un retorno posible a la religiosidad a través de la disolución de los meta-relatos metafísicos.
–Su lectura de la Posmodernidad siempre se da en términos positivos, como por ejemplo la desaparición de los dogmas.
–Y como no existe más “la verdad”, se necesita la caridad.
–El concepto de kénosis, pero también la interpretación…En eso usted parece luterano.
–Sí, porque la interpretación tiene que ver con el hecho de que no hay una verdad objetiva. Tal vez en el siglo XX la noción misma de verdad se transformó en una noción de caridad, porque si uno retoma incluso a Habermas, siempre habla de una racionalidad comunicativa, lo cual implica que es racional lo que puedo decir sin vergüenza frente a los otros. Sobre todo porque todo el discurso epistemológico del siglo XX tiene mucho de convencionalismo, es decir que la verdad científica se pronuncia dentro de un paradigma compartido, no es un encuentro directo de mí mismo con el objeto, es un encuentro con maneras de interpretar el objeto conforme a una historia de la ciencia, de la matemática, etcétera.
–Desde su perspectiva filosófica, ¿la metafísica preserva algo o absolutamente nada?
–Tengo el defecto de que cuando hablo de metafísica la nombro desde Heidegger, que es enemigo de la metafísica porque es enemigo del concepto de una verdad objetiva; para él ni siquiera y Dios puede ser un objeto. Desde una perspectiva metafísica puede decirse que Dios es un objeto supremo, pero llamarlo objeto no es un gran elogio. La metafísica en tanto concepción de la vida, fe existencial puede considerarse, pero en la historia siempre ha tenido una pretensión de universalidad que no logro visualizar sin violencia.
–Quisiéramos preguntarle sobre la construcción de la verdad en la política.
–No puedo pensar en una verdad para todos; yo pienso algo y puedo dar razones, pero no puedo demostrarlo. En cuanto a la verdad política, se trata de preguntar quién lo dice. Esto es lo básico, hermenéutico: como no hay verdades, sólo hay interpretaciones. Cuando me confronto con problemas, por ejemplo, con lo que pasó durante el gobierno militar en la Argentina, hay un problema de interpretaciones que se confrontan y se construyen sobre la base de documentos y testimonios, que son intérpretes en un proceso penal. Todo es un juego de relación intersubjetiva más que de toma de acto de lo que está. Lo mismo sucede con la verdad política; yo no tengo confianza en lo que diga Videla. ¿Por qué? No porque sé que ha matado, sino porque tengo otros testimonios de gente que tiene parientes desaparecidos, y por lo tanto no es una opinión sino que está documentado. En Italia se me reprocha esta idea, pero sé que no tengo confianza en Berlusconi. Hay hechos que se llaman así porque tenemos suficientes luces que nos indican que lo son, así como un dato de la física cuántica puede considerarse de tal forma porque lo atestiguan ciertos científicos.
¿Qué le suscita Raztinger como intelectual? Insiste en el relativismo pero por otro lado la dimensión del diálogo entre fe y cultura le interesa mucho.
Yo abrigaba muchas esperanzas cuando fue elegido Papa porque había sido profesor en Tübingen, pero ahora tengo una versión un poco descolorida sobre lo que el catecismo llama “la gracia de estado”: cuando uno llega a ser ingeniero, tendría una asistencia especial para ingenieros, y cuando uno es elegido Papa, se torna reaccionario. Por ejemplo, en la encíclica Deus caritas estdecía, por ejemplo, que las primeras comunidades cristianas eran comunistas pero que naturalmente esto después se quebró. ¿Por qué “naturalmente”? Es como aceptar la afirmación de Margaret Thatchercon respecto al capitalismo. Creo que Benedicto XVI es menos reaccionario que Juan Pablo II, que era más simpático; pero este Papa tiene menor decisión que su antecesor, que no era un teólogo sino un pastor de almas. Tiene toda la incertidumbre del intelectual, y como hombre de estudio, creo que tiene dificultades para tratar con la Curia. Yo esperaba mucho más de él.
¿Cómo ve el futuro de la Iglesia como institución?
–Me gustaría salvar a la Iglesia del suicidio, por ejemplo, ante ciertas actitudes un poco dogmáticas en torno del sacerdocio femenino, el problema del celibato eclesiástico, que ahora es anacrónico; todo esto le da un rostro reaccionario que no es exigido por ningún cristianismo. Básicamente no creo que ni siquiera la Escritura Sagrada sea una descripción adecuada de Dios, es una educación para el pueblo de Dios, por lo tanto, la teología como tal me parece absolutamente insignificante. Cuando era chico mi director espiritual me obligaba a leer libros del dominico francésGarrigou-Lagrange.Hay ciertas cosas que me gusta deciraunque sean arriesgadas porque creo que son religiosas, por ejemplo hay una frase de san Pablo que dice que la fe y la esperanza son transitorias, pero que la caridad va a durar. Un día discutía con un obispo en Toscana y le sugerí que esa frase no se refiere solamente a la vida eterna sino también a la vida histórica, es decir que hoy cada vez parece menos urgente que la gente crea que Dios es uno y trino. Los misioneros, cuando llegan a un destino como el Amazonas, abren un hospital o fundan una escuela, no obligan a la gente a creer en un Dios trino. Sería bueno pensar la historia del cristianismo como articulada con una reducción de la importancia de los dogmas e incluso una reducción de la pura esperanza en el más allá. Yo no tengo ninguna actitud polémica ni siquiera en contra de mis educadores católicos, estoy muy agradecido de la educación cristiana recibida. Soy básicamente un cristiano un poco heterodoxo pero nostálgico, incluso soy uno de los pocos que podría seguir la misa en latín. Si no fuera cristiano, no sería comunista.
Le había molestado en la polémica con Umberto Eco sureivindicación de la realidad al estilo un poco aristotélico.
–Sí, porque siempre fue un señor básicamente neo-tomista. Así como santo Tomás tenía como base la cosmología tolemaica, Eco toma la semiótica; siempre quiere como base para sus afirmaciones una ciencia positiva, como fundamentación científica.
¿Qué opina de su colega Massimo Cacciari?
–Lo conozco bien pero no lo comprendo mucho; siempre le digo que lo quiero muchísimo pero no lo entiendo. Estámuy comprometido, es una gran persona, pero no llego a entender a dónde quiere llegar; y también hay otros filósofos italianos que son demasiado erráticos para mi gusto. Cuando les pregunto a los universitarios por qué leen ese tipo de autores tan complicados, me dicen: “si los comprendiéramos no tendría sentido leerlos”. Hay una cierta vitalidad, de todas maneras, que resiste al pensamiento único, que rechazo sobre todo por razones políticas. En Italia tenemos el gobierno de Monti, que no fue elegido por nadie, y es aceptado por los partidos más opuestos ya que los libera de responsabilidades; Monti hace lo que dice el Banco Mundial.
–En el ámbito político de su país, ¿qué opina de Beppe Grillo, actor líder de la anti-política?
Es un fenómeno interesante, de populismo, pero no comparto que tome un carácter de anti-política. Empezó hace algunos años, pero en las últimas elecciones se volvió fuerte. Obviamente estoy más cerca de Grillo que de Berlusconi, incluso que de los comunistas, que respaldan a Monti, pero quiero ver qué pasa. Con Di Pietro me encuentro bien, aunque me critican que yo siempre haya sido de izquierda y él sea un representante del centro. Si bien está en la oposición absoluta a Berlusconi, no se identifica con ideales socialistas o marxistas. Estoy con él porque es la forma de lograr que un italiano comunista vaya al Parlamento Europeo, porque los partidos de extrema izquierda en Italia se han dividido y no tienen ni un solo diputado.

