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venerdì 24 gennaio 2014

Ermeneutica o nuovo realismo?


di GIANNI VATTIMO

In questo video Gianni Vattimo si interroga sui motivi d’esistenza del nuovo realismo.

Il video, prodotto con il contributo di Giacomo Pisani, è stato realizzato grazie alla collaborazione tra MicroMega - Il Rasoio di Occam e il progetto culturale www.filosofiainmovimento.it.

lunedì 24 giugno 2013

Gianni Vattimo: maestri, amori, disperazione del fondatore del pensiero debole

“La mia vita è piena di sensi di colpa, finirò per fare il predicatore religioso”

Intervista a Gianni Vattimo di Antonio Gnoli, La Repubblica

                                                                                                                                                               Fonte: LaVanguardia.com



Ormai fa coppia fissa con Sancho. Mentre siamo a tavola davanti a un piatto di involtini primavera cucinati dalla domestica filippina — una suora laica, scoprirò più avanti — Sancho scuote pigramente la testa e guarda incuriosito l’intruso, che poi sarei io. «Non è geloso, glielo assicuro», dice Gianni Vattimo, «è solo che gli piace essere al centro dell’attenzione. I gatti sono così: un misto di curiosità, indifferenza e abitudine». La conversazione va avanti già da un po’. Prima nella penombra del salotto. Poi qui nella stanza dove ceniamo, ricompresa nel vasto appartamento torinese. C’è un poster colore rosso acido che attira la mia attenzione: ritrae Vattimo, sotto una frase di Keynes: «La repubblica dei miei sogni si colloca all'estrema sinistra della volta celeste». «Fu un dono di certi amici per i miei settant'anni», ricorda il professore.

martedì 30 aprile 2013

Gianni Vattimo ospite a Le teorie di Darwin

Il video della trasmissione di 4Rete Le teorie di Darwin, ospite Gianni Vattimo.

                                                                            Fonte: YouTube/4Rete

martedì 5 marzo 2013

Gianni Vattimo: «Grillo non è Lenin»

04/03/2013, Lettera43
Intervista a Gianni Vattimo di Antonietta Demurtas

Gianni Vattimo

Al filosofo Gianni Vattimo piace sempre più l'antitesi che la sintesi. In politica l'europarlamentare dell'Italia dei valori (Idv) ha esercitato l'arte della dialettica per criticare tutto e tutti: prima delle elezioni contro «il montismo, il bersanismo e il napolitanismo» ha auspicato il successo della lista di Antonio Ingroia. Che insieme al Movimento 5 stelle era «l'unica novità della campagna elettorale».
Ma ora che il magistrato siciliano è rimasto fuori dal parlamento e l'ingovernabilità regna sovrana, anche Vattimo sospende il giudizio sui primi passi del movimento di Beppe Grillo: «Certo se penso al loro programma in effetti mi sembra il migliore, tranne le cose più stravaganti come la presa di posizione contro il latte di mucca», ha detto a Lettera43.it, «ora però è difficile valutare perché non si capisce cosa diavolo vogliano fare».

Più che una rivoluzione una vera confusione?
Mi sembra che in questo momento si stia troppo enfatizzando la novità di Grillo. È diventata una specie di moda, se uno per strada dice 'non credo a Grillo', lo picchiano direttamente.

Quindi lei non ci crede?
Non è quello il punto, è che trovo esagerato che tutti si precipitano a studiare il fenomeno. Io prima di parlare li metterei alla prova.

Per entrare in parlamento però serve un voto di fiducia che i grillini non vogliono dare.
Il M5s non vuole mischiarsi con gli altri partiti, nè collaborare. Da un lato ha ragione perché squadra che vince non si cambia. Grillo ha vinto per la sua diversità rispetto al sistema politico esistente, e ora stenta ad abbandonare quella condizione. Ho però l'impressione che prima o poi dovrà mostrare un'apertura.

mercoledì 20 febbraio 2013

Elezioni, Vattimo: “Un voto di resistenza antimontiana”

18/02/13, Micromega

colloquio con Gianni Vattimo di Rossella Guadagnini


Gianni Vattimo
Il countdown è cominciato. La settimana che manca al voto significa per i partiti l’ultima occasione per rafforzare le proprie posizioni, conquistare gli indecisi, contrastare la spinta all’astensionismo. L’incognita del Senato pesa come un macigno sulla formazione del futuro governo. Nella convulsa campagna elettorale cui abbiamo finora assistito due sono le novità: Beppe Grillo con il M5S e Antonio Ingroia con Rivoluzione Civile. E il resto? E’ noia, secondo il filosofo Gianni Vattimo, che spiega a MicroMega come sulle politiche economiche ci sia ben poco di diverso tra le proposte di Bersani e quelle di Monti. Per scongiurare un futuro di conflitti sociali, avvisa l’europarlamentare Idv, serve una forte affermazione delle componenti della sinistra, a partire da Rivoluzione Civile.


Destra e sinistra: qualcuno sostiene che siano concetti obsoleti, non più in grado di descrivere la realtà, specie per i giovani.

La differenza tra destra e sinistra è l’unica cosa in cui possiamo ancora credere. Destra e sinistra oggi sono più vive che mai e si vede benissimo. La destra, in questo momento, significa Europa, Monti, banche e messa in ordine dei conti. Uno schieramento che domina perché ha il controllo dei media. La sinistra, invece, significa più politica sociale, meno disuguaglianze, sostegno ai diritti civili e una patrimoniale seria. Il patto con la Svizzera per il rientro dei capitali, noi non l’abbiamo fatto. L’hanno fatto Inghilterra e Francia, tassandoli al 20 per cento. La destra ha una natura darwiniana e razzista: vuole usare le differenze naturali per lo sviluppo. La sinistra vuole correggere le differenze naturali in modo che tutti possano competere cominciando dallo stesso livello. 

martedì 5 febbraio 2013

Eco è sempre Eco

31/01/2013, L'Espresso
di Gianni Vattimo

Due fasi nel pensiero del grande intellettuale? No. Leggendo la raccolta degli "Scritti sul pensiero medievale", dice il filosofo, si nota la coerenza del metodo. Tomista.



Dovremo dunque riconoscere che c'è un primo Eco e un secondo Eco, così come si parla comunemente di un primo e secondo Heidegger o di un primo e secondo Wittgenstein? Una questione rilevante, perché è certo che uno degli elementi che tengono viva la ricerca su un autore, e dunque la fortuna delle sue idee, oltre alla mole del suo eventuale "Nachlass" di inediti da scoprire decifrare, pubblicare (Nietzsche, Benjamin come sommi esempi), è anche la questione dell'eventuale evoluzione o trasformazione interna del suo pensiero, con tutti i risvolti biografici e storico-generali (qui soprattutto Heidegger: il secondo Heidegger è nato con la scelta nazista?).


