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lunedì 24 giugno 2013

Gianni Vattimo: maestri, amori, disperazione del fondatore del pensiero debole

“La mia vita è piena di sensi di colpa, finirò per fare il predicatore religioso”

Intervista a Gianni Vattimo di Antonio Gnoli, La Repubblica

                                                                                                                                                               Fonte: LaVanguardia.com



Ormai fa coppia fissa con Sancho. Mentre siamo a tavola davanti a un piatto di involtini primavera cucinati dalla domestica filippina — una suora laica, scoprirò più avanti — Sancho scuote pigramente la testa e guarda incuriosito l’intruso, che poi sarei io. «Non è geloso, glielo assicuro», dice Gianni Vattimo, «è solo che gli piace essere al centro dell’attenzione. I gatti sono così: un misto di curiosità, indifferenza e abitudine». La conversazione va avanti già da un po’. Prima nella penombra del salotto. Poi qui nella stanza dove ceniamo, ricompresa nel vasto appartamento torinese. C’è un poster colore rosso acido che attira la mia attenzione: ritrae Vattimo, sotto una frase di Keynes: «La repubblica dei miei sogni si colloca all'estrema sinistra della volta celeste». «Fu un dono di certi amici per i miei settant'anni», ricorda il professore.

martedì 5 febbraio 2013

Eco è sempre Eco

31/01/2013, L'Espresso
di Gianni Vattimo

Due fasi nel pensiero del grande intellettuale? No. Leggendo la raccolta degli "Scritti sul pensiero medievale", dice il filosofo, si nota la coerenza del metodo. Tomista.



Dovremo dunque riconoscere che c'è un primo Eco e un secondo Eco, così come si parla comunemente di un primo e secondo Heidegger o di un primo e secondo Wittgenstein? Una questione rilevante, perché è certo che uno degli elementi che tengono viva la ricerca su un autore, e dunque la fortuna delle sue idee, oltre alla mole del suo eventuale "Nachlass" di inediti da scoprire decifrare, pubblicare (Nietzsche, Benjamin come sommi esempi), è anche la questione dell'eventuale evoluzione o trasformazione interna del suo pensiero, con tutti i risvolti biografici e storico-generali (qui soprattutto Heidegger: il secondo Heidegger è nato con la scelta nazista?).


A tutte le ragioni della già stragrande popolarità di Eco se ne aggiunge dunque una che finora non era apparsa, e ciò accade principalmente con la pubblicazione, nella collana Bompiani del Pensiero occidentale diretta da Giovanni Reale, dei suoi "Scritti sul pensiero medievale". Sono 1.332 pagine di testi che, partendo dalla tesi di laurea (uscita nel 1956) su "Il problema estetico in Tommaso d'Aquino" (discussa a Torino sotto la guida di Luigi Pareyson) e fino alla "Intervista (immaginaria) a Tommaso d'Aquino" per il "Corriere della Sera", (2010) includono tutto (o solo probabilmente tutto) l'Eco medievalista, costituendo una sorpresa non solo per i lettori dei suoi scritti più recenti (filosofia, semiotica, romanzi, giornali, enciclopedie e storie della cultura) ma anche per coloro che lo hanno seguito fin dagli inizi della sua carriera di pensatore. (Sia detto tra parentesi, chi scrive fu uno dei primi recensori del libro su San Tommaso e degli studi sull'Estetica medievale negli anni Cinquanta del secolo-millennio scorso. "Quantum mutatus ab illo", dice Enea a Ettore nell'Eneide).

domenica 10 giugno 2012

Erion Kadilli, "La montagna di Nietzsche. In viaggio con Gianni Vattimo"

La Montagna di Nietsche. In Viaggio con Gianni Vattimo

Biografilm 2012 - Biografilm Italia

(Italia, Albania/2011/28')
di Erion Kadilli

Il regista rivelazione Erion Kadilli - vincitore di Biografilm Italia 2011 con Sono stato Dio in Bosnia - torna al festival con un prezioso e suggestivo documento sul filosofo Gianni Vattimo. Il film prende inizio dall'ultima lezione universitaria del teorico del Pensiero Debole e continua facendoci sbirciare dentro ad un "dopo", che solo apparentemente può avere caratteristica di disimpegno intellettuale.


venerdì 20 aprile 2012

Da Bush a Monti: fatti o interpretazioni?


Da Bush a Monti: fatti o interpretazioni?
«Alias-D» dell’1 aprile recensiva il libro di Maurizio Ferraris «Manifesto del nuovo realismo» (Laterza), contro gli effetti ubriacanti del pensiero debole e postmoderno. A Ferraris, che propugna un ritorno filosofico (e politico) al mondo dei «fatti», replica qui Gianni Vattimo, con una «lettera aperta» a Umberto Eco, suo interlocutore ideale. Gli risponde Ferraris.

Il Manifesto, 8 aprile 2012

Il ritorno della realtà come ritorno all’ordine – Gianni Vattimo

Caro Umberto, vorrei entrare subito in medias res (ahi!, le cose stesse!) per discutere il tuo saggio sul «realismo negativo». Due cose preliminari. Primo: davvero qualcuno dei nuovi realisti pensa che un postmoderno utilizzi un cacciavite per pulirsi un orecchio o il tavolo su cui scrive per viaggiare da Milano ad Agognate? Spesso gli esempi paradossali finiscono per essere presi troppo sul serio, e diventano caricature delle quali sarebbe meglio sbarazzarsi. Secondo: ricordi Proudhon? In una estate di molti anni fa, nel deserto di temi con cui riempire i giornali, qualcuno tirò fuori Proudhon del tutto a freddo, aprendo un dibattito inconcludente che si trascinò per un po’ e poi svanì nel nulla. Il nuovo realismo mi sembra un fenomeno del tutto simile, anche se minaccia di durare più a lungo, per ragioni che hanno probabilmente da fare con il generale clima di «ritorno all’ordine» di cui è massima espressione il governo dei «tecnici».

