I limiti delle posizioni contrapposte di Ferraris e Vattimo sul pensiero postmoderno
Modellare il reale in forme diverse non è un peccato bensì un dovere della ragione
Modellare il reale in forme diverse non è un peccato bensì un dovere della ragione
Giulio Giorello, Il Corriere della Sera, 24 giugno 2012
Giulio Giorello |
Come è morto Ramsete II? Di tubercolosi, dicono gli esperti delle
varie discipline che scandagliano il pozzo del passato. Niente affatto,
ribatteva il «sociologo della conoscenza» Bruno Latour circa una decina
di anni fa: il bacillo responsabile di quella malattia (Mycobacterium
tubercolosis) è stato scoperto solo nel 1882 da Robert Koch. Maurizio
Ferraris, nel recentissimo Manifesto del nuovo realismo
(Laterza), commenta sarcasticamente che «se la nascita della malattia
coincidesse con la sua scoperta, si dovrebbero sospendere immediatamente
tutte le ricerche mediche, perché di malattie ne abbiamo più che a
sufficienza». Ma il bacillo di Koch uccideva prima e può continuare a
uccidere anche dopo che è stato individuato, proprio come,
indipendentemente dalla consapevolezza dei chimici che l’acqua è un
composto di idrogeno e di ossigeno, questa sostanza comunque bagna «e io
non potrò asciugarmi — ci dice ancora Ferraris — con il solo pensiero
che l’idrogeno e l’ossigeno in quanto tali non sono bagnati».
Questa è la tesi del Manifesto: «Non si può fare a meno del
reale, del suo starci di fronte. Se c’è il sole, la sua luce è
accecante; se la lasciamo troppo sul fuoco, la caffettiera scotta. Non
c’è alcuna interpretazione da opporre a questi fatti: le uniche
alternative sono gli occhiali da sole e le presine». Insomma, la realtà
con cui facciamo i conti, sia nell’impresa tecnico-scientifica sia
nell’esistenza quotidiana, è una sorta di «reale che non ha voglia di
svaporare in reality».
Un grido di dolore non meno accorato si leva da un altro odierno manifesto, Democrazia!
(con tanto di punto esclamativo), per la penna di Paolo Flores d’Arcais
(Add editore). Solo se manteniamo lo scarto tra cose e parole, possiamo
smascherare l’«alchimia» creata dalla propaganda: «La lotta politica
per la democrazia e la lotta filologica per il significato della parola
sono terreni diversi dello stesso scontro», dichiara Flores, che teme
l’arroganza di qualsiasi Grande Fratello. Né vale ribattere che «non ci
sono fatti, ma solo interpretazioni», almeno quando si ha a che fare con
l’acqua che bagna o con i bacilli che minacciano la nostra salute… Ma
che dire quando in gioco sono espressioni come buon governo, virtù
politica o democrazia?
Per difendere il nostro patrimonio di significati c’è davvero bisogno di
un’idea «forte» di verità? Per esempio, occorreva già qualcosa del
genere per opporsi ai totalitarismi del Novecento o ce n’è urgenza oggi
contro i vari dittatorelli del Medio Oriente, o contro l’ancor più
subdolo dispotismo di democrazie in via di avanzata decomposizione? Non
basterebbe la tenace volontà di non cedere mai, ovvero la decisione di
resistere a qualunque potere che si spaccia per irresistibile?
La questione non è puramente accademica. Un conto sono le verità di «puro buon senso», come direbbe il Kit Carson amico di Tex Willer, o le stesse affermazioni della scienza, un conto la Verità (con la maiuscola), quella invocata, per esempio, da tutti coloro che si sentono assolutamente convinti del «fatto» che Dio starebbe dalla loro parte. Non potrebbero emergere così forme di dominio ancor peggiori di quelle che in nome della fede si vorrebbero abbattere?
Proprio per questo Gianni Vattimo non risparmia le varie manifestazioni di «nevrosi fondamentalista che percorre la società tardo-industriale», tra le quali include il realismo filosofico, che per lui è solo una «possibile ideologia della maggioranza silenziosa», come scrive nel suo Della realtà (Garzanti).
La disputa, non solo italiana, finisce con l’investire i territori
elusivi della politica e dell’etica. Per questo essa non si riduce a
mere contrapposizioni personali. Il «nuovo realista — precisa Ferraris —
non si limita a dire che la realtà esiste», ma insiste sulla tesi che
«non è vero che essere e sapere si equivalgono». Il suo avversario
potrebbe ricorrere, a questo punto, a Paul Feyerabend (un pensatore che
Vattimo ben conosce), piuttosto che ai soliti numi del postmoderno, come
Lyotard o Baudrillard, per i quali il reale si sarebbe ormai dissipato
come fumo virtuale. Invece, è proprio il realismo che porta acqua alla
tesi per cui nell’avventura umana — e non solo nella dinamica della
conoscenza scientifica — emergono schemi di pensiero «incommensurabili»,
in cui cose e parole variano radicalmente di significato. Noi
definiamo, infatti, il valore di qualsiasi oggetto dal suo uso, e la
portata di un concetto o di un nome dall’impiego linguistico che ne
facciamo. Feyerabend l’ha mostrato trattando di come la nuova scienza
della natura di Galileo spazzò via l’opposizione degli aristotelici o di
come la «sovversiva» fisica quantistica mandò in pezzi la costellazione
dei pregiudizi dei fisici più legati alla tradizione. Ma è anche stato
estremamente abile nello sfruttare il patrimonio di esperienze e
informazioni che ci vengono dal lavoro degli antropologi.
Qui in poche righe non possiamo addentrarci nei dettagli. Ci limitiamo
allora all’apologo narrato da Merrill de Maris (sceneggiatura) e Floyd
Gottfredson (soggetto e matite) per la Walt Disney, Il selvaggio Giovedì (1940) — che il lettore del «Corriere» ha avuto modo di apprezzare negli allegati «Gli anni d’oro di Topolino»
(2010). In breve, i nervi del nostro Topo sono messi a dura prova da
Giovedì, capitatogli in casa per sconvolgere l’uso abituale di cose e
termini. Così, il preteso «selvaggio» scambia la pelliccia leopardata di
una superba dama per l’animale vero e proprio e non esita a colpire con
la sua lancia le prosperose natiche della signora. Per non dire che
impiega vetri, penne, matite, ciabatte, eccetera in modi nuovi ma a lui
perfettamente funzionali.
In questo modo, la lancia di pietra del selvaggio Giovedì non solo
mostra quanto convenzionali e fragili siano alcuni dei nostri più
consolidati valori, ma manda in pezzi… anche le tesi opposte dei due
miei cari amici, Vattimo e Ferraris. Se è vero che essere e sapere non
coincidono, che questo scarto è una delle più forti molle per
l’innovazione nella scienza e nell’arte e che tutto lascia aperta una
via di scampo nel mondo stesso della politica, cercare schemi
concettuali «incommensurabili», escogitare usi e dunque significati
nuovi, modellare in maniere differenti il reale che pure così
ostinatamente ci resiste, non è un peccato bensì un dovere della
ragione, una genuina esperienza di libertà, che vale più di qualsiasi
imbalsamata «verità».
2 commenti:
Ottimo il "riassunto" sul realismo filosogico per chi non sa cosa sia...
This is awesoome
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