A tutte le ragioni della già stragrande popolarità di Eco se ne aggiunge dunque una che finora non era apparsa, e ciò accade principalmente con la pubblicazione, nella collana Bompiani del Pensiero occidentale diretta da Giovanni Reale, dei suoi "Scritti sul pensiero medievale". Sono 1.332 pagine di testi che, partendo dalla tesi di laurea (uscita nel 1956) su "Il problema estetico in Tommaso d'Aquino" (discussa a Torino sotto la guida di Luigi Pareyson) e fino alla "Intervista (immaginaria) a Tommaso d'Aquino" per il "Corriere della Sera", (2010) includono tutto (o solo probabilmente tutto) l'Eco medievalista, costituendo una sorpresa non solo per i lettori dei suoi scritti più recenti (filosofia, semiotica, romanzi, giornali, enciclopedie e storie della cultura) ma anche per coloro che lo hanno seguito fin dagli inizi della sua carriera di pensatore. (Sia detto tra parentesi, chi scrive fu uno dei primi recensori del libro su San Tommaso e degli studi sull'Estetica medievale negli anni Cinquanta del secolo-millennio scorso. "Quantum mutatus ab illo", dice Enea a Ettore nell'Eneide).

giovedì 29 novembre 2012

"Sólo un comunismo débil puede salvarnos"


La Vanguardia, 29 novembre 2012
Intervista a Gianni Vattimo
di Vìctor-M. Amela


De verdad es comunista?
¿Qué otra cosa se puede ser, tal como van las cosas?

El comunismo dejó 70 millones de muertos...
No fue el comunismo.

¿Qué, entonces?
El industrialismo. Lenin propuso electrificación más sóviets, es decir, control popular..., ¡pero el control popular se esfumó!

¿Y qué quedó?
El industrialismo: Stalin impuso el desarrollo de la industria pesada contra el agro, y de ahí los desplazamientos de poblaciones, los sacrificios, muertes... ¡Un sueño loco!

Un horror.
Pero... sin aquella fuerza industrial estalinista, ¡los nazis hubiesen ganado!

mercoledì 28 novembre 2012

Il nuovo realismo e la sfida dell'esistenza


Per concessione dell'autore, sempre in merito al dibattito sul realismo, pubblico qui un contributo molto interessante di Giacomo Pisani apparso qualche giorno fa sul sito filosofia.it

 

Il nuovo realismo e la sfida dell'esistenza

di Giacomo Pisani

L’incalzare della riflessione sul “nuovo realismo”, a livello nazionale, ci pone di fronte a questioni in cui è implicato il nostro stesso stare al mondo, costringendoci a rifuggire qualsiasi riduzionismo.

Il nuovo realismo di Ferraris (da qualche mese è uscito il “Manifesto del nuovo realismo”) sembra voler rilanciare la sfida col reale nella semplicità di uno schema che riduce gli oggetti in tre classi: gli oggetti naturali, esistenti nello spazio e nel tempo indipendentemente dai soggetti; gli oggetti sociali, la cui esistenza nello spazio e nel tempo dipende invece dai soggetti stessi; e gli oggetti ideali, che esistono fuori dello spazio e del tempo indipendentemente dai soggetti. Ora, per Ferraris, il disincanto dall’illusione postmodernista, che affermando che “non ci sono fatti, solo interpretazioni”, ci ha esposti al populismo e al negazionismo, passa attraverso il ritorno all’evidenza degli oggetti naturali. La costituzione di questi ultimi costituisce l’ “inemendabile”, che eccede qualsiasi costruzione categoriale. L’indipendenza dell’oggetto rispetto agli schemi del soggetto e, in generale, della epistemologia, costituisce dunque un criterio di oggettività che resiste a qualsiasi tentativo di interpretazione e di falsificazione.

martedì 27 novembre 2012

Nuovo realismo o vecchio marketing?

Pubblico qui di seguito, a puro scopo informativo, la replica di Mario De Caro al mio articolo apparso su La Stampa il 22 novembre scorso, nonchè la mia successiva risposta.
GVattimo 


Caro Vattimo, si può filosofare anche sul semaforo


La Stampa, 23 novembre 2012
di Mario De Caro


«Bruto è uomo d’onore» declama ripetutamente il Marcantonio di Shakespeare, nel suo discorso al rumoreggiante popolo romano, attonito per l’uccisione di Cesare e ancora indeciso sul da farsi. Ma in realtà, si sa, con la sua grande prova di eloquenza Marcantonio sta demolendo tutto quanto Bruto ha detto. Le sue lodi sono solo una captatio benevolentiae per i suoi uditori.


Mi dispiace dunque rischiare di apparire un tardo emulatore di Marcantonio se dico che ho sempre ammirato Gianni Vattimo per la chiarezza e la profondità delle sue idee (il suo libro su Heidegger, per esempio, mi è sempre sembrato quanto di meglio mai scritto sul criptico autore di Essere e tempo). Data dunque la mia alta opinione che ho di lui, ho trovato francamente sorprendente l’intervento di Vattimo sulla Stampa di ieri, in cui menzionava la raccolta di saggi Bentornata realtà, che ho appena curato con Maurizio Ferraris per Einaudi.

martedì 17 luglio 2012

È Topolino il filosofo del relativismo

I limiti delle posizioni contrapposte di Ferraris e Vattimo sul pensiero postmoderno
Modellare il reale in forme diverse non è un peccato bensì un dovere della ragione
 
Giulio Giorello, Il Corriere della Sera, 24 giugno 2012
 
Giulio Giorello
Come è morto Ramsete II? Di tubercolosi, dicono gli esperti delle varie discipline che scandagliano il pozzo del passato. Niente affatto, ribatteva il «sociologo della conoscenza» Bruno Latour circa una decina di anni fa: il bacillo responsabile di quella malattia (Mycobacterium tubercolosis) è stato scoperto solo nel 1882 da Robert Koch. Maurizio Ferraris, nel recentissimo Manifesto del nuovo realismo (Laterza), commenta sarcasticamente che «se la nascita della malattia coincidesse con la sua scoperta, si dovrebbero sospendere immediatamente tutte le ricerche mediche, perché di malattie ne abbiamo più che a sufficienza». Ma il bacillo di Koch uccideva prima e può continuare a uccidere anche dopo che è stato individuato, proprio come, indipendentemente dalla consapevolezza dei chimici che l’acqua è un composto di idrogeno e di ossigeno, questa sostanza comunque bagna «e io non potrò asciugarmi — ci dice ancora Ferraris — con il solo pensiero che l’idrogeno e l’ossigeno in quanto tali non sono bagnati».
 