venerdì 20 aprile 2012

Da Bush a Monti: fatti o interpretazioni?


Da Bush a Monti: fatti o interpretazioni?
«Alias-D» dell’1 aprile recensiva il libro di Maurizio Ferraris «Manifesto del nuovo realismo» (Laterza), contro gli effetti ubriacanti del pensiero debole e postmoderno. A Ferraris, che propugna un ritorno filosofico (e politico) al mondo dei «fatti», replica qui Gianni Vattimo, con una «lettera aperta» a Umberto Eco, suo interlocutore ideale. Gli risponde Ferraris.

Il Manifesto, 8 aprile 2012

Il ritorno della realtà come ritorno all’ordine – Gianni Vattimo

Caro Umberto, vorrei entrare subito in medias res (ahi!, le cose stesse!) per discutere il tuo saggio sul «realismo negativo». Due cose preliminari. Primo: davvero qualcuno dei nuovi realisti pensa che un postmoderno utilizzi un cacciavite per pulirsi un orecchio o il tavolo su cui scrive per viaggiare da Milano ad Agognate? Spesso gli esempi paradossali finiscono per essere presi troppo sul serio, e diventano caricature delle quali sarebbe meglio sbarazzarsi. Secondo: ricordi Proudhon? In una estate di molti anni fa, nel deserto di temi con cui riempire i giornali, qualcuno tirò fuori Proudhon del tutto a freddo, aprendo un dibattito inconcludente che si trascinò per un po’ e poi svanì nel nulla. Il nuovo realismo mi sembra un fenomeno del tutto simile, anche se minaccia di durare più a lungo, per ragioni che hanno probabilmente da fare con il generale clima di «ritorno all’ordine» di cui è massima espressione il governo dei «tecnici».