Quali sono le ragioni del «ritorno della realtà» contro la «sbornia post-modernista»? A chi importa «tornare alla realtà» e respingere la tesi di Nietzsche secondo cui «non ci sono fatti, solo interpretazioni, e anche questa è un’interpretazione»? Certo, tu risponderai subito che questa domanda è impropria: è la verità o falsità della tesi che ci deve interessare, non a chi piacciano o dispiacciano. Ma dovresti anche ammettere che così costringi subito Nietzsche ad accettare che ci sia quella famosa verità oggettiva di cui si sta discutendo. Così, verità oggettiva sembra essere, per i nuovi realisti, il «fatto» che «il postmoderno è fallito». Davvero questo fallimento è un fatto e non un’interpretazione? La forza della tesi di Nietzsche, anche e soprattutto per chi non vuole prostrarsi davanti al mondo com’è e identificare senz’altro l’esser-così-delle-cose con il bene e la norma da «rispettare», sta tutta nel domandare, ad ogni enunciazione, «chi lo dice?». Il concetto di ideologia di Marx, ma tutta la cosiddetta scuola del sospetto (Marx, Nietzsche, Freud), dovrebbe averci insegnato qualcosa. Già, dirai, però Marx smascherava l’ideologia proprio in nome della verità oggettiva. Ma questa per lui era il patrimonio del proletariato («chi lo dice?»), non l’essere stesso identificato con ciò di cui non si può assolutamente pensare il contrario, cioè quello che tu chiami «il mondo» con i suoi «fatti». I «fatti» non parlano da sé, anche indicarli semplicemente con un dito è già un atto linguistico. Il realismo (vecchio, credo; perché sarebbe nuovo?) si è sempre fatto forte del «fatto» che ci deve essere qualcosa, il «dato», che limita l’interpretazione, come dici tu, e che non dipende dall’interprete. Neanche il più fanatico postmodernista assume semplicemente che le «cose» siano create da chi le vede. Se piove mi bagno, se sbatto in un muro mi faccio male al naso. E allora? Lo zoccolo duro dell’essere sarebbe questo? Heidegger ha costruito tutta una filosofia a partire dall’insoddisfazione per la «metafisica», cioè per quel pensiero che identifica l’essere con questo zoccolo. E l’insoddisfazione era fondata non sulla scoperta che l’essere non è «zoccolo» ma, poniamo, pantofola o aria; bensì sulla impossibilità di prender sul serio la libertà, in un mondo fatto di durezze e di zoccoli identificati semplicemente con l’essere stesso… 
 
John Searle
La domanda «chi lo dice?», ha anche una ovvia portata etico-politica. I nuovi realisti (che sempre mi rinfacciano il nazismo di Heidegger) dovrebbero spiegare perché uno dei loro profeti sia John Searle, onorato da Bush come il massimo filosofo USA. Qualcuno di loro avrà un analogo riconoscimento dal governo Monti-Napolitano? Certo, di fatto (!) i nuovi realisti hanno il massimo ascolto nella opinione pubblica (ossia pubblicata) mainstream, rispondono alla richiesta di restaurare valori «veri» e, in definitiva, disciplina sociale. Anche tu sei preoccupato di trovare «garanzie» per proporre interpretazioni accettabili dagli altri. Appunto, «gli altri». Proprio perché non ci sono fatti, solo interpretazioni, il solo «zoccolo» contro cui urto e di cui devo tener conto, senza garanzie, sono le interpretazioni degli altri. Per convincerli non ho nessun garanzia «oggettiva»: solo certi valori condivisi, certe esperienze comuni, certe letture che abbiamo fatto, persino – ormai ne sono consapevole – certe appartenenze di classe. La pericolosità dell’ermeneutica è tutta qui: insegna che la sola interpretazione sicuramente falsa (limiti dell’interpretazione!) è quella che non riconosce di essere tale, che pretende di parlare dal punto di vista di Dio e dunque rifiuta di negoziare, pensando di possedere la verità vera. Ma anche la verità di una proposizione scientifica è tale solo se gli altri, coloro che ripetono l’esperimento, hanno gli stessi risultati. C’entreranno lo zoccolo e il muro? Ma dove sarebbero, se non in queste interpretazioni?

lunedì 23 gennaio 2012

Intervista a Messina, Tempostretto.it

Gianni Vattimo a Tempostretto.it: «Se i giovani non leggono più Platone finiranno per abbandonarsi al rincoglionimento mentale»

«Destra e sinistra? Sì, sono ancora diverse. La Destra è natura, la Sinistra è cultura». «Le proteste in Val di Susa? Quanno ce vo', ce vo'». «Se qualcuno mi domanda perché sono cristiano, rispondo semplicemente: “perché non vedo nessuna ragione per non esserlo”».

Domenica, 22 gennaio, 2012, Tempostretto.it. Di CLAUDIO STAITI
 
Venerdì 20 Gennaio, presso la Facoltà di Scienze della Formazione di Messina, si è tenuto un incontro organizzato dall’associazione Marx XXI e dal Centro Studi Galvano della Volpe. Occasione, la presentazione del libro “Un Nietzsche italiano”, del ricercatore dell’Università di Urbino, Stefano Azzarà, sulla presenza di Nietzsche nel pensiero di Gianni Vattimo e sullo sdoganamento dall’etichetta di pensatore di destra che Nietzsche ha avuto per larga parte del ‘900. A margine dell’incontro-dibattito, introdotto e moderato dal prof. Carmelo Romeo dell’Università di Messina, Tempostretto.it  ha avuto il piacere di porre qualche domanda proprio al filosofo torinese Gianni Vattimo.

Sembra tramontata la figura del filosofo “portatore di verità”. Chi è oggi il filosofo? Trova che sia minacciato dalla frenesia della società attuale?
Il filosofo intanto è colui che fa professione di filosofia, cioè colui il quale continua a leggere brani della tradizione filosofica, li rende comprensibili agli altri, li traduce, e ne scrive di propri. E può anche scrivere delle critiche alle idee di verità e lo fa, al giorno d’oggi, cercando di rispondere a delle problematiche attuali. Perciò il filosofo è colui che guarda al presente e alle sue esigenze, utilizzando però una tradizione testuale che va sotto il nome di ‘filosofia’. Naturalmente ciascuno poi ha di quest’ultima la propria definizione... Non credo che la professione del filosofo sia minacciata... Certamente la minacciano coloro i quali pensano che non debba più essere insegnata nelle scuole, a vantaggio della matematica e dell’informatica. Se i giovani non leggono più Platone e tutti gli altri filosofi, saranno più facilmente preda dei propagandisti e finiranno, passatemi il termine, per abbandonarsi ad un puro e semplice rincoglionimento mentale.

Il filosofo del "pensiero debole" come si rapporta alla politica?
Il filosofo del pensiero debole è uno che sostiene che l’unico modo di emanciparsi per l’uomo non sia quello di cercare di realizzare un ideale prestabilito, “Vivi una vita vera!”, “Sii uomo!”, ma di ridurre la violenza che si impone contro le libertà, per esempio quella dell’eutanasia, quella della libera iniziativa se vogliamo ecc... Fa tutto ciò che credi sia giusto finché non ti scontri con le libertà dell’altro. Credo che il pensiero debole sia una forte teoria dell’emancipazione attraverso l’indebolimento, teoria diversa dal “non c’è niente da fare, stiamocene tranquilli”. Non sono così disperato da non fare più niente. Qualche volta mi viene la tentazione di pensare “sto lì, mi godo la mia pensione” ma mi dispiace e cambio subito idea.