Questa è la tesi del Manifesto: «Non si può fare a meno del reale, del suo starci di fronte. Se c’è il sole, la sua luce è accecante; se la lasciamo troppo sul fuoco, la caffettiera scotta. Non c’è alcuna interpretazione da opporre a questi fatti: le uniche alternative sono gli occhiali da sole e le presine». Insomma, la realtà con cui facciamo i conti, sia nell’impresa tecnico-scientifica sia nell’esistenza quotidiana, è una sorta di «reale che non ha voglia di svaporare in reality».
 
Un grido di dolore non meno accorato si leva da un altro odierno manifesto, Democrazia! (con tanto di punto esclamativo), per la penna di Paolo Flores d’Arcais (Add editore). Solo se manteniamo lo scarto tra cose e parole, possiamo smascherare l’«alchimia» creata dalla propaganda: «La lotta politica per la democrazia e la lotta filologica per il significato della parola sono terreni diversi dello stesso scontro», dichiara Flores, che teme l’arroganza di qualsiasi Grande Fratello. Né vale ribattere che «non ci sono fatti, ma solo interpretazioni», almeno quando si ha a che fare con l’acqua che bagna o con i bacilli che minacciano la nostra salute… Ma che dire quando in gioco sono espressioni come buon governo, virtù politica o democrazia?
 
Per difendere il nostro patrimonio di significati c’è davvero bisogno di un’idea «forte» di verità? Per esempio, occorreva già qualcosa del genere per opporsi ai totalitarismi del Novecento o ce n’è urgenza oggi contro i vari dittatorelli del Medio Oriente, o contro l’ancor più subdolo dispotismo di democrazie in via di avanzata decomposizione? Non basterebbe la tenace volontà di non cedere mai, ovvero la decisione di resistere a qualunque potere che si spaccia per irresistibile?

La questione non è puramente accademica. Un conto sono le verità di «puro buon senso», come direbbe il Kit Carson amico di Tex Willer, o le stesse affermazioni della scienza, un conto la Verità (con la maiuscola), quella invocata, per esempio, da tutti coloro che si sentono assolutamente convinti del «fatto» che Dio starebbe dalla loro parte. Non potrebbero emergere così forme di dominio ancor peggiori di quelle che in nome della fede si vorrebbero abbattere?
Proprio per questo Gianni Vattimo non risparmia le varie manifestazioni di «nevrosi fondamentalista che percorre la società tardo-industriale», tra le quali include il realismo filosofico, che per lui è solo una «possibile ideologia della maggioranza silenziosa», come scrive nel suo Della realtà (Garzanti).
 
 La disputa, non solo italiana, finisce con l’investire i territori elusivi della politica e dell’etica. Per questo essa non si riduce a mere contrapposizioni personali. Il «nuovo realista — precisa Ferraris — non si limita a dire che la realtà esiste», ma insiste sulla tesi che «non è vero che essere e sapere si equivalgono». Il suo avversario potrebbe ricorrere, a questo punto, a Paul Feyerabend (un pensatore che Vattimo ben conosce), piuttosto che ai soliti numi del postmoderno, come Lyotard o Baudrillard, per i quali il reale si sarebbe ormai dissipato come fumo virtuale. Invece, è proprio il realismo che porta acqua alla tesi per cui nell’avventura umana — e non solo nella dinamica della conoscenza scientifica — emergono schemi di pensiero «incommensurabili», in cui cose e parole variano radicalmente di significato. Noi definiamo, infatti, il valore di qualsiasi oggetto dal suo uso, e la portata di un concetto o di un nome dall’impiego linguistico che ne facciamo. Feyerabend l’ha mostrato trattando di come la nuova scienza della natura di Galileo spazzò via l’opposizione degli aristotelici o di come la «sovversiva» fisica quantistica mandò in pezzi la costellazione dei pregiudizi dei fisici più legati alla tradizione. Ma è anche stato estremamente abile nello sfruttare il patrimonio di esperienze e informazioni che ci vengono dal lavoro degli antropologi.
 
Qui in poche righe non possiamo addentrarci nei dettagli. Ci limitiamo allora all’apologo narrato da Merrill de Maris (sceneggiatura) e Floyd Gottfredson (soggetto e matite) per la Walt Disney, Il selvaggio Giovedì (1940) — che il lettore del «Corriere» ha avuto modo di apprezzare negli allegati «Gli anni d’oro di Topolino» (2010). In breve, i nervi del nostro Topo sono messi a dura prova da Giovedì, capitatogli in casa per sconvolgere l’uso abituale di cose e termini. Così, il preteso «selvaggio» scambia la pelliccia leopardata di una superba dama per l’animale vero e proprio e non esita a colpire con la sua lancia le prosperose natiche della signora. Per non dire che impiega vetri, penne, matite, ciabatte, eccetera in modi nuovi ma a lui perfettamente funzionali.
 
 In questo modo, la lancia di pietra del selvaggio Giovedì non solo mostra quanto convenzionali e fragili siano alcuni dei nostri più consolidati valori, ma manda in pezzi… anche le tesi opposte dei due miei cari amici, Vattimo e Ferraris. Se è vero che essere e sapere non coincidono, che questo scarto è una delle più forti molle per l’innovazione nella scienza e nell’arte e che tutto lascia aperta una via di scampo nel mondo stesso della politica, cercare schemi concettuali «incommensurabili», escogitare usi e dunque significati nuovi, modellare in maniere differenti il reale che pure così ostinatamente ci resiste, non è un peccato bensì un dovere della ragione, una genuina esperienza di libertà, che vale più di qualsiasi imbalsamata «verità».

mercoledì 20 giugno 2012

Vattimo: le risposte della filosofia

ViviMilano, 20 giugno 2012. Di Ida Bozzi

Che cosa sta succedendo nel mondo e nella concezione del mondo? Come il pensiero contemporaneo si confronta con elementi quali la crisi del capitalismo e il cosiddetto ”nuovo ordine mondiale”? L’occasione per capire uno dei fronti di elaborazione in cui si trova il pensiero filosofico, è la presentazione del nuovo saggio del filosofo Gianni Vattimo, ”Della realtà. Fini della filosofia” (Garzanti), nell’incontro di giovedì 21 alla Fnac con il pubblico milanese. 