Quali sono le ragioni del «ritorno della realtà» contro la «sbornia post-modernista»? A chi importa «tornare alla realtà» e respingere la tesi di Nietzsche secondo cui «non ci sono fatti, solo interpretazioni, e anche questa è un’interpretazione»? Certo, tu risponderai subito che questa domanda è impropria: è la verità o falsità della tesi che ci deve interessare, non a chi piacciano o dispiacciano. Ma dovresti anche ammettere che così costringi subito Nietzsche ad accettare che ci sia quella famosa verità oggettiva di cui si sta discutendo. Così, verità oggettiva sembra essere, per i nuovi realisti, il «fatto» che «il postmoderno è fallito». Davvero questo fallimento è un fatto e non un’interpretazione? La forza della tesi di Nietzsche, anche e soprattutto per chi non vuole prostrarsi davanti al mondo com’è e identificare senz’altro l’esser-così-delle-cose con il bene e la norma da «rispettare», sta tutta nel domandare, ad ogni enunciazione, «chi lo dice?». Il concetto di ideologia di Marx, ma tutta la cosiddetta scuola del sospetto (Marx, Nietzsche, Freud), dovrebbe averci insegnato qualcosa. Già, dirai, però Marx smascherava l’ideologia proprio in nome della verità oggettiva. Ma questa per lui era il patrimonio del proletariato («chi lo dice?»), non l’essere stesso identificato con ciò di cui non si può assolutamente pensare il contrario, cioè quello che tu chiami «il mondo» con i suoi «fatti». I «fatti» non parlano da sé, anche indicarli semplicemente con un dito è già un atto linguistico. Il realismo (vecchio, credo; perché sarebbe nuovo?) si è sempre fatto forte del «fatto» che ci deve essere qualcosa, il «dato», che limita l’interpretazione, come dici tu, e che non dipende dall’interprete. Neanche il più fanatico postmodernista assume semplicemente che le «cose» siano create da chi le vede. Se piove mi bagno, se sbatto in un muro mi faccio male al naso. E allora? Lo zoccolo duro dell’essere sarebbe questo? Heidegger ha costruito tutta una filosofia a partire dall’insoddisfazione per la «metafisica», cioè per quel pensiero che identifica l’essere con questo zoccolo. E l’insoddisfazione era fondata non sulla scoperta che l’essere non è «zoccolo» ma, poniamo, pantofola o aria; bensì sulla impossibilità di prender sul serio la libertà, in un mondo fatto di durezze e di zoccoli identificati semplicemente con l’essere stesso… 
 
John Searle
La domanda «chi lo dice?», ha anche una ovvia portata etico-politica. I nuovi realisti (che sempre mi rinfacciano il nazismo di Heidegger) dovrebbero spiegare perché uno dei loro profeti sia John Searle, onorato da Bush come il massimo filosofo USA. Qualcuno di loro avrà un analogo riconoscimento dal governo Monti-Napolitano? Certo, di fatto (!) i nuovi realisti hanno il massimo ascolto nella opinione pubblica (ossia pubblicata) mainstream, rispondono alla richiesta di restaurare valori «veri» e, in definitiva, disciplina sociale. Anche tu sei preoccupato di trovare «garanzie» per proporre interpretazioni accettabili dagli altri. Appunto, «gli altri». Proprio perché non ci sono fatti, solo interpretazioni, il solo «zoccolo» contro cui urto e di cui devo tener conto, senza garanzie, sono le interpretazioni degli altri. Per convincerli non ho nessun garanzia «oggettiva»: solo certi valori condivisi, certe esperienze comuni, certe letture che abbiamo fatto, persino – ormai ne sono consapevole – certe appartenenze di classe. La pericolosità dell’ermeneutica è tutta qui: insegna che la sola interpretazione sicuramente falsa (limiti dell’interpretazione!) è quella che non riconosce di essere tale, che pretende di parlare dal punto di vista di Dio e dunque rifiuta di negoziare, pensando di possedere la verità vera. Ma anche la verità di una proposizione scientifica è tale solo se gli altri, coloro che ripetono l’esperimento, hanno gli stessi risultati. C’entreranno lo zoccolo e il muro? Ma dove sarebbero, se non in queste interpretazioni?

domenica 18 marzo 2012

¿Seguimos siendo posmodernos?

¿Seguimos siendo posmodernos?

Hace 30 años, Gianni Vattimo acuñó el concepto de “pensamiento débil” como rasgo de la posmodernidad. En diálogo con Maurizio Ferraris, reexamina sus ideas y las actualiza.

POR Maurizio Ferraris Y Gianni Vattimo

27/02/2012,  Ñ, Revista de Cultura: El Clarín, La Repubblica. Traduccion de Cristina Sardoy.