La teoria del pensiero debole non prevede la violenza, eppure lei stesso è vicino alle proteste No Tav in Val di Susa e, in questi giorni (20 Gennaio ndr), i blocchi stradali in Sicilia si stanno ripercuotendo sull’economia locale...
Bloccare le autostrade in Val di Susa per protestare contro la Tav è una “violenza” legittimissima, Si può rispondere alla romana: “quanno ce vo', ce vo'”. (ride) Il problema è stabilire “quanno ce vo'”. E’ controproducente o produttivo? E’ un po’ come far saltare la Casa Bianca. Io, se potessi, lo farei... Ma se questo dovesse dare luogo ad un bombardamento atomico di tutta l’Europa, preferirei di no... si sceglie il male minore, si scelgono degli obiettivi e dei mezzi sufficientemente persuasivi per richiamare l’attenzione. Gli scioperi, le proteste sono questo.

Lei si definisce “comunista”. Come riesce a conciliare questo suo desiderio di approdo a quel tipo di società con l’idea attuale di “sinistra”, per alcuni, termine anacronistico e fuorviante?
Io vedo ancora una diversità fra destra e sinistra. E se devo definirle, penso che la destra è quella che vuole utilizzare differenze naturali a scopo di sviluppo e la sinistra è quella che vuole correggere tali differenze in modo da mettere tutti in condizione di competere sportivamente. Questa secondo me è una differenza fondamentale. La destra è sempre tendenzialmente razzista, darwiniana, “vinca il più forte”, e invece la sinistra deve tendere al rimedio. La sinistra è cultura, la destra è natura. La destra è naturalista, la sinistra è culturalista. E il comunismo è, come dire, l’unico ideale di società che riesco a coltivare, volete che coltivi un’ideale di società che produce di più e per pochi? Tutte le società molto evolute, come gli Stati Uniti, sono anche società di gente esclusa. Sono comunista perché guardo ad un progresso tecnologico controllato da un potere popolare. Laddove c’è solo una di queste due componenti non si attua realmente il comunismo, mettere insieme le due cose è lo stesso ideale di Lenin...

L’uomo moderno sembra perdere sempre più certezze. L’annuncio Nietzschiano “Dio è morto” può considerarsi come l’avvio di questo processo? E lei come mai si professa “cristiano”?
Quando Nietzsche dice che Dio è morto, dice che è morto il Dio morale, il Dio come garanzia suprema di un ordine oggettivo per l’uomo. E poi, in un'altra parte, aggiunge che adesso che Dio è morto, è ora che arrivino molti dei e cioè nuove e più numerose prospettive di vita, criteri di esistenza. Come è noto, io continuo a professarmi cristiano. Come mai? Se qualcuno mi domanda perché sono cristiano, rispondo semplicemente: “perché non vedo nessuna ragione per non esserlo”. Le ragioni per non essere cristiano sarebbero l’autoritarismo papale, la pretesa di comandare sulle leggi, la pretesa di non pagar le tasse? Senza di questo mi è simpatico Gesù Cristo, sono cresciuto così. Se mi offrite delle buone ragioni per non esserlo, ditemelo, ma quelle ragioni qui non sono sufficienti. Anzi, posso essere antipapale ma col Vangelo in mano.

domenica 22 gennaio 2012

A Messina

Vattimo e Marramao a Messina
Nuovosoldo.it, di Sostine Cannata

È andato avanti fino alle nove l’incontro con Gianni Vattimo e Giacomo Marramao alla Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Messina, organizzato dall’associazione Marx XXI e dal Centro Studi Galvano della Volpe. Occasione, la presentazione del libro del ricercatore dell’Università di Urbino, Stefano Azzarà, sulla presenza di Nietzsche nel pensiero di Vattimo e sullo sdoganamento dall’etichetta di pensatore di destra che Nietzsche ha avuto per larga parte del ‘900. L’incontro-dibattito è stato introdotto e moderato dal prof. Carmelo Romeo dell’Università di Messina, che  ha sottolineato l’importanza di questo dibattito e della stessa presenza dei due importanti filosofi e pensatori, sottolineando anche come il libro di Azzarà “Un Nietzsche italiano. Gianni Vattimo e le avventure dell’oltreuomo rivoluzionario” getti nuova luce sul pensiero filosofico complessivo “vattimiano”...

domenica 15 gennaio 2012

Messina, il Nietzsche italiano

Per chi fosse interessato a partecipare, 
ecco la locandina della presentazione del libro di Stefano G. Azzarà. 
Tutte le informazioni sul suo blog Materialismo storico.

martedì 22 novembre 2011

Milano, transavanguardia...

La transavaguardia? L'ha inventata Nietzsche

Giovedì si apre a Milano la kermesse del movimento lanciato nel ’79 da Achille Bonito Oliva. Vattimo ne spiega il contesto

La Stampa, 22 novembre 2011

Come guardare l’arte della transavanguardia? La sua «cornice» storica è quella del post-moderno, di cui è venuto di moda dire che è morto... Ma davvero? Oppure anche qui è stata soffocata, come in tanti altri campi, la possibilità emancipativa che veniva aperta dalle nuove condizioni che facevano e fanno rabbrividire tutte le auctoritates - politiche, religiose, economiche, culturali?

Niente di meglio, per immaginare le condizioni di esistenza del ventunesimo secolo, che riferirsi a un pensatore ottocentesco che si sentiva e dichiarava «inattuale», Friedrich Nietzsche. L’insieme delle sue dottrine resta per molti aspetti un puzzle, ma almeno per alcuni elementi egli ha intravisto qualcosa che oggi si sta realizzando sotto i nostri occhi. Il fattore determinante delle nuove condizioni di esistenza, che alcuni pensatori hanno chiamato postmoderno, è la comunicazione: dalla facilità e velocità dei trasporti alle reti televisive alle autostrade informatiche. Non solo la storia contemporanea diventa sempre più cronaca - nel senso che gli eventi che accadono in ogni parte del mondo, almeno in linea di principio, possono essere, e spesso sono di fatto, conosciuti «in tempo reale». Sia i viaggi rapidi e frequenti, sia la trasmissione di informazioni rendono vicine e accessibili culture che in altri tempi di potevano accostare solo attraverso un lungo percorso, spaziale e di iniziazione ideale.