“Proprio in tempi di crisi – ha illustrato Vattimo a ViviMilano, anticipandoci i temi del libro – come quella che stiamo vivendo, che tutti riconoscono come crisi strutturale, mi sembra importante la filosofia. Che certo non ha suggerimenti immediati da fornire – su come ridurre il debito, come rifinanziare (ancora una volta!) le banche, eccetera – ma ci chiede una riconsiderazione generale del nostro modo di vivere e dei nostri sistemi di valori. Potremmo dire che attraverso questo saggio si ha una panoramica del ”prima” e del ”dopo”, a partire dal ”pensiero debole” della fine del Novecento per arrivare all’oggi, un tempo che il filosofo descrive nel libro come il «ritorno all'ordine che nella cultura, non solo filosofica, si è fatto sentire in questi ultimi anni – effetto forse dell’11 settembre? Della lotta contro il terrorismo internazionale? Della crisi finanziaria che sembra si possa battere solo con un ”nuovo realismo”?».

Insomma, in un saggio che non è di pura divulgazione ma nemmeno solo teoretico, Vattimo prende posizione su quello che sta accadendo nel mondo, non solo del pensiero, con il ritorno al ”realismo” e i richiami al rigore, allo stringere la cinghia e così via. Qual è, in breve, la sua posizione, lo anticipa lo stesso filosofo, che conclude illustrandoci il senso del suo libro: “Richiamando i (miei) lettori a non lasciarsi imporre le pretese ricette ”realiste”, che si fondano sempre su una interpretazione (situata, socialmente e storicamente; e dunque interessata) della realtà e non, come pretendono, sulla conoscenza oggettiva delle cose (la conoscenza che sarebbe propria dei ”tecnici” neutrali), invita a professare la filosofia come progetto attivo di modifica del mondo com’è e non come contemplazione inerte dell’ordine (!) esistente”. La filosofia, insomma, si occupa come non mai delle questioni più scottanti del presente, e il dibattito è aperto e caldissimo.

Pensiero debole ma idee forti

Il nuovo Vattimo


LA VERITÀ vi farà liberi, sta scritto nel Vangelo. Il problema è come trovarla senza subire gli inganni del potere. È uno dei grandi temi di Della realtà (Garzanti), nuovo libro di Gianni Vattimo, filosofo e eurodeputato (Italia dei Valori). Un saggio sulle trasformazioni della società contemporanea firmato da un pensatore, classe 1936, che continua a definirsi "resistente". Prende posizione - dai No Tav ai palestinesi, all'eutanasia -, e dà spazio ai giovani. Giovedì alla Fnac (ore 18) lo presenterà Tommaso Portaluri, studente di 18 anni, appena nominato per meriti scolastici Alfiere della Repubblica. 
 
Professor Vattimo, cos'è "Della realtà"? «Raccoglie i corsi che ho tenuto a Lovanio (1998) e Glasgow (2010) nelle Gifford Lectures, una specie di premio Nobel per la filosofia. Non è un'opera di divulgazione per il grande pubblico, ma nemmeno un documento teoretico per gli addetti ai lavori o i biografi. È un itinerario filosofico sul senso e il risultato di una vita di lavoro». 
 
Di lei dicono tutti: è l' inventore del pensiero debole. Ovvero? «Il pensiero debole è un mix di ermeneutica, l'analisi critica della realtà, e nichilismo. I miei maestri sono Heidegger e Nietzsche. Le teorie di quest'ultimo ruotano attorno alla celebre: 'Non esistono fatti, solo interpretazioni' . Salvo poi aggiungere: 'Anche questa è un' interpretazione' . L'avversario da battere è il ritorno all'ordine nella cultura, non solo filosofica. Effetto dell'11 settembree della lotta contro il terrorismo? della crisi finanziaria?». 
 
Uno dei capitoli di Glasgow si sofferma sull' importanza, sottovalutata dai non filosofi, delle virgolette. «La costante pratica dell'interpretazione ci permette di superare la dittatura del presente, passando dalla "realtà" alla realtà. Chiunque dovrebbe mettersi in discussione, rifiutando la perentorietà dei dati. Se hai un solo televisore, vale come fonte della verità. Se ne hai venti, sei libero come il superuomo di Nietzsche, scegli in chi credere. I miei colleghi sostenitori del "neorealismo" cercano un'oggettività che nessuna scienza o tecnologia potrebbe avere». 
 
Perché la filosofia piace tanto alla gente, occupando classifiche e festival? «Hanno successo i filosofi perbenisti, che coltivano valori mainstream promuovendo i loro libri da Fabio Fazio, non quelli che si ribellano. Il vero filosofo è maledetto, prende le distanze dal sistema, guarda le cose del mondo con scetticismo». 
 
Come si concilia il suo "cattocomunismo" con l'Idv di Antonio Di Pietro? «Sono stato eletto come indipendente nell'unico partito di opposizione. La politica è un impegno morale e non totalmente fallimentare, nonostante i limiti delle rivoluzioni. Sappiamo come sono andate a finire quella sovietica e cinese o i tentativi riformisti della sinistra italiana. L'Unione Europea è un insieme di agenzie burocratico bancarie incapaci di realizzare un socialismo dal volto umano. Il comunismo, la società senza classi, restano l' unico orizzonte contro il dio mercato». 
 
Come passerà l'estate? «Insegnerò in Colombia, a Vilnius e in Austria, dove terrò un seminario su Wittgenstein. Tra un'università e l'altra vorrei rileggere i classici. Ho nostalgia di quando vent'anni fa tornavo dal mare con l'ansia di proseguire Guerra e pace. Merito di Tolstoj, del tramonto di Santorini o, forse, di uno stato d'animo diverso. Anche i filosofi credono nella felicità».