¿Seguimos siendo posmodernos o estamos acaso por convertirnos en “neorrealistas”, volviendo al pensamiento fuerte? El debate filosófico está abierto. Gracias, asimismo, a la conferencia que se llevará a cabo en Bonn, Alemania, el año próximo sobre el “New Realism” en la que participarán, entre otros, Umberto Eco y John Searle.
Maurizio Ferraris. Los últimos años enseñaron, me parece, una amarga verdad. Que la primacía de las interpretaciones sobre los hechos, la superación del mito de la objetividad, no tuvo los resultados de emancipación que imaginaban filósofos posmodernos ilustres como Richard Rorty o vos mismo. No sucedió, por lo tanto, lo que anunciabas hace 35 años en tus excelentes clases sobre Nietzsche y el “devenir fábula” del “mundo verdadero”: la liberación de las restricciones de una realidad demasiado monolítica, compacta, perentoria, una multiplicación y deconstrucción de las perspectivas que parecía reproducir, en el mundo social, la multiplicación y la liberalización radical –creíamos entonces– de los canales televisivos. Ciertamente, el mundo verdadero se transformó en una fábula, es más, se ha convertido en un reality , pero el resultado es el populismo mediático, donde –siempre que se tenga el poder– se puede pretender hacer creer cualquier cosa. Esto, lamentablemente, es un hecho, aunque los dos desearíamos que fuera una interpretación. ¿Me equivoco?
Gianni Vattimo. ¿Cuál es la “realidad” que desmiente las ilusiones posmodernas? Hace once años, mi dorado librito La sociedad transparente tuvo una segunda edición con un capítulo agregado escrito después de la victoria de Berlusconi en las elecciones. Yo ya constataba la “desilusión” a la que te referís; y reconocía que si no se daba esa prescindencia de la perentoriedad de lo real que había prometido el mundo de la comunicación y los medios masivos contra la rigidez de la sociedad tradicional, era sólo a causa de una permanente resistencia de la “realidad”, pero justamente en la forma del dominio de poderes fuertes (económicos, mediáticos, etcétera). Por lo tanto, toda la cuestión de la “desmentida” de las ilusiones posmodernas es sólo una cuestión de poder. La transformación posmoderna alcanzada realistamente por quien consideraba las nuevas posibilidades técnicas no se logró. De este “hecho”, me parece, no debo aprehender que el modernismo es una mentira; sino que estamos a merced de poderes que no quieren que la transformación sea posible. ¿Cómo confiar en la transformación, empero, si los poderes que se le oponen son tan fuertes?
M.F. Tal como lo planteás, el poder, es más, la prepotencia, es lo único real en el mundo, y todo el resto es ilusión. Te propondría una visión menos desesperada: si el poder es mentira y sortilegio (“un millón de puestos de trabajo”, “nunca se meterán las manos en los bolsillos de los italianos”, etc.) el realismo es contrapoder: “El millón de puestos de trabajo no se vio”, “se metieron las manos en los bolsillos de los italianos, y cómo”. Por eso, hace 20 años, cuando lo posmoderno celebraba sus fastos y el populismo se calentaba los músculos al costado de la cancha, maduré mi vuelco hacia el realismo (lo que ahora llamo “New Realism”), posición en ese tiempo totalmente minoritaria. ¿Te acordás que me dijiste: “¿Quién te manda hacer eso?”? Pues bien, simplemente la constatación de un hecho verdadero.
G.V. Si se puede hablar de un nuevo realismo, éste, al menos por mi experiencia de (pseudo) filósofo y (pseudo) político, consiste en constatar que la llamada verdad es una cuestión de poder. Por eso me animé a decir que quien habla de la verdad objetiva es un siervo del capital. Siempre debo preguntar “quién lo dice” y no confiar en la “información” ya sea periodística-televisiva o incluso “clandestina”, ya sea “científica” (nunca existe la ciencia; hay ciencias, y los científicos, que a veces tienen intereses en juego). Pero entonces, ¿en quién confiaré? Para poder vivir decentemente en el mundo debo tratar de construir una red de “compañeros” –sí, lo digo sin pudor– con los cuales comparto proyectos e ideales. ¿Buscándolos dónde? Donde hay resistencia: los anti-IVA, la flotilla de Gaza, los sindicatos anti-Marchionne. Sé que no tengo un programa político verosímil, y ni siquiera una posición filosófica “presentable” en los congresos y las conferencias. Pero ahora soy “emérito”.