Spazio e tempo non sono due dimensioni davvero separate: per qualche ragione di cui il mondo dell’informazione ci dà continui esempi, nella società delle comunicazioni intensificate anche le culture e le memorie del passato diventano più vicine: chi guarda la televisione ha continuamente sotto gli occhi tutta la storia del cinema (riprese, ripetizioni, ritorno di mode di altri tempi) e, dato il bisogno onnivoro del mezzo di offrire agli spettatori cose «nuove», inedite, anche notizie su grandi porzioni della storia passata. L’architettura che si è chiamata post-moderna è un altro esempio di questa stessa tendenza: i casinò di Atlanta e di Las Vegas che imitano la forma di edifici greci, egizi, romani, sono solo il culmine di una tendenza generale ad attingere nel repertorio delle forme e degli stili del passato immagini capaci di intensificare la nostra esperienza del presente, conferendo alle costruzioni di oggi significati ornamentali che si realizzano proprio con l’evocazione di monumenti di altri tempi.

L’idea di Nietzsche, esposta appunto in una delle sue Considerazioni inattuali, secondo cui l’uomo di oggi si aggira nel giardino della storia come in un deposito di maschere teatrali, scegliendo liberamente questo o quello stile storico per darsi una forma e una identità, descrive il carattere di base di questa condizione. È ciò che si realizza, in termini molto banali, nella disponibilità di cucine «etniche» che ormai è diffusa in tutte le metropoli del mondo industriale. Ma, a livelli più alti o meno banali, succede lo stesso nel mondo dei valori spirituali: qualche sociologo delle religioni parla oggi, spesso con disprezzo, di «religioni à la carte», anche per stigmatizzare negativamente il carattere sempre meno rigoroso delle dottrine e delle prescrizioni etiche che le religioni portano con sé la tendenza al sincretismo, la ricerca di un rapporto semplicemente sentimentale con la trascendenza.

Il mondo post-moderno, per queste e altre ragioni (le migrazioni massicce, la fine degli imperi coloniali tradizionali e la conseguente caduta della differenza «gerarchica» tra mondo «civilizzato» e culture «primitive»; da ultimo, la fine della divisione del mondo in due blocchi rigidamente contrapposti), appare e viene vissuto sempre più come una Babele di linguaggi, stili di vita, visioni del mondo diverse. Nietzsche aveva immaginato che l’individuo capace di vivere in un mondo come questo, godendone come di una possibilità di libertà e non lasciandosene schiacciare e distruggere, dovesse essere un Overman (tedesco Uebermensch), un superuomo. Ben al di là di quello che immaginava Nietzsche, la società che si prepara per il prossimo secolo si può unicamente pensare come una società di superuomini: senza nessun tratto aristocratico e nemmeno violento, ma come un insieme di individui «obbligati» a interpretare personalmente il flusso di informazioni nel quale, lo vogliano o no, sono immersi.

Ciò che fa di questa condizione post-moderna la cornice ideale della transavanguardia è la dissoluzione, vissuta ormai a tutti i livelli, di ogni nozione di progresso lineare. E dunque anche di ogni immagine dell’avanguardia. La molteplicità di forme testimoniata dalle opere degli artisti della Transavanguardia - forse non solo documentata storicamente e criticamente, da Achille Bonito Oliva, ma in molti sensi anche ispirata dalla sua riflessione di critico e dalla sua attività di organizzatore di mostre e di eventi - è un effetto della libertà nei confronti della storia, e della «realtà» che la postmodernità ha reso possibile. Transavanguardia non significa affatto anarchia e arbitrio. Ciò che in essa testimonia questo nuovo spirito di libertà è piuttosto una sorta di amichevolezza verso il mondo, e dunque anche verso il visibile incontrato senza l’intenzione polemica, e dunque anche inimichevole, che caratterizzò tanti prodotti della pop art. Succede nella transavanguardia qualcosa di analogo a quello che si verifica nella filosofia una volta che si sia liberata dal fantasma della verità assoluta - quella che ha sempre legittimato l’intolleranza dei dogmatici - amicus Plato sed magis amica veritas. Se non siamo più sotto il dominio cupo, rassicurante ma anche fatalmente punitivo, della verita, siamo finalmente liberi di praticare la carità. Non ci sarà anche un po’ di questo nelle opere della transavanguardia? 


Sulla kermesse e i relativi incontri (io stesso sarò al Castello di Rivoli il 5 dicembre), cfr. il sito de La Stampa.

sabato 19 novembre 2011

Nietzsche, ultime lettere prima dell'abisso

Esce da Adelphi il volume conclusivo dell'epistolario
La Stampa - TuttoLibri, 18 novembre 2011

Una leggenda metropolitana transoceanica racconta che Arnold Schoenberg, incontrando (si dice in un supermercato) Thomas Mann, come lui riparato in America, a Santa Monica, durante la seconda guerra mondiale, gli gridasse furioso: «Ma io non sono sifilitico». Di questa malattia era vittima il protagonista del Doctor Faustus , il romanzo allora pubblicato in cui Mann raccontava la storia della nascita della musica dodecafonica e dunque di Schoenberg. Mann non pensava soltanto a Schoenberg, nel creare il suo romanzo, ma anche a Nietzsche. Che di sifilide era malato davvero, tanto che la pazzia in cui precipitò alla fine, nei giorni drammatici del gennaio 1889, a Torino, fu proprio l’esito fatale di questa infermità.

Ricordiamo queste cose perché l’ultimo volume dell’epistolario nietzschiano, che l’editore Adelphi manda in libreria in questi giorni, raccoglie e traduce per la prima volta integralmente in italiano le lettere del periodo finale della vita cosciente di Nietzsche, culminando con l’ultimo biglietto scritto a Jacob Burckhardt, suo antico collega di Basilea, che manifesta ormai la pazzia conclamata, e in seguito al quale l’altro amico di Basilea, Franz Overbeck, si precipita a Torino per riportarlo in Germania presso la madre. Il biglietto a Burckhardt, datato 6 gennaio 1889, è quello meritatamente famoso in cui egli scrive: «Caro signor professore, alla fin fine avrei preferito essere professore a Basilea piuttosto che essere Dio; ma non ho potuto anteporre il mio comodo privato al compito di creare un mondo».