"Il pensiero debole è ancora forte" (Pier Aldo Rovatti)

La Repubblica, 16 giugno 2012

Pier Aldo Rovatti
Non possiamo far finta che non si stia combattendo un sintomatico conflitto di idee. Esso esisteva ancor prima che venisse alla superficie attraverso articoli, saggi e libri. Con il Manifesto del nuovo realismo (Laterza) Maurizio Ferraris ha il merito di averlo fatto emergere e di avere surriscaldato la scena. Umberto Eco, nel suo intervento intitolato Di un realismo negativo (in “alfabeta2”, n. 17, e su questo stesso giornale), ha stemperato i toni. Gianni Vattimo, pubblicando (da Garzanti) Della realtà, cioè quello che ha detto e scritto nell’ultimo decennio, ha documentato la propria dissidenza filosofica con la consueta chiarezza, ed è a partire da questo libro che vorrei esprimere alcune mie considerazioni.
Lascio perdere le punte polemiche (per esempio, Vattimo che pubblica sul manifesto una lettera a Eco, e Ferraris che gli risponde contestualmente, come a dire «se vuoi parlare con me, fallo direttamente»). E vengo subito al conflitto delle idee: in gioco mi pare soprattutto la domanda «dove sta andando la filosofia?» e, più precisamente, «che fine stanno facendo il “sociale” e il “politico” in questa svolta di pensiero? ». Nessuno dei contendenti si sogna di dichiararsi “contro il realismo”: da una parte, però, si propone di salvare il nocciolo “ontologico” della questione sbarazzandosi di tutto quanto è avvenuto dal ’68 a oggi, dall’altra si valuta con preoccupazione quel che si perderebbe procedendo così.
A detta di Vattimo si rinuncerebbe al potenziale di trasformazione che la filosofia può ancora avere e che anzi, proprio adesso, in tempi in cui la crisi tende a comprimere anche gli spazi di pensiero, dovremmo cercare di attivare e valorizzare. Il suo punto di vista è netto: per lui rischiamo di ingabbiarci in un atteggiamento ultraconservativo dal sapore accademico, se togliamo alla filosofia quel mandato sociale e politico costruito in decenni di lavoro ermeneutico e fenomenologico, attraverso la rilettura critica di Nietzsche e di Heidegger, gli apporti mutuati dalla microfisica del potere di Foucault e dal decostruzionismo di Derrida, senza dimenticare il ruolo non marginale giocato da Benjamin. Tutto questo percorso – che ora si vorrebbe devitalizzare (omologandolo in un generico postmodernismo) – conduce secondo Vattimo proprio a una descrizione critica della “realtà”, nella sua complessità ma soprattutto nei suoi dispositivi oggettivanti e che limitano la libertà dei soggetti in quanto cittadini in lotta per i loro diritti.
 
Umberto Eco
Come è noto, anche se non mi sono mai del tutto identificato filosoficamente con Vattimo (per formazione e scelte specifiche), ne condivido nella sostanza l’impianto (cfr. in Della realtà soprattutto le “Lezioni di Glasgow” del 2010): è una posizione che permette, nell’attuale conflitto di idee, di vedere bene i rischi del disboscamento in atto e soprattutto di illuminare il tratto più sorprendente di questa “pulizia” culturale, e cioè la rimozione della soggettività. Sembra infatti che il realismo ora rilanciato voglia e possa fare a meno della soggettività, quasi fosse inglobata o sottintesa e non una questione aperta e cruciale. Un realismo senza soggetto, per dir così, chiude o comunque squalifica come irrilevanti i problemi che, secondo Vattimo (e secondo me), dovrebbero invece essere considerati vitali per il discorso filosofico: quelli, per esempio, dell’identità e dell’alterità e di cosa può significare oggi socializzazione o legame sociale; oppure quelli della prossimità e della distanza e di cosa, appunto, può voler dire “soggetto” nel momento in cui è chiaro che nessuno può essere più padrone a casa propria e che l’idea di individuo neoliberale sembra ormai andare in frantumi.
Ipotizzo che Vattimo si sia rivolto a Eco (nella lettera che ho sopra ricordato) perché gli attribuisce una sensibilità sull’intera questione, nonostante il fatto che Eco appaia schierato nel campo avverso. Una sensibilità innanzi tutto “storica”: una cautela nel buttar via il bambino con l’acqua sporca, salviamo almeno l’insegnamento in fatto di “ironia” che ci arriva da quella stagione che ora vorremmo frettolosamente cancellare. E poi una sensibilità verso un “realismo minimo”, inteso come un limite «che non ci garantisce che noi possiamo domani possedere la verità».
 
Maurizio Ferraris
Ecco gli ulteriori e imprescindibili fronti della battaglia in corso, molto evidenti nel libro di Vattimo: la storia e la verità. Storia significa provenienza, genealogia, processo sociale attraverso cui si forma la coscienza politica del presente e al di fuori del quale la parola “critica” e anche la stessa parola illuminismo (invocata da Ferraris) rischiano di restare parole senza spessore. “Verità” (con le virgolette!) vuol dire appunto negazione della pretesa di possedere una volta per tutte la verità (senza virgolette). Le due questioni sono ovviamente intrecciate: per combattere le pretese di chi ha creduto o ancora crede di avere in mano la verità, occorre che gli “eventi” vengano ogni volta attraversati dalla storicità e che i soggetti storici ne siano i responsabili effettivi, concreti, politici: tutti i soggetti, non solo quei supposti “funzionari dell’umanità” che chiamiamo filosofi.
Vattimo ha costantemente combattuto questa battaglia e continua a farlo anche in Della realtà. Qualcuno ritiene che sia ormai passato il suo tempo. A me pare lampante che la sostanza del suo programma filosofico sia ancora incisiva, oggi – forse – ancora più di ieri.

lunedì 11 giugno 2012

Vattimo: “Soy un cristiano heterodoxo y nostálgico”

Vattimo: “Soy un cristiano heterodoxo y nostálgico”