M.F. Para ser un resistente, aunque sea emérito, tu tesis de que “la verdad es una cuestión de poder” me parece una afirmación muy resignada. Es como afirmar: “La razón del más fuerte es siempre la mejor”. Personalmente estoy convencido de que justamente la realidad, por ejemplo, el hecho de que es cierto que el lobo está en el monte y el cordero en el valle, por lo tanto no puedo enturbiarles el agua, es la base para restablecer la justicia.
G.V. Yo diría más bien: constatemos el fracaso, práctico, de las esperanzas posmodernas. Pero, ciertamente, no en el sentido de volvernos “realistas” pensando que la verdad certificada (“¿por quién?” nunca un realista se lo pregunta) nos salvará, después de la resaca ideal-hermenéutica-nihilista.
M.F. No se trata de volvernos realistas, sino de serlo de una buena vez. En Italia, el mainstream filosófico siempre fue idealista, como bien lo sabés. En cuanto a la certificación de la verdad, hoy hay un sol ligeramente velado por las nubes y eso lo certifico con mis ojos. El 15 de agosto de 1977 Herbert Kappler, ex coronel de las SS nazis y responsable de la ejecución de las fosas Ardeatinas, huyó del Hospital Militar de Celio. Esto me lo dice Wikipedia. Ahora, supongamos que empezaras a preguntarme: “¿Será cierto? ¿Quién me lo prueba?” Se pondría en marcha un proceso que de la negación de la fuga llegaría a la negación de las ejecuciones, y después de todo lo demás hasta la Shoah. Millones de seres humanos asesinados y yo preguntándome sin parar “¿quién lo certifica?”
G.V. Es obvio (¿verdadero?, bah) que para desmentir una mentira debo tener otra referencia. Pero ¿te preguntaste alguna vez dónde está esa referencia? ¿En lo que “ves con tus propios ojos”? Sí, funcionará para entender si llueve; pero ¿para decir en qué dirección debemos orientar nuestra existencia individual o social?
M.F. Obviamente no. Pero decir que “la llamada verdad es una cuestión de poder” tampoco me dice nada en esa dirección, como mucho, me sugiere no abrir más un libro. Hace falta un doble movimiento. El primero, justamente, es el desenmascaramiento, “el rey está desnudo”; y es verdad que el rey está desnudo, de lo contrario son palabras al viento. El segundo es la salida del hombre de la infancia, la emancipación a través de la crítica y el saber (normalmente el populismo sin exagerar intolerante con respecto a la universidad).
G.V. Quien dice que “existe” la verdad siempre debe indicar una autoridad que la sancione. No creo que te contentes ahora con el tribunal de la Razón, con el que los poderosos de todas las épocas nos engañaron. Y que a veces, lo admito, sirvió también a los débiles para rebelarse, sólo a la espera, empero, de instaurar un nuevo orden donde la Razón volvió a ser instrumento de opresión. En suma, si “existe” algo como lo que llamás “verdad” es sólo o decisión de una auctoritas , o, en los casos mejores, resultado de una negociación. Yo no pretendo tener la verdad verdadera; sé que debo rendir cuenta de mis interpretaciones a quienes están “de mi parte” (que no son un grupo necesariamente cerrado y fanático; solamente no son nunca el “nosotros” del fantasma metafísico). En cuanto al llover o no llover, y también sobre el funcionamiento del motor del avión en el que viajo, puedo incluso estar de acuerdo con Bush; respecto de hacia dónde tratar de dirigir las transformaciones que la posmodernidad hace posibles no nos pondremos de acuerdo y ninguna constatación de los “hechos” nos dará una respuesta exhaustiva.
M.F. Si la ideología de lo posmoderno y del populismo es la confusión entre hechos e interpretaciones, no hay duda de que en el enfrentamiento entre un posmoderno y un populista será muy difícil constatar hechos. Pero es de esperar, muchos signos permiten presagiarlo, que esta estación llegue a su fin. También la experiencia de las guerras perdidas, y luego de esta crisis económica, creo que puede constituir una severa lección. Y con lo que afirmo abiertamente que es una interpretación, espero que la humanidad necesite cada vez menos someterse a las “autoridades”, justamente porque salió de la infancia. Si no es en base a esa esperanza, ¿qué estamos haciendo aquí? Si decimos que “la llamada verdad es una cuestión de poder”, ¿por qué los filósofos hicimos al revés de los magos?
G.V. Decís muy poco acerca de dónde buscar las normas del actuar cuando el modelo de la verdad es siempre el dato objetivo. No tenés ninguna duda sobre “quién lo dice”, siempre la idea de que mágicamente los hechos se presentarán por sí mismos. La cuestión de la auctoritas que sanciona la veritas deberías tomarla más en serio. Tal vez yo me equivoque al hablar de compañeros, pero ¿vos creés realmente que hablás from nowhere ?