Già chiaramente pazzo, soprattutto perché questa lettera viene dopo una serie di altre indirizzate ad amici e conoscenti, oltre che a personaggi che non ha mai conosciuto (Carducci, Ruggeri Bonghi), dignitari (il cardinale Mariani) e monarchi (Umberto I re d’Italia), alla casata del Baden, agli illustri polacchi. Firmate «Il Crocifisso», sempre Dio cioè ma stavolta nella sua incarnazione cristiana… Fermarsi a segnalare queste follie è indiscreto e crudele, come sarebbe indiscreto domandarsi - lo hanno fatto vari biografi - dove e quando Nietzsche si fosse preso la sua malattia, data la sua notoria propensione a una vita quasi monacale fin dai tempi degli studi universitari. Uno dei suoi più vecchi amici, Paul Deussen, che è anche tra i destinatari delle ultime lettere, racconta che negli anni della giovinezza Nietzsche non sembrò mai nutrire interesse sessuale per le donne, tanto che in un libro sul Segreto di Zarathustra , uno studioso ha avanzato anni fa l’ipotesi che il tormento intimo di Nietzsche fosse una mai riconosciuta omosessualità.

La curiosità circa questi aspetti privati della sua vita è legittima e inevitabile per il lettore di queste lettere più ancora che di altri suoi testi: vi si parla infatti di una sofferenza continua che non è solo strettamente fisica ma, noi diremmo, esistenziale. Sembrerebbe che Nietzsche soffra a causa del tempo: atmosferico, anzitutto, perché è sempre alla ricerca di un clima che si confaccia alla sua salute. Ma soffre anche del «tempo» storico in cui si trova a vivere, e in questo la sua vicenda merita davvero di essere raccontata come quella del Doctor Faustus di Mann: è la storia per tanti versi esemplare di un intellettuale che vive profondamente la propria epoca, nella quale (e pensiamo alla sua giovanile Seconda considerazione inattuale, un testo in cui Nietzsche si mostra già ben consapevole dei rischi a cui va incontro la società della incipiente massificazione) sembra trionfare una sorta di rassegnazione alla mediocrità, al sentimentalismo di un cristianesimo imbastardito.

Anche la continua polemica contro Wagner, che era stato un suo idolo giovanile e con cui aveva pensato di produrre una rinascita della cultura tragica, è ispirata alla diffidenza per un’arte, in questo caso l’opera wagneriana, pronta a fornire spettacolo e fantasmagoria (lo dirà più tardi Adorno) per la sensibilità ottusa di una borghesia che è sempre più classe «media» in ogni senso. Già, ma la rivoluzione di cui si sentiva portatore? Nelle lettere ora tradotte ci sono tanti spunti e riferimenti alle opere degli stessi anni, che inizialmente Nietzsche aveva pensato di raccogliere in un unico monumentale Hauptwerk a cui poi rinunciò, e che divennero in seguito Il crepuscolo degli idoli , L’Anticristo e tanti frammenti rimasti inediti dapprima pubblicati arbitrariamente (dagli eredi) come La volontà di potenza e oggi più giustamente raccolti nei volumi dei frammenti postumi curati da Colli e Montinari.

Le firme che ricorrono di più nelle ultime lettere sono quelle di Dioniso e del Crocifisso. La trasvalutazione di tutti i valori che Nietzsche progettava era forse il sogno di una riconciliazione tra la tradizione cristiana e quella preclassica greca. Un sogno da «professore di greco a Basilea». Ma la sua opera, bene o male, ha anche contribuito a «creare un mondo», che non cessa di suscitare sempre nuove interpretazioni.

Gianni Vattimo

lunedì 19 settembre 2011

Due interventi per il dibattito su pensiero debole e new realism

Altri due interventi sul dibattito pensiero debole/new realism, pubblicati entrambi da Liberazione il 18 settembre 2011.

«La "natura" femminile? Il pretesto per trasformare tutte le donne in badanti» 
di Tonino Bucci 
A colloquio con Francesca Rigotti, docente di dottrina politica e studiosa dei processi simbolici

«Ho tutte le colpe di questa terra. Sono comunista, femminista e atea». Francesca Rigotti insegna dottrina politica all'università di Lugano, è una studiosa di processi simbolici e delle metafore che si utilizzano non solo nel discorso filosofico, ma anche nel linguaggio della politica e dell'esperienza ordinaria. Le società umane - ha sostenuto nel suo intervento al Festival filosofia di Modena - ricorrono spesso ad analogie con i fenomeni naturali per descrivere processi culturali. Platone applicava la metafora del parto e della generazione all'atto della creazione intellettuale - all'interno del dialogo del "Teeteto", dedicato alla fondazione dell'episteme. «La donna nel mondo greco è considerata solo ricettacolo, incubatoio, terreno di coltura del seme maschile. E' solo agli uomini che è riservata la capacità di generare, o attraverso il corpo, riproducendosi nei figli, o attraverso l'anima, la conoscenza, la virtù». L'argomento del «così è, in quanto conforme a natura» è il più utilizzato dai fondamentalismi, da quelli religiosi alla tecnocrazia, ovunque insomma vi sia un presunto ordine naturale, eterno e immutabile, che debba dettare legge. Francesca Rigotti ha approfondito questi temi ne "Il pensiero delle cose", "La filosofia delle piccole cose" e "Partorire con il corpo e con la mente".

Judith Butler, uno dei suoi riferimenti, sostiene che il genere è una costruzione culturale. Di biologico non c'è nulla. Qual è il pericolo nel voler definire una presunta natura femminile per differenza da quella maschile?

Nel 2004 uscì una lettera di Ratzinger - a quel tempo cardinale - sulla posizione della donna nella Chiesa cattolica. Apparentemente si presentava come una riabilitazione della natura femminile, in realtà riduceva la donna alla funzione materna di cura e accudimento. Non posso più sentire questo discorso. Vedo tutte noi trasformate in badanti. Di fatto, è quello che facciamo. Se da domani, per ipotesi, tutte le donne smettessero di fare da stato sociale, di accudire i nipoti, di mantenere i figli, di lavorare per gli altri, crollerebbe l'intero sistema. Di questa ideologia - della donna come essere che si prende cura, contrapposta alla natura maschile aggressiva e guerriera - cadono talvolta prigioniere le stesse donne. Ho citato il caso di Edith Stein, ebrea, filosofa e fenomenologa, allieva brillantissima di Husserl, che la utilizzava solo per farle trascrivere i propri manoscritti. A un certo punto della sua vita Stein si convertì al cattolicesimo e finì in un convento. Fu una sorta di soluzione estrema, una scelta dettata da un complesso di inferiorità e da un desiderio di integrazione. Qualcosa del genere deve essere accaduto anche nel caso di Fouad Allam, che ha sentito il bisogno di convertirsi al cattolicesimo in mondovisione, per nascondere la propria origine. Sono paturnie di integrazione totale.

