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lunedì 11 marzo 2013

Zigaina e Pasolini. Quando l'arte non può diventare moda

da La Stampa

Quando: dal 9 marzo al 1 maggio 2013
Dove: Museo Regionale di Scienze Naturali - via Giolitti 36, Torino (TO)


L’Associazione Italiana Paralisi Spastica, AIPS, presieduta da Angelo Catanzaro, organizza la terza edizione del ciclo di mostre “Lo Slancio”, dedicate a grandi pittori disabili del Novecento (nelle passate edizioni presentò Hans Hartung e Mattia Moreni), allestendo il progetto culturale e sociale più importante degli ultimi anni a livello nazionale. 

È al via, infatti, il grande progetto culturale Zigaina e Pasolini – Quando l’arte non può diventare moda - che, sotto la curatela di Enzo Spadon, vedrà esposte presso il Museo Regionale di Scienze Naturali di Torino più di 50 opere dei due artisti, di cui 12 disegni di Pier Paolo Pasolini, per la prima volta presentati a Torino ed in Piemonte. 

Due artisti e amici sinceri, anzi, usando le parole stesse di Pasolini “ontologici l’uno per l’altro”, nonché sodali nel concepire l’arte e quindi la vita stessa. 


domenica 26 giugno 2011

"Anche in Italia ci vorrebbe una svolta ma i politici hanno paura del Vaticano"

"Anche in Italia ci vorrebbe una svolta ma i politici hanno paura del Vaticano"

La Repubblica, 26 giugno 2011. Intervista di Diego Longhin

TORINO - «Il problema dell'Europa si chiama Italia, non per colpa degli italiani, ma per la colonizzazione portata avanti dal Vaticano e per la codardia dei politici». Il professor Gianni Vattimo, filosofo ed eurodeputato dell'Italia dei Valori, nutre dubbi sul fatto che ci possa essere una svolta in Italia nel riconoscimento delle coppie gay.

Si continuerà a far polemiche su una pubblicità Ikea e sullo slogan "siamo aperti a tutti i tipi di famiglia"?
«Il problema è l'intreccio tra l'arretratezza politica e una Chiesa che considera i suoi principi come principi di diritto naturale. Non solo sulle unioni omosessuali, ma sulla bioetica, sul finevita, sul divorzio. Principi non negoziabili, anche se la Chiesa si dichiara democratica. Il politico, pur di non perdere un voto del vescovo o del parroco, preferisce evitare di affrontare la questione, anche se nel Paese la posizione è diversa».
La maggioranza è a favore delle unioni gay?
«Basta guardare i sondaggi. Non vogliamo usare la parola matrimonio perché infastidisce. Va bene. Sarebbe importante un riconoscimento legale. Anche i cattolici sono d'accordo. Anche io mi considero un cristiano, non tanto praticante perché la Chiesa pensa che sia un bandito...».
La maggioranza politica non corrisponde a quella reale?
«No, ma è una cosa che accade sempre più spesso. Si vincono i referendum, ma poi si perde in parlamento».
Tra i politici italiani vede un Cuomo o un Obama che possa infrangere la codardia?
«Difficile, non vedo nessuno».
L'ex primo cittadino di Torino, Chiamparino, aveva partecipato alle nozze tra due lesbiche per riportare l´attenzione sul tema. Una spinta da parte dei sindaci avrebbe un effetto?
«Chiamparino ha fatto bene e si è dimostrato aperto. Ma quanti sindaci sono disposti a seguire il suo esempio? Pochi».
L'oncologo Veronesi ha esaltato l'amore gay come scelta consapevole, più evoluta del rapporto etero. È d'accordo?
«Alcune argomentazioni hanno un loro senso. Veronesi dice che nell'amore gay si cerca la vicinanza di pensiero e sensibilità con l'altro, mentre l'amore etero è strumentale alla procreazione. In una battuta sfido a trovare un maschio normale che voglia assomigliare alla sua signora. Poi si possono avere figli con tecniche diverse, senza ricorrere a strumenti biologici. Attenzione però a non esagerare. E lo dico come gay. Non c'è una superiorità nell´amore gay rispetto all'amore etero».
Lei si sposerebbe?
«Sono per una legalizzazione. Non è un problema di matrimonio nel senso classico. Pasolini oggi sarebbe a favore delle nozze? Ho dei dubbi perché tra i gay prevale la difesa della propria diversità. Altra cosa è un riconoscimento legale dell´unione, che varrebbe per le coppie omosessuali come per quelle etero».