domenica 19 febbraio 2012

E Vattimo sbeffeggiò l'Essere: "è come un mobile con le tarme"

Edoardo Camurri recensisce «Della realtà. Fini della filosofia», edito da Garzanti (pp. 220, euro 18), in uscita il 23 febbraio 2012.

E Vattimo sbeffeggiò l'Essere: "è come un mobile con le tarme"
Il pensatore critica le posizioni del "nuovo realismo" 
Corriere della sera, 17 febbraio 2012. Di Edoardo Camurri 
 
«Non ci sono fatti, solo interpretazioni. Anche questa è un'interpretazione» tuonava più di un secolo fa quella bestia bionda di Friedrich Nietzsche, e oggi Vattimo continua a ripeterlo con una certa acribia anche se (a eccezione forse di qualche bramino) in molti si ostinano (loro malgrado) a sperimentare quanto la realtà sia dura a morire. Se si legge il suo ultimo libro, Della realtà. Fini della filosofia (Garzanti), la volontà di Vattimo di dissolvere la realtà è così radicale che finisce con il dissolvere perfino la realtà di un suo ex allievo, e ora durissimo rivale, come Maurizio Ferraris sostenitore del cosiddetto «nuovo realismo». Insomma, Vattimo non lo cita mai, per quanto sia evidente che uno dei principali obiettivi polemici del libro sia proprio l'esistenza di Maurizio Ferraris in quanto tale. Si potrebbe obiettare: ma questa forma di gossip teoretico cosa c'entra con un testo e con la sua analisi critica? In teoria nulla, se non fosse che è lo stesso Vattimo a giustificare una lettura sospettosa delle diatribe filosofiche: «Persino il richiamo all'oggettività delle cose come sono in sé stesse pesa solo in quanto è una tesi di qualcuno contro qualcun altro, e cioè in quanto è una interpretazione motivata da progetti, insofferenze, interessi anche nel senso migliore della parola» (p. 95).
Chi, come chi scrive, ha frequentato a lungo le lezioni di Vattimo, si divertiva molto a sentire il maestro riassumere la sua posizione con l'affermazione: «L'Essere è camolato», un modo piemontese per dire che l'Essere ha le tarme. Con Heidegger, Vattimo sostiene: la conoscenza non è adeguazione di un soggetto all'oggetto, l'Essere della filosofia non va pensato come un ente o come un dio presente che sta dinanzi a noi (o più spesso sopra di noi in posizione di dominio).
L'Essere è un progetto dentro il quale l'uomo è da sempre gettato. Esempio: se scrivessimo che esistono gli ippogrifi, ci prendereste per scemi non perché avete esplorato in lungo e in largo e nel tempo e nello spazio l'universo al punto da escludere radicalmente l'esistenza di questi animali metà cavalli e metà grifoni, ma perché viviamo in un mondo nel quale si sa già, in partenza, e sulla base di qualche confortevole pregiudizio, che gli ippogrifi non esistono. Quando si nasce si ereditano un linguaggio, delle credenze e dei significati che consentono all'uomo di articolare un discorso all'interno del quale (e questo è un interessante paradosso su cui Vattimo spesso si concentra nel suo libro) ci si può perfino illudere di essere realisti. Scrive Vattimo in Della realtà. Fini della filosofia (p. 46): «In quanto esistenti, dunque, noi siamo sempre bestimmt, intonati, orientati secondo preferenze e repulsioni, mai semplicemente-presenti ( vorhanden ) in mezzo agli oggetti (...). Questa è l'idea di esistenza come "progetto"».
Non stupirebbe, a questo punto del discorso, intravedere però qualche manina alzata pronta a obiettare: quello che sostiene Vattimo è un fatto, non un'interpretazione; si sta contraddicendo, anche lui finisce col descrivere obiettivamente la struttura dell'Essere. Ed è questa osservazione, una variante dell'obiezione antica contro lo scetticismo (affermare l'impossibilità della verità è una verità), a rendere conturbante Della realtà. Fini della filosofia. Perché Vattimo risponde innanzitutto rivendicando, con Nietzsche, il carattere interpretativo della sua posizione per poi chiedersi un po' stupito (p. 85): «L'argomento logico contro lo scetticismo ha mai convinto qualcuno ad abbandonare le sue "convinzioni" scettiche?». Non siamo all'anything goes, all'idea che tutto vada bene, ma all'insistenza che un «banale errore logico» non possa liquidare l'approdo nichilista a cui è giunta la storia della filosofia, il destino dentro il quale l'uomo è gettato e dove tenta di progettare la realtà che più desidera. Nulla di nuovo. Ma forse qualcosa di noioso e di inquietante. Noioso perché, come scriveva il grande poeta polacco Czeslaw Milosz, il nichilismo è ormai diventato una prerogativa della cultura di massa, nonché il segno di riconoscimento delle menti ordinarie; e inquietante perché grazie a idee come queste, e stranamente in nome di un'istanza di libertà comune alle avanguardie dei primi del Novecento, Heidegger divenne nazista e Vattimo, che lo difende dicendo che si autofraintese, oggi invita a boicottare Israele, abbraccia Fidel Castro («Gli ho preso il viso tra le mani - raccontò - con qualche lacrima agli occhi»), sostiene che con l'11 settembre: «Gli americani hanno fatto esperimenti sul proprio popolo»; eccetera.
Se si rigetta la possibilità di una teoria vera e propria, il rischio è concepire il pensiero come sostanzialmente asservito e dipendente dalla vita o dalla storia e, senza voler fare una reductio ad Hitlerum (una teoria non è confutata dal fatto che le è capitato di essere condivisa da Hitler), sembra che la posizione di Vattimo, ragionevole in teoria (l'Essere è camolato), in pratica corra il rischio di dimenticarsi dell'Essere per assolutizzare le camole e i rosicchiatori della realtà. Non è una situazione tanto allegra anche perché l'alternativa (classica e platonica) per sfuggire a questo pericolo non è più allettante: non divulghiamo nel dettaglio come stanno le cose, il nichilismo, eccetera, perché questa visione è incompatibile con la vita e al suo posto edifichiamo miti e nobili menzogne dentro i quali costruire un mondo decente ma falso. Entrambe le posizioni sono insieme conservatrici e rivoluzionarie. Scrive ancora Vattimo in Della realtà. Fini della filosofia (p. 109): «Proporre un diverso ordine storico-sociale, anche a partire dall'insoddisfazione per alcuni aspetti del paradigma vigente, è possibile non certo con argomenti "cogenti" di tipo ostensivo - "ti mostro che" - ma solo con discorsi edificanti - "non ti pare che sarebbe meglio se"».
Tutto finisce quindi col dipendere da una decisione. E la decisione può essere più o meno efficace a seconda di quanto siamo spregiudicati o di quanto siamo capaci di porci in ascolto dell'essere e dei progetti che l'essere ha in serbo per noi. Liberati dalla realtà, finiamo così con il diventare vittime della propaganda.