Anche il razzismo ricorre all'argomento della naturalizzazione di ciò che afferma. «Gli arabi sono aggressivi per natura», «gli omosessuali sono contronatura», «le donne sono fatte così» e via dicendo. Ma anche in altri campi ricorriamo ad analogie con i fenomeni naturali. E' solo un caso?
Quando ci mancano i vocaboli per parlare di questioni astratte ricorriamo all'analogia con fenomeni materiali. Lo sosteneva già Vico. Ricorriamo agli umani sensi e alle umane passioni per parlare delle cose che non conosciamo. Conosciamo il fenomeno generativo e lo applichiamo alla generazione delle idee.

Platone ricorre alla metafora del parto proprio nel dialogo dedicato all'episteme, alla conoscenza, al logos. Curioso, no?
Uno dei miti fondativi è quello del labirinto di Dedalo. Chi risolve il problema? Lo risolve Arianna dando il filo a Teseo. Quel filo - sostiene Giorgio Colli ne "La sapienza dei greci" - è il logos, il filo della ragione. Ma Teseo si impadronisce di questo logos che Arianna gli porge fisicamente, se ne appropria con un'operazione di astrazione. Il paradosso è che Arianna trova la soluzione, ma l'istante successivo il mito stabilisce che le donne non hanno il logos. La mitologia compie un'operazione sofisticata: utilizza la metafora della generazione femminile per descrivere l'atto della creatività intellettuale, che però viene riservata esclusivamente agli uomini

C'è un dibattito tra sostenitori dell'ermeneutica - Vattimo, per esempio - e sostenitori del ritorno al realismo, Ferraris in testa. Certo, non possiamo fare a meno dell'idea di verità, ma supporre un reale immutabile e indipendente dalla nostra attività non rischia di offrire un ancoraggio a discorsi autoritari?
Ho sentito di questi discorsi, anche qui al Festival. Quando sento dire che dovremmo tornare al realismo mi scatta un campanello d'allarme. Avverto il rischio di derive. Se non puoi avere più ideali la politica diventa pura amministrazione di una realtà sulla quale non hai più potere.

La realtà - come diceva il vecchio Marx - va pensata assieme alla sua negazione…

Se non è più possibile uno scarto rispetto alla realtà esistente è finita.


Un nuovo realismo anche per l'arte contro la banalità del profitto 
di Roberto Gramiccia 
Il dibattito sul Postmoderno e i suoi risvolti estetici

Quella di un Nuovo realismo è la prospettiva che ha aperto Maurizio Ferraris nella relazione tenuta a Carpi del Festival della Filosofia. Si tratta di un tema che ultimamente ha riempito di sè pagine di giornali e riviste specializzate. Esso è stato posto in una relazione oppositiva rispetto ai fondamenti del Postmoderno. E, in particolare, della lettura che ne offre, ormai da molti anni, il Pensiero debole di Gianni Vattimo. Da questa lettura, non priva di aspetti interessanti e propositivi, relativi in particolare ad un'attenzione che tende a evitare qualsiasi assolutismo e qualsiasi pensiero "perfettista", trae alimento, tuttavia, gran parte del repertorio di luoghi comuni che in qualche modo sostiene il "Pensiero unico".
In arte, in particolare, la liquidazione di qualsiasi prospettiva modernista, di qualsivoglia cultura del futuro e della trasformazione (le stesse dalle quali traeva origine la temperie delle avanguardie e delle neoavanguardie) ha prodotto una deriva relativistica e banalizzatrice, che ha lasciato libero il campo alle scorrerie liberiste e liberticide che hanno trasformato l'arte in merce e l'artista in un funzionario passivo del sistema dell'arte.
Il paradigma fondativo di questo sistema non è la ricerca, non è la qualità artistica, non è la creatività ma il profitto. Solamente il profitto. Un pensiero forte, quindi, che paradossalmente utilizza il "Pensiero debole" di Vattimo come una sorta di ambiguo grimaldello. La negazione, infatti, di qualsiasi prospettiva, connotata nel senso del cambiamento (e della rivoluzione), ha legittimato tutti quei processi di smaterializzazione dell'arte già ampiamente autorizzati da una lettura fondamentalista della lezione di Duchamp.
E così, ad esempio, la Transavanguardia ha letteralmente teorizzato l'impossibilità di un "nuovo radicale", lasciando agli artisti solo la possibilità prevalente, se non esclusiva, di "ruminare" i fondamentali dei vecchi "ismi" (dell'Espressionismo novecentesco in particolare). E più corpo che mai ha preso l'idea, già in sé fortissima, che l'arte possa prescindere da un legame forte fra progetto, materia, forma e spazio. Questa cosa qui mandava in bestia Alberto Burri, tanto per fare un nome (un grande nome) molto prima che si affermasse il Postmoderno. Ma quest'ultimo, imponendosi, ha reso possibile che tutte le teorie, anche quelle che decretano la fine della storia (Fukuyama), e quindi dell'arte, possano essere ritenute legittime.
E' per questi motivi che il ragionamento di Maurizio Ferraris e dei filosofi che animeranno il grande convegno che si terrà in primavera a Bonn sui temi del New Realism, e che ha avuto al Festival della Filosofia una sua autorevolissima anticipazione, riveste una particolare importanza, per la sua dimensione filosofica, evidentemente, ma anche per il suo coté estetico.
«Non esistono fatti ma solo interpretazione dei fatti» è la fin troppo citata frase di Nietzsche che è a fondamento della deriva relativistica del contemporaneo.
L'utilizzo fondamentalista dell'affermazione di Nietzsche - che non esistono dati assoluti e definitivi ma che essi si danno in quanto interpretazioni dell'uomo - ha autorizzato l'imporsi di un pensiero che, mentre conferma lo stato di cose presenti, pretende di fondarsi su una visione rispettosa di ogni punto di vista. E così il Pensiero unico, che tanto si ispira a una lettura certamente volgare del Postmoderno, è diventato il collante del blocco sociale che sostiene l'attuale sistema di potere nel mondo occidentale.
Ferraris e il Nuovo realismo mettono in discussione questo punto di vista, non certo per ritornare ad una visione prepotentemente assolutistica e/o banalmente positivistica ma, semmai, per riaffermare il primato dell'autonomia e della precedenza del mondo esterno rispetto ad ogni schema percettivo e conoscitivo.
In arte, come in filosofia, pur non sottovalutando l'enorme gamma delle interpretazioni possibili, si deve ritornare a non poter prescindere da un dato di realtà fondamentale e cioè che le cose sono fuori di noi e vivono di vita propria. I fenomeni, quelli sociali e quelli estetici, esistono indipendentemente dall'interpretazione che noi siamo in grado di darne. E sono di entità diversa e diversamente influenti sulla storia e sulle sue dinamiche.
La realtà inconfutabile dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo non può essere messa sullo tesso piano di altre "verità minori" che pure è possibile sostenere. Così come, in arte, è fondamentale la valutazione del "peso del reale". C'è un artista (Pizzi Cannella) che recentemente ha affermato che tutti i pittori sono realisti, indipendentemente dallo stile iconico, aniconico, installativo, concettuale da essi prescelto. Intendeva dire, evidentemente, che il mondo esterno pre-esiste ed influenza tutti gli artisti, a patto che essi siano tali, e cioè capaci e liberi.
Il punto è che proprio questa libertà negli ultimi decenni è stata messa in discussione e quindi, piuttosto che la libera ricerca che non può non tenere conto del reale, si è imposta la liturgia (per altro noiosa e iterativa) della stanca ripetizione di operazioni concettual-tecnologico-installative, più o meno sensazionalistiche, che riempiono gli attuali musei d'arte contemporanea.
Per questo pensiamo che il Nuovo realismo di Ferraris possa far bene alla filosofia. Possa far bene all'arte.