Revista Criterio, n. 2382, Jnio 2012; por Poirier, José María - Ryan, Romina

El filósofo italiano Gianni Vattimo afirma que no existen los hechos sino las interpretaciones y que los conceptos absolutos no son viables en la Posmodernidad. Como en años anteriores, Gianni Vattimo visitó Buenos Aires y la Feria del Libro, donde además de dictar una divertida conferencia presentó su libro Della realtà. Fini della filosofia, una compilación de los últimos 15 años de trabajo universitario. Profesor emérito, en la actualidad es representante en el Parlamento Europeo del partido Italia de los Valores, cuyo líder es Antonio Di Pietro, “el único partido de oposición auténtica a Berlusconi y ahora a Monti”, explicó en diálogo con CRITERIO.
–Algunos dicen que hay un Vattimo anterior a la obra Creer que se cree y uno posterior; otros dicen que hay varios. ¿Cuántos Vattimo hay?
–Me gusta muchísimo que se diga que hay diferentes Vattimo, porque eso sucede sólo con algunos grandes filósofos como Heiddeger, Wittgenstein oNiezschte… Yo, sin embargo, creo que hay una continuidad en mi historia intelectual. Cuando terminé mis estudios en la escuela superior decidí inscribirme en la carrera de Filosofía por intereses teológicos y políticos. Más tarde comprendí que como inquietud religiosabuscaba lo que más tarde se llamó Posmodernidad, la idea de poder construir un pensamiento filosófico no tomista, no demasiado tradicionalista, pero sí cristiano. Siempre digo que soy un “cato-comunista”, un católico de izquierda. Si tenemos que hablar de rupturas, en mi historia la primera fue en 1968. Si bien no participé en el movimiento estudiantil, tenía muchos amigos allí. En ese momentoya era catedrático en Turín, gracias al apoyo de una mayoría de católicos de derecha y debido a la influencia del profesor que dirigía mis estudios. Pero después de tres meses alejado de la universidad e internado en un hospital por un problema de salud, al regresar me di cuenta de que había devenido maoísta. Cuando hablé con mi profesor y amigo me dijo: “¿Cómo? ¿Y ahora me lo dices? ¡Qué problema! ¿Qué hago?”. “¡Es que ha sucedido ayer!”, le expliqué. En ese período de enfermedad había leído a Herbert Marcuse, al griego KostasAxelos que había escrito Marx, pensador de la técnica, es decir que se empezaba a reconocer una conexión entre al antitecnicismo de Heidegger y el anticapitalismo de Marx, y aún sigo creyendo que se puede ser marxista o comunista siendo hegeliano. El último libro mío traducido al inglés, HermeneuticCommunism, tiene como subtítulo “De Heidegger a Marx”.
Una primera ruptura entonces sucedió en 1968, cuando se convierte en maoísta. ¿Y después?
–En 1974 se publicó mi libro sobre Nietzsche, escrito entre 1968 y 1972, que era absolutamente revolucionario en tanto el asunto principal eraunir la aspiración revolucionaria de la burguesía –la liberación del sujeto, la liberación sexual, el divorcio– con la revolución proletaria, que era básicamente económica. Obviamente Nietzsche no fue revolucionario en lo personal, pero muchas de sus ideas pueden ser utilizadas en ese sentido. Ese año fue también muy interesante porque empecé a trabajar en estos pensamientos de transformación socio-cultural inspirados por Nietzsche y Heidegger juntos y, finalmente, todo el desarrollo sucesivo fue la elaboración de la conexión entre ambos, algo que ellos nunca hubieran pensado. Cuando algo se combina es difícil distinguirlo de lo que viene después. En este sentido, el conocimiento personal con los estudiantes más radicales se convirtió para mí en una manera de tomar distancia del terrorismo italiano, muy presente en aquellos años. Un día, por ejemplo, uno de mis discípulos me dijo que habían arrestado a un estudiante en Bolonia sólo porque tenía mi número telefónico en su agenda. En 1978 fui amenazado por las Brigadas Rojas porque el discurso era que si había alguien en la izquierda que no estaba con ellos, era un enemigo. Y yo era decano de la Facultad, pertenecía al Partido Radical, que era contestatario pero pacifista, y había aceptado formar parte del primer juicio popular a las Brigadas Rojas. En ese momento empecé a pensar que una revolución no podía ser leninista y violenta porque tendríamos 20 años de guerrilla y otros 20 años de stalinismo. En ese tiempo de reflexión sobre la experiencia del terrorismo escribí un ensayo que para mí es fundamental, Dialéctica y diferencia del pensamiento débil; la dialéctica era el marxismo, a diferencia del pensamiento de nombres como Jacques Derrida o GillesDeleuze, que no terminaban de gustarme porque eran un poco anarquistas pero se abstraían de la lucha política efectiva. El pensamiento débil guardaba relación con la idea de hacer uso de Nietzsche y Heidegger para imaginar una filosofía de la historia que adquiere sentido en la reducción de la violencia y no en la realización, incluso violenta, de un modo pensado antes. Esto era importante política y éticamente. En esos años, además, me pidieron una introducción a la edición de El mundocomo voluntad y representación de Arthur Schopenhauer. En ese momento dejé de ser maoísta ingenuo para convertirme en izquierdista no violento, pero menos ilusionado con la idea de revolución total.
–¿Hubo un tercer quiebre?
–Sí, vinculado a la lectura de RenéGirard: la idea de una interpretación de la religión no en el sentido victimario, sacrificial, sino viendoal cristianismo como superador del carácter violento de las religiones naturales. Cuando uno se pregunta por qué Jesús fue asesinado,es porque precisamente reveló esa visión, algo muy escandaloso.
–¿Qué relación establece entre el pensamiento débil y la teología del anonadamiento, la kénosis?
Tengo que volver a un momento importante, incluso a unrencuentro conmi religiosidad personal.Paradójicamente, cuando estuve viviendo en Alemania a comienzos de los años ’60, donde no leía los diarios italianos porque llegaban demasiado tarde, cuando dejéde tener el problema de discutir con la jerarquía católica italiana y con los católicos de derecha, no fui más a misa. Pero repensando a Girard creo que volví a ser cristiano, y también por mérito de Nietzsche, de Heidegger y hasta de Mao.
–Algunos escribieron que a partir de Creer que se cree usted volvía a la religión pero también que la religión volvía al pensamiento y al debate.
–Esasí en cuantouno intenta relacionar siempre en el discurso la historia personal con la historia de la época. En 1968 era típico: los estudiantes pedían la liberación sexual porque era lo que a ellos les interesaba, pero pensaban que debía ser mundial. Eso refleja la idea de vocación histórica, es decir que no siento la filosofía como una vocación para ocuparme de los absolutos sino para leer los signos de los tiempos, que es una expresión evangélica. Cuando empecé a escribir Creer que se cree, un verano en la montaña, me parecía que ya no había razones filosóficas “objetivas” para no ser cristiano en tiempos de la Posmodernidad. Cuando se disuelven los meta-relatos (materialista, positivista, etc.) que intentan explicarlo todo, uno puede releer escrituras sagradas como el Evangelio –no tengo mucha simpatía con el Antiguo Testamento, sobre todo por la violencia, es demasiado antiguo–. Fue un esfuerzo por interpretar la situación filosófico-cultural desde el punto de vista de un retorno posible a la religiosidad a través de la disolución de los meta-relatos metafísicos.
–Su lectura de la Posmodernidad siempre se da en términos positivos, como por ejemplo la desaparición de los dogmas.