giovedì 29 dicembre 2011

La fine della modernità (ribadita)

Ristampa de La fine della modernità (presentazione sul sito Garzanti)

Vattimo Gianni
La fine della modernità
Garzanti Novecento
192 pagine
€ 11.00
ISBN 978881160140-1 

«Il tema di questo libro è la messa in chiaro del rapporto che lega gli esiti della riflessione di Nietzsche e di Heidegger con i discorsi sulla fine dell'epoca moderna e sulla post-modernità. Mettere esplicitamente in contatto questi due ambiti di pensiero significa, secondo le tesi qui esposte, scoprirne nuovi e più ricchi aspetti di verità.»

Il pensiero di Gianni Vattimo ha accompagnato, indagandolo nella maniera più radicale, il passaggio dalla modernità alla postmodernità. Partendo dai presupposti filosofici di questo cambiamento, ritrovati soprattutto in Nietzsche e Heidegger, ne ha anticipato le conseguenze, che investono la società, la politica, l'economia, la religione, le arti e la comunicazione, ma soprattutto il nostro rapporto con la realtà. La fine della modernità, saggio-manifesto pubblicato originariamente nel 1985, esplora per la prima volta in maniera unitaria il concetto di postmoderno, uno stile che ha abbandonato gli ideali dominanti della modernità: quello di progresso e di superamento critico; e nelle arti la poetica e la pratica dell'avanguardia. Attraverso l'esame di alcuni aspetti del pensiero contemporaneo (l'ermeneutica, il pragmatismo, le varie tendenze nichilistiche), Vattimo delinea così le caratteristiche fondamentali di una cultura postmoderna. 

Qui una recensione appena apparsa (28 dicembre 2011) a firma di Gianfranco Cordi su Tellus folio.


giovedì 22 dicembre 2011

Inattualità del pensiero debole, la risposta di Rovatti a Ferraris

Riporto qui fedelmente la pagina dell'editore Forum dedicata a Inattualità del pensiero debole, il nuovo libro di Pier Aldo Rovatti.