lunedì 10 maggio 2010

VATTIMO: CI MANCA IL PASOLINI CORSARO E PROFETICO

VATTIMO: CI MANCA IL PASOLINI CORSARO E PROFETICO
Il filosofo rimpiange «la forza profetica del poeta contro l’omologazione culturale». Cianchi e Donada hanno letto due dialoghi inediti degli anni friulani dell’intellettuale
lunedì 10 maggio 2010, Messaggero Veneto. Di Nicola Cossar

Ci sono domande che spesso non trovano risposta. Una su tutte: perché oggi non c’è un Pasolini? E questa ne chiama altre: il suo senso profetico, tra dramma e ossessione, sarebbe lo stesso o risulterebbe invece inattuale? La sua diversità sarebbe sempre tale o cadrebbe vittima di un’omologazione strisciante, di una normalizzazione? Fra tanti punti di domanda, un po’ di certezze ne abbiamo: ci mancano la sua testimonianza civile e la visione profetica, non nel senso tragico (fino alla progettazione della propria morte, tesi molto cara all’amico del poeta, Giuseppe Zigaina), ma di quella straordinaria capacità – pienamente espressa negli Scritti corsari – di leggere i tempi e i loro segni, di prefigurare gli scenari venturi; ci mancano la sua passione e la sua assoluta non assimilabilità come uomo e come artista. Un’intelligenza libera e un’anima difficilmente sezionabili e divisibili tra pensiero, scrittura e cinema. Corsare, come si diceva. Pasolini e la sua esistenza forse sono un’opera d’arte, in tutte le sue sfumature cromatiche possibili: non ripetibile, soltanto da ammirare, specialmente quando è capace di dividerci, oggi come ieri, nel giudizio.
Inattualità di Pasolini è il titolo provocatorio che reca il primo numero 2010 di aut aut, la rivista diretta dal filosofo Pier Aldo Rovatti, dedicata all’estetica dei linguaggi pasoliniani, nei loro articolati percorsi espressivi, proponendo una bella serie di interventi dei partecipanti ad un corso tenuto dallo stesso professor Rovatti all’università di Trieste. Una selezione di questi esiti è stata presentata ieri, alla Feltrinelli, da Rovatti, direttore del traffico di idee (ortodosse ed eretiche), con guest star l’amico Gianni Vattimo.
L’incontro – in una sala gremitissima – è stato aperto con due pagine inedite friulane che Pier Paolo scrisse nei 1942 (Dialogo tra un maniscalco e la sera) e nel 1945 (Dialogo tra una vecchia e l’alba), ben interpretate da Gianni Cianchi e Chiara Donada. Vattimo, confessando di commuoversi puntualmente di fronte alle pagine in marilenghe ma di non riuscire ancora oggi a leggere Le ceneri di Gramsci, ha voluto precisare che la sua lettura dell’opera pasoliniana non è completa: «In me che dovrei avere particolare simpatia per lui a causa della sua diversità, c’è invece sempre stato qualcosa di irrisolto che non so spiegarmi». Senza dare giudizi categorici, ma in qualche modo esprimendoli, il filosofo torinese ha salvato l’attualità di un Pasolini corsaro e polemista, visionario e non omologato. «Forse non andrebbe ai gay pride né avrebbe mai aderito ai movimenti di liberazione gli omosessuali» ha chiosato Vattimo, che ha aggiunto: «Salvo l’intellettuale esemplare, non lo ritengo un artista classico. L’inattualità sta forse in romanzi che oggi non riesco più a leggere perché certe cose sono cambiate (ma la romanità linguistica di Gadda è molto superiore); i film li ho visti (amo Le mille e una notte), però certe tensioni drammatiche e profetiche oggi mi lasciano perplesso: il percorso stilistico di Fellini mi pare più coerente e lineare. Diciamo allora che il maggior interesse del lascito di Pasolini è costituito dalle tematiche affrontate, non nel modo, non nei linguaggi (scrittura e immagine) con cui li ha presentati».
Però Vattimo continua a commuoversi di fronte all’aspetto friulano. Perché? «Perché era poeticamente più convenzionale, più vicino a percorsi classici: mi viene in mente Pascoli». Dai contributi degli autori del numero di aut aut sono emersi altri aspetti dell’opera pasoliniana. La scelta poetica – si è detto – è legata a precisi dichiarati riferimenti provenzali e a quell’usignolo in cui Pier Paolo in qualche modo si incarna: è un essere che ha nostalgia della vita, che avverte un forte senso di esclusione, che però non toglie amore per la vita stessa, anzi lo accresce. Gioia e dolore sono sempre presenti, due toni intrecciati e sovrapposti, specialmente nei film, che sono «lingua scritta della realtà», ma anche nella nobile figura dell’intellettuale capace di dire no alle lusinghe del mondo che critica (se fosse qui oggi, andrebbe in tv?), ma che che nutre comunque la speranza dire sì alla vita.