lunedì 22 agosto 2011

Filosofía y Superstición

Filosofía y Superstición


Nietzsche nunca hubiese visitado Puerto Rico. Sufría de terribles jaquecas. Por recomendaciones médicas debía evitar la luz intensa y los climas extremos, ya sean fríos o calientes. Entre nosotros, ya se sabe, todo es intenso y extremo. Pasaba los veranos en los Alpes suizos, el invierno en la Riviera francesa y, entre abril y mayo, en la ciudad de Turín. De hecho, fue Turín la última morada del Nietzsche lúcido; después pasaría una década sumido en el silencio, enfermo y perdido. Fue también en esta ciudad, surcada mágicamente por el río Po, donde aconteció aquel célebre episodio del abrazo de Nietzsche a un caballo azotado a latigazos por un cochero. Todavía nos conmueve -en la barbarie vigente contra los animales- la imagen del célebre filósofo pidiendo disculpas al rebelde rocín por tanta bestialidad humana.

Escribo desde Turín. Llevo conmigo varios libros, entre ellos, “Nietzsche in Turin: an intimate biography”, de Lesley Chamberlain, y otro, del mismo Nietzsche, “Escritos desde Turín. Cartas y notas de locura”. Cada ciudad reclama un mapa intelectual propicio. Lo más relevante no lo he dicho aún: espero a Gianni Vattimo, filósofo turinés, inaugurador del pensamiento débil y uno de los más creativos intérpretes de Nietzsche y de Heidegger. Vattimo me ha invitado al Café Fiorio. Via Po, número 8, para más señas. El elegante filósofo, con abrigo y sombrero, llega también acompañado de su impecable cortesía y refinado sentido del humor. Vive frente al establecimiento, pero es otro el motivo de su elección: “este es el antiguo Café frecuentado por Nietzsche”. Pide un jugo de naranja con una gota de limón. Ordeno, por supuesto, un café. Anotada la selección, aclara: “en mi tierra invito yo”.

Gianni Vattimo es hombre de ritos, él los llama supersticiones. Todas las noches reza Completas utilizando el breviario latino: “Sé que nadie escucha, pero me reconforta, me da placer, así como me da más placer leer los Evangelios que el Kamasutra”. Todos los domingos va al cementerio a conectarse con sus compañeros Gianpiero y Sergio. “No sé qué pensar del más allá, pero necesito establecer una relación con mis muertos. De todos modos, la representación del más allá tiene siempre algo de idolatría. Lo ha dicho Pablo. Creo con Aristóteles que existen breves momentos de intensidad en los cuales se participa de la vida divina. Temo al cómo del tránsito no a la muerte misma”. Su mirada me recuerda que hoy es domingo.

A sus 75 años, el filósofo postmoderno afirma sin autocompasión: “vivo solo, con una empleada doméstica y un gato”. Seguramente un gato emparentado al descrito por Miguel de Unamuno: “Mi gato nunca se ríe o se lamenta, siempre está razonando”.

A diferencia de tantos postmodernos enrevesados, Vattimo piensa como filósofo, pero habla y escribe como periodista. “Si queremos que la filosofía juegue un rol, incluso político, en la cultura hodierna, lo mínimo es ser claro. Hay un complejo entre los académicos de que lo profundo y difícil debe ser incomprensible”. El también eurodiputado deja fluir su espíritu travieso: “leo de buena fe a colegas como Giorgio Agamben, Massimo Cacciari, Antonio Negri, pero me pregunto constantemente, qué es lo que dicen”. Muchos arquitectos y diseñadores se inspiran en sus ideas, pero él tampoco teme relativizarlos: “en muchos de esos muebles de corte postmoderno no me puedo sentar. Prefiero, entonces, el mobiliario del ochocientos”.

Vattimo es siempre impredecible tanto en sus respuestas como en sus posturas. Últimamente ha llamado la atención por su retorno al cristianismo de la mano poco mistagógica de Nietzsche, y de otro converso, René Girard. El mismo se refiere a esta etapa de su historia como “la más escandalosa”. Parte de la célebre frase de Nietzsche: “Dios ha muerto” y asevera que, lejos de lo que comúnmente se cree, no es una profesión de ateísmo. La frase nietzschena concluye: “y queremos que vivan muchos dioses”. Frente a la violencia de un fundamento único, deja abierto el camino del pluralismo, lo que le permite a Vattimo reencontrarse con un cristianismo no centrado en el poder, sino en el debilitamiento, en la caridad.

La tendencia postmoderna contrasta con otra que experimenté en un debate reciente entre escritores. Jorge Volpi dogmatizaba como en los viejos tiempos del iluminismo: “Todas las religiones son perniciosas. Deben desaparecer”. Es justo el tono ideológico que ha buscado deconstruir el pensamiento débil de Vattimo: “Sólo una filosofía absolutista puede sentirse autorizada para negar la experiencia religiosa”.