–Y como no existe más “la verdad”, se necesita la caridad.
–El concepto de kénosis, pero también la interpretación…En eso usted parece luterano.
–Sí, porque la interpretación tiene que ver con el hecho de que no hay una verdad objetiva. Tal vez en el siglo XX la noción misma de verdad se transformó en una noción de caridad, porque si uno retoma incluso a Habermas, siempre habla de una racionalidad comunicativa, lo cual implica que es racional lo que puedo decir sin vergüenza frente a los otros. Sobre todo porque todo el discurso epistemológico del siglo XX tiene mucho de convencionalismo, es decir que la verdad científica se pronuncia dentro de un paradigma compartido, no es un encuentro directo de mí mismo con el objeto, es un encuentro con maneras de interpretar el objeto conforme a una historia de la ciencia, de la matemática, etcétera.
–Desde su perspectiva filosófica, ¿la metafísica preserva algo o absolutamente nada?
–Tengo el defecto de que cuando hablo de metafísica la nombro desde Heidegger, que es enemigo de la metafísica porque es enemigo del concepto de una verdad objetiva; para él ni siquiera y Dios puede ser un objeto. Desde una perspectiva metafísica puede decirse que Dios es un objeto supremo, pero llamarlo objeto no es un gran elogio. La metafísica en tanto concepción de la vida, fe existencial puede considerarse, pero en la historia siempre ha tenido una pretensión de universalidad que no logro visualizar sin violencia.
–Quisiéramos preguntarle sobre la construcción de la verdad en la política.
–No puedo pensar en una verdad para todos; yo pienso algo y puedo dar razones, pero no puedo demostrarlo. En cuanto a la verdad política, se trata de preguntar quién lo dice. Esto es lo básico, hermenéutico: como no hay verdades, sólo hay interpretaciones. Cuando me confronto con problemas, por ejemplo, con lo que pasó durante el gobierno militar en la Argentina, hay un problema de interpretaciones que se confrontan y se construyen sobre la base de documentos y testimonios, que son intérpretes en un proceso penal. Todo es un juego de relación intersubjetiva más que de toma de acto de lo que está. Lo mismo sucede con la verdad política; yo no tengo confianza en lo que diga Videla. ¿Por qué? No porque sé que ha matado, sino porque tengo otros testimonios de gente que tiene parientes desaparecidos, y por lo tanto no es una opinión sino que está documentado. En Italia se me reprocha esta idea, pero sé que no tengo confianza en Berlusconi. Hay hechos que se llaman así porque tenemos suficientes luces que nos indican que lo son, así como un dato de la física cuántica puede considerarse de tal forma porque lo atestiguan ciertos científicos.
¿Qué le suscita Raztinger como intelectual? Insiste en el relativismo pero por otro lado la dimensión del diálogo entre fe y cultura le interesa mucho.
Yo abrigaba muchas esperanzas cuando fue elegido Papa porque había sido profesor en Tübingen, pero ahora tengo una versión un poco descolorida sobre lo que el catecismo llama “la gracia de estado”: cuando uno llega a ser ingeniero, tendría una asistencia especial para ingenieros, y cuando uno es elegido Papa, se torna reaccionario. Por ejemplo, en la encíclica Deus caritas estdecía, por ejemplo, que las primeras comunidades cristianas eran comunistas pero que naturalmente esto después se quebró. ¿Por qué “naturalmente”? Es como aceptar la afirmación de Margaret Thatchercon respecto al capitalismo. Creo que Benedicto XVI es menos reaccionario que Juan Pablo II, que era más simpático; pero este Papa tiene menor decisión que su antecesor, que no era un teólogo sino un pastor de almas. Tiene toda la incertidumbre del intelectual, y como hombre de estudio, creo que tiene dificultades para tratar con la Curia. Yo esperaba mucho más de él.
¿Cómo ve el futuro de la Iglesia como institución?
–Me gustaría salvar a la Iglesia del suicidio, por ejemplo, ante ciertas actitudes un poco dogmáticas en torno del sacerdocio femenino, el problema del celibato eclesiástico, que ahora es anacrónico; todo esto le da un rostro reaccionario que no es exigido por ningún cristianismo. Básicamente no creo que ni siquiera la Escritura Sagrada sea una descripción adecuada de Dios, es una educación para el pueblo de Dios, por lo tanto, la teología como tal me parece absolutamente insignificante. Cuando era chico mi director espiritual me obligaba a leer libros del dominico francésGarrigou-Lagrange.Hay ciertas cosas que me gusta deciraunque sean arriesgadas porque creo que son religiosas, por ejemplo hay una frase de san Pablo que dice que la fe y la esperanza son transitorias, pero que la caridad va a durar. Un día discutía con un obispo en Toscana y le sugerí que esa frase no se refiere solamente a la vida eterna sino también a la vida histórica, es decir que hoy cada vez parece menos urgente que la gente crea que Dios es uno y trino. Los misioneros, cuando llegan a un destino como el Amazonas, abren un hospital o fundan una escuela, no obligan a la gente a creer en un Dios trino. Sería bueno pensar la historia del cristianismo como articulada con una reducción de la importancia de los dogmas e incluso una reducción de la pura esperanza en el más allá. Yo no tengo ninguna actitud polémica ni siquiera en contra de mis educadores católicos, estoy muy agradecido de la educación cristiana recibida. Soy básicamente un cristiano un poco heterodoxo pero nostálgico, incluso soy uno de los pocos que podría seguir la misa en latín. Si no fuera cristiano, no sería comunista.
Le había molestado en la polémica con Umberto Eco sureivindicación de la realidad al estilo un poco aristotélico.
–Sí, porque siempre fue un señor básicamente neo-tomista. Así como santo Tomás tenía como base la cosmología tolemaica, Eco toma la semiótica; siempre quiere como base para sus afirmaciones una ciencia positiva, como fundamentación científica.
¿Qué opina de su colega Massimo Cacciari?
–Lo conozco bien pero no lo comprendo mucho; siempre le digo que lo quiero muchísimo pero no lo entiendo. Estámuy comprometido, es una gran persona, pero no llego a entender a dónde quiere llegar; y también hay otros filósofos italianos que son demasiado erráticos para mi gusto. Cuando les pregunto a los universitarios por qué leen ese tipo de autores tan complicados, me dicen: “si los comprendiéramos no tendría sentido leerlos”. Hay una cierta vitalidad, de todas maneras, que resiste al pensamiento único, que rechazo sobre todo por razones políticas. En Italia tenemos el gobierno de Monti, que no fue elegido por nadie, y es aceptado por los partidos más opuestos ya que los libera de responsabilidades; Monti hace lo que dice el Banco Mundial.
–En el ámbito político de su país, ¿qué opina de Beppe Grillo, actor líder de la anti-política?
Es un fenómeno interesante, de populismo, pero no comparto que tome un carácter de anti-política. Empezó hace algunos años, pero en las últimas elecciones se volvió fuerte. Obviamente estoy más cerca de Grillo que de Berlusconi, incluso que de los comunistas, que respaldan a Monti, pero quiero ver qué pasa. Con Di Pietro me encuentro bien, aunque me critican que yo siempre haya sido de izquierda y él sea un representante del centro. Si bien está en la oposición absoluta a Berlusconi, no se identifica con ideales socialistas o marxistas. Estoy con él porque es la forma de lograr que un italiano comunista vaya al Parlamento Europeo, porque los partidos de extrema izquierda en Italia se han dividido y no tienen ni un solo diputado.