VATTIMO: «CI MANCA PASOLINI AVEVA CAPITO IL MALE ITALIANO»

VATTIMO: «CI MANCA PASOLINI AVEVA CAPITO IL MALE ITALIANO»
Domani mattina a Udine dialogherà con Pier Aldo Rovatti su ”Pensiero debole ed etica minima”
sabato 08 maggio 2010, Il Piccolo di Trieste

UDINE. L’Italia d’oggi ha bisogno di profeti. Come Pier Paolo Pasolini, «figura di intellettuale di cui non abbiamo più esempi, e della quale abbiamo nostalgia». Ne è convinto il filosofo Gianni Vattimo, che insieme a Pier Aldo Rovatti è tra i “padri” del pensiero debole. «Non so come vorrei che fosse Pasolini oggi – dice –, ma so che vorrei sentirlo parlare in questa situazione».
Vattimo, con Rovatti, sarà protagonista domani di due incontri nell’ambito della rassegna Vicino/lontano, festival del pensiero in corso fino al 9 maggio, organizzato dall’omonima associazione culturale presieduta da Paolo Cerutti e coordinata da Paola Colombo e Antonio Maconi. Con Rovatti parlerà di “Pensiero debole ed etica minima” in un confronto in San Francesco (alle 11.30) moderato dal direttore de “Il Piccolo” Paolo Possamai; in seguito i due filosofi saranno protagonisti di un incontro sul tema “Aut-aut. Inattualità di Pasolini” alla Libreria Feltrinelli (alle 16).
Oggi, intanto, il festival prosegue con un fittissimo programma di dibattiti e incontri, con personalità di spicco come l’ex ministro Tommaso Padoa-Schioppa, i filosofi Derrick de Kerckhove e Nicola Gasbarro, i politologi Lucio Caracciolo, Marco Tarchi e Vittorio Emanuele Parsi, il sociologo Renzo Guolo, il giornalista Fabrizio Gatti, il magistrato Gherardo Colombo e l’avvocato Umberto Ambrosoli, al quale questa al sera al Teatro Nuovo (ore 21) sarà consegnato da Angela Terzani il Premio letterario internazionale intitolato a Tiziano Terzani, per il racconto-verità “Qualunque cosa succeda”, sulla vicenda umana e professionale di suo padre Giorgio Ambrosoli, avvocato ucciso da un killer nel 1979. Stasera Vattimo parteciperà anche a un incontro sul tema delle “diversità” al Teatro San Giorgio di Udine (ore 21), organizzato da Italia dei Valori Fvg.

Che cosa apprezza, in particolare, della figura di Pasolini?

«Pasolini, paradossalmente, oggi mi interessa di più come intellettuale che come artista - dice Gianni Vattimo -. Guardando un suo film o leggendo una sua poesia, si può avere l’impressione che appartengono al passato. Certo, ci sono film di Pasolini e sue poesie che mi piacciono ancora molto, come quelle scritte in friulano. Come intellettuale, invece, è stato una figura determinante, che ha sentito il male italiano. Penso che in ciò non sia stata indifferente la sua personale condizione di omosessuale in un’Italia rurale che si stava affacciando alla modernità».

La diversità di Pasolini è stata motore di consapevolezza?

«L’orizzonte di personale diversità credo abbia avuto una forte influenza. Una diversità che non incontrò tanto l’ostilità della cultura collettiva, quanto per esempio quella “istituzionale” del Pci, dal quale è stato duramente discriminato. Penso anche che nel Pci Pasolini vedesse una delle forme di quella struttura istituzionalizzata in cui si poteva proiettare l’immagine dell’Italia del futuro, modernizzata e industrializzata, molto lontana dalla sua personale nostalgia di un mondo altro. Pasolini non sarebbe mai andato a un Gay Pride, ad esempio, e neppure avrebbe invocato le nozze gay. Oggi si rivendicano giustamente questi diritti e io personalmente vado al Gay Pride. Ma si è persa tutta la tensione legata al sentirsi esclusi, crocifissi».