Se ha hecho tarde. Gianni Vattimo me explica cómo llegar al antiguo refugio de Nietzsche. Es domingo. Se despide supersticiosamente.

lunedì 25 luglio 2011

Un Nietzsche italiano: Gianni Vattimo e le avventure dell'oltreuomo rivoluzionario



A settembre in libreria da Manifestolibri

Un Nietzsche italiano: Gianni Vattimo e le avventure dell'oltreuomo rivoluzionario

Con un'intervista a Vattimo su Nietzsche, la rivoluzione e il riflusso

Se il primo incontro di Gianni Vattimo con Nietzsche intendeva soprattutto denazificare il filosofo tedesco e recuperarlo in chiave esistenzialistica, ben più originale è la lettura degli anni Settanta, quando il padre dello Zarathustra assume le vesti tutte politiche di un autore libertario e “rivoluzionario”, diventando punto di riferimento per la sinistra.
Il volume ripercorre criticamente la storia dell’«oltreuomo» dionisiaco, mettendola in relazione con l’uso pubblico che di Nietzsche è stato fatto nel periodo della contestazione sessantottina, dell’Autonomia e infine del terrorismo e del riflusso.
Emerge in controluce la storia di una parte dell’intellighenzia critica italiana, alla ricerca di una via d’uscita “individualistica” dalla dialettica e dalla crisi del marxismo anche attraverso autori che, pur collocati a destra, mettevano in evidenza i limiti della società borghese e del pensiero universalistico.
Con il rischio, però, di favorire quella mentalità neoliberale che costituisce oggi un pericoloso avversario per la democrazia moderna.

lunedì 26 luglio 2010

Il destino dell'antagonista"vincitore"


26/7/2010
Il destino dell'antagonista "vincitore"
La Stampa

GIANNI VATTIMO
Il fatto che i Ditirambi di Dioniso - l’unica raccolta poetica che Nietzsche abbia progettato di pubblicare come libro a parte, e che uscì poi postuma - siano quasi ignorati o comunque assai poco discussi dalla letteratura filosofica, e invece oggetto di attenzione da parte dei musicisti (a iniziare da Richard Strauss e dal suo Poema sinfonico su Così parlò Zarathustra), è un altro dato emblematico della contraddittoria fortuna del filosofo come «rivoluzionario della cultura».

Il nome di Dioniso collega queste poesie alla prima grande opera nietzschiana, La nascita della tragedia, in cui il poco meno che trentenne professore di filologia classica annunciava il suo progetto di rinnovamento «wagneriano» della decadente civiltà europea ormai dominata dal razionalismo socratico e dalla incipiente organizzazione totale della società industriale.

Quel progetto - ripresa della creatività perduta con il distacco dal mito preclassico che si celebrava nelle feste dionisiache da cui era nata la tragedia greca - accompagna in forme diverse tutta la carriera filosofica di Nietzsche, nonostante la delusione e il distacco da Wagner cominciati proprio con la nascita del Festival di Bayreuth, e culmina nel finale grande attacco al Cristianesimo riassunto nel motto «Dioniso contro il Crocifisso». Un attacco che, emblematicamente, rivive oggi, come a Bayreuth, solo in un festival. Ma il destino dell’antagonista «vincitore» è poi tanto diverso?
Si veda inoltre: Salisburgo, così cantò Zarathustra, di Giorgio Pestelli.

domenica 25 ottobre 2009

As religiões estão mortas

Un articolo di qualche mese fa...

As religiões estão mortas
09/03/2009
As igrejas só sobrevivem porque suas hierarquias querem poder e privilégios
Gianni Vattimo*, para El País
http://revistadasemana.abril.com.br/edicoes/78/contraamare/materia_contraamare_426522.shtml

Todos recordamos a famosa frase de Nietzsche sobre a morte de Deus. E também sua cláusula: Deus seguirá projetando sua sombra em nosso mundo durante muito tempo. E se aplicássemos a frase do filósofo alemão também às religiões? Em grande parte do mundo contemporâneo a religião está morta, mas ainda projeta sombras em vários aspectos da vida privada e coletiva.
As religiões estão mortas porque não garantem mais a ordem racional do mundo. Dentro da sociedade cristã e católica da Europa é fácil ver que são muito poucos os que observam os mandamentos da moral cristã oficial. A institucionalização das crenças, que deu origem às igrejas, incluiu uma reivindicação do poder histórico no sentido de que era quase natural que uma religião moral se convertesse em uma instituição poderosa. É o que parece ter ocorrido com o catolicismo, mas pode-se ver fenômenos similares na história de outras religiões. Por exemplo, no hinduísmo, o mesmo fato de que existe uma diferença entre clérigos e leigos faz com que a religião se converta em uma instituição cujo objetivo principal é sempre sua sobrevivência.
Como no caso da morte de Deus de Nietzsche, a morte das religiões institucionalizadas não significa que não tenham legitimidade. Chega um momento em que simplesmente elas já não são necessárias. E esse momento é nossa época porque as religiões já não contribuem para uma existência humana pacífica nem representam um meio de salvação. A religião é um poderoso fator de conflito em momentos de mudança intensa entre mundos culturais diferentes. É o que ocorre atualmente. Na Itália, por exemplo, existe um problema com a construção de mesquitas porque a população muçulmana aumentou de forma espetacular. A hegemonia tradicional da igreja católica está em perigo, mas os católicos não se sentem ameaçados por essa situação – apenas o papa e os bispos.
A igreja afirma que defende seu poder (e os aspectos econômicos dele) para preservar sua capacidade de pregar o Evangelho. Como em tantas instituições, a razão suprema de sua existência cai para segundo plano em troca da continuidade do status quo. Enquanto as religiões continuarem desejando ser instituições poderosas serão um obstáculo para a paz e o desenvolvimento de uma atitude genuinamente religiosa: basta pensar em quanta gente abandonou a igreja católica pelo escândalo que representam as pretensões do papa de imiscuir-se nas leis civis italianas. Nos Estados Unidos o anúncio do presidente Obama sobre sua intenção de eliminar as restrições ao aborto provocou ampla oposição por parte dos bispos católicos. A oposição contra qualquer forma de liberdade de escolha relacionada à família, sexualidade e bioética é contínua e intensa, sobretudo em países como Itália e Espanha. A igreja se opõe a leis que não obrigam, só permitem, a decisão pessoal nesses assuntos. De que lado está a civilização?
Recentemente o papa repetiu sua ideia de que a verdade não é negociável. Esse "fundamentalismo" é característica do catolicismo ou de todo o cristianismo? Quem fala de civilizações tem a responsabilidade de levar em conta essa condição. Enquanto não for eliminado o aspecto autoritário e de poder das religiões, será impossível avançar até o mútuo entendimento entre as diversas culturas do mundo. A compaixão parece ser a base fundamental de toda experiência religiosa. É esse o ponto de vista do cristianismo, budismo, hinduísmo, judaísmo e também do Islã. Mas é precisamente por isso que devemos reconhecer que chegou a hora de as pessoas religiosas se voltarem contra as religiões. E afirmarem que a era da religião-instituição acabou e sua sobrevivência só se deve aos esforços das hierarquias religiosas para conservar seu poder e seus privilégios.
*Gianni Vattimo é filósofo e político italiano