Feria del libro de Madrid

71ª FERIA DEL LIBRO DE MADRID

Gianni Vattimo inaugura el especial de EL PAIS: "Solo una guerra o revolución podrían cambiar la clase política" 

El filósofo italiano Gianni Vattimo ha inaugurado esta mañana la cobertura especial que hará EL PAÍS de la 71ª Feria del Libro de  Madrid. Lo ha hehoc a través de un chat con los lectores, en un homenaje a Italia como país invitado a la cita madrileña. 

Los internautas preguntan a Gianni Vattimo

profespa

1. 25/05/2012 - 12:13h.
¿Cómo podría Italia librarse de esa clase política corrupta que no sabe renunciar a sus privilegios? ¿No le parece que hay una ruptura insalvable entre la casta política y el pueblo?
El problema es que la política es como la describía Aristóteles: si tenemos que filosofar filosofamos. Y la política está así. Soy una parte pequeña y extranjera de la clase política. No veo muy bien cómo se puede sin una revolución o una guerra. La historia ha demostrado que estos hechos necesitan de cambios radicales. El problema es quién va a hacer esto. No me gusta lo que hace Monti, es un hombre más de la banca. Pero cómo sustituimos a los políticos actuales? La cuestión es complicada porque en tiempo de crisis de la democracia no hay manera constitucionales de cambiar la constitución sin hacer referencia a la clase política existente. No veo muchas posibilidades de este tipo. Se trata de preparar una nueva ley electoral, con algunos movimientos de masas. Preparar un nuevo parlamento de acuerdo a las exigencias del país. La única esperanza es esta posibilidad de trabajar un poco al interior de las instituciones, no todos son corruptos. Escuchar a los movimientos de calle, una activación de las masas aunque no sea violenta.
 

Juan C. Santos

2. 25/05/2012 - 12:16h.
¿Y si la Democracia fracasa?¿Y si los ciudadanos han perdido el control sobre la política? ¿Es la rebelión la solución?
Se trata de producir revoluciones. Creo que desafortunadamente tenemos que trabjajar mucho para reactivar la política. La mala reputación de los políticos es justificada. No es una invención de los medios de comunicación, y todo esto esconde otras corrupciones. No todo es responsabilidad de la clase política, hay otros poderes que usan la mala fama de la politica para limitar la democracia.
 

Michel Lugo

3. 25/05/2012 - 12:24h.
Existe el desencanto en política. ¿Y en filosofía? ¿Alguna vez lo ha sentido?
Sí. Creo que el desencanto aqui es básicamente porque los fundamentalismos son violentos. La busqueda de verdades absolutas. Esa busqueda es una actitud de violencia. Eso no singifica que la filosofía no tenga nada más que filosofar. Yo intento responder a esto con el pensamiento débil, que es esa tentativa de responder a a ese desencanto elaborando una via para salir de la violencia. Hay un contenido de la filosofia después de la metafisica, elaborar un discurso mas interpretativo y menos obejtivista, con menos pretensiones de corresponder a una realidad innegable.
 

alexanxo

4. 25/05/2012 - 12:28h.
Usted que es un gran conecedor de nietzsche, ¿ que cree que pensaria de esta epoca que nos ha tocado vivir?.gracias.
Nietzsche sería un filósofo adecuado para esta época, no como exacerbación de la vioencia y el poder. El escribió una vez que ahora que Dios ha muerto queremos que vivan muchos dioses Era una posicion de pluralismo cultural. Ser fuertes en una perspectiva de vida. El superhombre no quiere decir el líder de las bandas criminales, sino una persona capaz de interpretar el mundo actual. Tenemos que crear una acitud más individual y característica. Es una buena manera de indicar el camino de la autenticidad. tiene que devenir un sujeto responsable en un mundo pluricultural. Ahora que no hay verdades absolutas hay que tener caridad.
 

Magaly

5. 25/05/2012 - 12:33h.
Cree VD. que la desigualdad entre ricos y pobres, a nivel planetario, tiene visos de corregirse en este siglo?
No lo tiene. Si no se corrige esta diferencia excesiva puede derivar en cuestiones indeseadas. El problema no se reduce a asumir una pérdida de condiciones de vida. Por ejemplo, el día que todos los chinos tengan coche vamos todos a morir porque no habrá gasolina suficiente. Hay que evolucionar en aspectos tecnológicos. Es problema de desarrollo tecnologico y presencia democrático. Hay que desarrollar métodos alternativos. Lenin tenía razón como algo mixto un conjuto de desarrollo tecnológico y presencia fuerte de democracia política, de participación popular en la política.
 

ALS

6. 25/05/2012 - 12:36h.
¿Sigue teniendo sentido la presencia de la filosofía como asignatura específica y común en los planes de estudios de la enseñanza secundaria (Bachillerato en España)?
Es muy importante que esa asignatura permanezca. Me gustaría que hubiera una discplina para todas las carreras. Sin filosofía no hay democracia. Donde no hay una cultura filosófica muy desarrollada ni pensamiento crítico la conciencia política se pierde en la tecnicidad. La tendencia a susttuir la filosofía por asignaturas más prácticas y ténicas es una tendencia al suicidio. La tecnología por sí solo no lleva a nada. NO discute la técnica.
 

José Manuel López García.

7. 25/05/2012 - 12:46h.
¿ El método de la metafísica conduce a una visión violenta del mundo o quizás debería ser llamada violencia semántica?
El problema es que la metafísica como idea es una estructura que se puede conocer como causa primera. Todo esto es una idea de las clases dominantes. El establecer diferencias entre los que saben y no saben. No se trata de inventar formas de saber. Hay que tomar la palabra. Walter Benjamin dice que lo importante es dar la palabra a los que han sido silenciados a lo largo de la Historia. Se trata de desarrollar la filosofía como diálogo subjetivo. No decimos que nos ponemos de acuerdo porque hemos encontrado la verdad, pero podemos decir que encontramos la verda cuando nos ponemos de acuerdo. Es la negociacion entre grupos. La filosofia se desarrolla en ese sentido y así es como podrá tener un sentido útil para la sociedad.
 

Mensaje de despedida

Muchas gracias por las preguntas tan interesantes. Lamento no haber contestado más, pero he tratado de dar unas respuestas un poco más largas. Un saludo a todos