Non pensa che ci siano degli esclusi, oggi, in Italia?

«Certo che sì. Gli esclusi sono i poveri che abitano negli slum, quelli che non hanno neppure la possibilità di far sentire la propria voce. Non esiste più, però, quella forma di esclusione profetica, siamo arrivati all’esclusione economica e commerciale. Esclusione allo stato puro».

Dunque Pasolini la interessa per il suo opporsi all’omologazione?

«Pasolini rappresenta la rivendicazione della diversità come punto di vista profetico. Mentre oggi, paradossalmente, della diversità non si può parlare se non con una certa nostalgia. Non c’è nessuno, ormai, di così diverso da scandalizzare qualcuno. Recuperare almeno la nostalgia della tensione profetica pasoliniana oggi potrebbe ispirarci un atteggiamento diverso da quello dell’accettazione dell’ordine vigente».

Pasolini inattuale. Una caratteristica che rintraccia in qualche intellettuale oggi in Italia?

«Neanche per sogno. Non la sento presente perché in Italia non ci sono intellettuali che siano considerati stravaganti. Forse Ceronetti, che se ne sta sempre ai margini, oppure il mio collega filosofo del pensiero debole Rovatti, che esplora appunto i margini e le differenze. Lui ha interpretato il pensiero debole come cultura dei margini da cui può provenire un richiamo alla salvezza. La salvezza non può venire da una rivoluzione del pensiero che si realizzi una volta per tutte, in forma sistemica».

L’omologazione e la globalizzazione. Tutto da buttare?

«L’omologazione è una situazione tranquillizzante, che rischia sempre di addormentare le coscienze. Spero che ci siano ancora delle coscienze acute, come quella di Pasolini per esempio. Abbiamo bisogno di profeti, ma purtroppo non vedo molti in giro».

Come si costruisce un’etica minima per un mondo in cerca di profeti e di punti di riferimento valoriali?

«Dal punto di vista etico, è vero che siamo in un momento di deserto. Ma proprio per questo costruire un’etica sistematica è ancora più difficile. Basti pensare alla situazione in cui, con questa pretesa, si è ridotta la Chiesa. Credo, invece, sia necessario ripartire dai margini, dalle cose piccole, da ciò che sembra appunto minimo».

Questo vale anche per la politica?

«Certamente. Dal punto di vista politico sono favorevole a una resistenza “di quartiere”, alle manifestazioni di strada, alla difesa degli interessi minimi, a cominciare dai salari. Anche quando parlo della carità cristiana mi riferisco proprio a questo: bisogna cominciare dalle piccole cose, dalle scelte che si fanno ogni giorno. Credo in una contestazione che combatte pacificamente il sistema dai margini, attaccandolo sui fianchi. In Piemonte, per esempio, simpatizzo per i No Tav. Vogliono farci credere che bloccando queste opere si blocca lo sviluppo. Mi chiedo come si abbia ancora il coraggio di parlare di sviluppo economico guardando a quello che questo modello ha prodotto fino alla recente crisi finanziaria negli Stati Uniti».

C’è ancora spazio in politica per fare cose nuove?

«Viviamo in una situazione in cui l’unico modo in cui possiamo essere veramente rivoluzionari à rivendicare la legalità e l’applicazione della Costituzione. Siamo spolpati da mafie e da altre cose terrificanti. Penso che Di Pietro sia una delle poche figure dell’opposizione in Italia, proprio perché rivendica la legalità e il rispetto della Costituzione».

A che cosa sta lavorando ora?

«Insieme al mio collaboratore Santiago Zabala, sto per terminare la stesura di un nuovo libro “Hermeneutic Communism”. Un ripensamento del marxismo e del comunismo alla luce dell’ermeneutica contemporanea, che porta alla teoria di un comunismo libertario. Oggi, essendo finito il comunismo reale, quello per cui non ci si poteva dire comunisti, c’è finalmente la possibilità di essere comunisti ideali. Cioè credere in uno sviluppo economico e sociale controllato dai poteri popolari. Ho fiducia nei modelli sudamericani, quelli di Lula e di Morales. Non ne ho per la Cina, che sta diventando una potenza capitalistica anche peggiore di quella degli Stati Uniti».