E’ da pochi giorni in libreria, per il momento solo a Udine, “Inattualità del pensiero debole” di Pier Aldo Rovatti, nuovo titolo della collana vicino/lontano, edita da Forum. Il volume entra a caldo nella recente polemica nei confronti del pensiero debole – polemica sollevata lo scorso agosto sulle pagine di “Repubblica” da Maurizio Ferraris - e di fatto costituisce una replica alla sua presa di posizione. Verrà presentato domenica 11 dicembre a Roma (alle 14, nella Sala Turchese del Palazzo dei Congressi dell’EUR) in occasione della Fiera della piccola e media editoria. Introdotti da Norma Zamparo, direttore editoriale di Forum, ne discuteranno l’autore, Pier Aldo Rovatti, docente di Filosofia teoretica e contemporanea all’Università di Trieste, e il giornalista Marco Pacini, direttore della collana, nonché ideatore del progetto vicino/lontano. Nel volume Pier Aldo Rovatti, dialogando con lo studioso steineriano triestino Alessandro Di Grazia, risponde alle obiezioni di Maurizio Ferraris, di Umberto Eco e di altri esponenti del “nuovo realismo”, fautori di una “piccola crociata” verso un’intera stagione culturale. Il volume si apre con un necessario preambolo, per fornire al lettore le coordinate per orientarsi nel contesto specifico della polemica. Vengono ripubblicati due articoli, comparsi questa estate su “Repubblica” e “il Piccolo” a firma di Rovatti – con Gianni Vattimo padre del pensiero debole – che costituiscono una prima replica a Ferraris e, al contempo, un’introduzione ai temi portanti della filosofia del pensiero debole. Dopo trent’anni, Rovatti conferma la particolare consonanza con il pensiero critico di Michel Foucault, rivendicando il valore che conserva ancora oggi il suo pensiero come bussola di orientamento. In una cultura spettacolarizzata e al tempo stesso accademizzata, in contrapposizione alla visione concreta e fattuale della verità sostenuta dai nuovi realisti, Rovatti sostiene la necessità di una critica radicale al concetto di ‘verità’, al fine di rimettere al centro del discorso i temi del potere e del soggetto. Attraverso una visione della storia e dell’attualità caratterizzata dalla pietas e dall’assenza di dogmi ontologici, lo sviluppo del ‘pensiero debole’ diventa lo strumento critico che può consentire alla società contemporanea di risollevarsi culturalmente e tentare di affrontare la ricerca della verità “senza menare colpi d’ascia a vuoto”. Tuttavia è proprio la situazione sociale contemporanea, i fallimenti culturali e valoriali che hanno caratterizzato gli ultimi vent’anni e i cui effetti influenzeranno la nostra quotidianità per molto tempo, a portare l’autore alla conclusione che, oggi, il ‘pensiero debole’ è inattuale. Il ‘pensiero debole’ è uno strumento critico che non siamo in grado di utilizzare, ma potremmo esserlo in futuro. Con le parole dell’autore “Il pensiero debole […] è un ‘pensiero positivo’ che propone la pratica di un’etica minima: una linea di resistenza contro ogni genere di nuova barbarie, sulla quale attestarsi per non cedere sul diritto di essere cittadini. Una soglia di civiltà – direi – da difendere strenuamente e rispetto a cui non indietreggiare. Da qui discendono uno stile di vita e un impegno nella società. L’indignazione diffusa, il ‘se non ora quando’ che non vale solo per il movimento delle donne, l’esigenza inderogabile di reagire alle condizioni di precarietà, l’urgenza di una scuola che funzioni, indicano con evidenza quali siano i ‘soggetti’ interessati a sottrarsi alla gelatina populistica che ormai ci avvolge. Quasi tutti. Ed è a loro che il pensiero debole si rivolge chiedendo che ciascuno si faccia carico della propria supposta ‘impotenza’, non affidandosi alle ideologie ma praticando, giorno per giorno, una valorizzazione e una socializzazione dei propri bisogni.”
Pier Aldo Rovatti insegna Filosofia teoretica e Filosofia contemporanea all’Università di Trieste. Ha studiato fenomenologia a Milano con Enzo Paci iniziando fin dagli anni Sessanta a collaborare con la rivista di filosofia e cultura «aut aut», di cui è direttore dal 1976. Collabora con i quotidiani “Il Piccolo” e “la Repubblica”. Coordina il Laboratorio di filosofia contemporanea e l’Osservatorio sulle pratiche filosofiche a Trieste. È membro del comitato scientifico di vicino/lontano. Tra le sue ultime pubblicazioni: Possiamo addomesticare l’altro? La condizione globale (2007); Etica minima. Scritti quasi corsari sull’anomalia italiana (2010); Noi i barbari. La sottocultura dominante (2011). Nel 2010 è uscito il primo volume a lui interamente dedicato (René Scheu, Il soggetto debole. Sul pensiero di Pier Aldo Rovatti, Milano: Mimesis, 2010) che contiene anche la prima storia dettagliata della ricezione del pensiero debole.
La collana ‘vicino lontano’ è edita da Forum ed è diretta da Marco Pacini con la consulenza scientifica di Stefano Allievi, Giovanni Leghissa, Giangiorgio Pasqualotto, Pier Aldo Rovatti e Davide Zoletto. Si propone di forzare il linguaggio e i confini della comunicazione accademica e specialistica per raggiungere anche il grande pubblico, con contributi rigorosi e allo stesso tempo facilmente fruibili, per rompere le barriere dei luoghi comuni, degli stereotipi e delle semplificazioni mediatiche che ostacolano una vera comprensione del reale.
In catalogo vi sono 11 titoli. Tra gli autori Carlo Galli, Slavoj Žižek, Renzo Guolo, Marco Cicala. “Inattualità del pensiero debole” sarà nelle librerie di tutta Italia a partire dalla fine di gennaio. E’ invece già in vendita a Udine presso le librerie Friuli, Moderna, Tarantola, Cluf, Friullibris