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venerdì 31 gennaio 2014

Gianni Vattimo a Parole d'Unione

Intervista a Gianni Vattimo
 

L'insigne filosofo, europarlamentare eletto come indipendente nella lista dell'Italia dei Valori, traccia un bilancio di una legislatura che ha visto l'Unione Europea in grande affanno. E mette in guardia contro l'assolutismo astorico della tecnologia.
 

martedì 21 maggio 2013

Respuestas para tiempos convulsos



Las preguntas de la ética invaden todos los campos: de la política a la Red. 
Varios pensadores cuestionan los valores del mundo actual.





mercoledì 15 maggio 2013

Salone del libro di Torino: dove osano le idee


Da domani al via la 26esima edizione della manifestazione, a cui parteciperà anche Gianni Vattimo, ospite in diverse giornate. 
Per il programma e tutte le informazioni: http://www.salonelibro.it/


L'inaugurazione con il ministro Bray giovedì 16 alle 11.30. Annullato l'incontro con Mario Draghi.
Il 26° Salone Internazionale del Libro viene inaugurato giovedì 16 dal ministro per i Beni e le Attività Culturali, Massimo Bray, alle ore 11.30 e non alle 10.00 come precedentemente programmato.
A causa di sopravvenuti impegni il presidente della Bce Mario Draghi non potrà essere a Torino per l'incontro previsto giovedì 16 al Salone Internazionale del Libro, che viene pertanto cancellato.

sabato 6 aprile 2013

"Extravolti" - la mostra a Torino

di Emanuela Bernascone, La Stampa

EXTRAVOLTI
di Davide Iodice
11 - 18 aprile 2013
Palazzo Saluzzo Paesana
via della Consolata 1 bis, Torino
Inaugurazione 11 aprile, h 18.30


Dall’11 al 18 aprile 2013 le sale storiche di Palazzo Saluzzo Paesana verranno “occupate” dai volti stravolti di numerosi personaggi della cultura italiana che hanno posato per il  progetto fotografico di Davide Iodice EXTRAVOLTI, in difesa della cultura.


lunedì 5 settembre 2011

Il postmoderno in letteratura e nelle arti

Anche questo intervento (critico) dello scrittore Edward Docx fa in qualche modo parte del dibattito sul pensiero debole e sul postmoderno. 
Al fondo, invece, un breve intervento dell'architetto Denise Scott Brown, tratto dal catalogo della mostra al Victoria and Albert Museum.

Addio postmoderno
Benvenuti nell'era dell'autenticità
Edward Docx - La Repubblica, 3 settembre 2011

Ho delle buone notizie per voi. Il 24 settembre potremo ufficialmente dichiarare morto il postmoderno. Come faccio a saperlo? Perché in quella data al Victoria and Albert Museum si inaugurerà quella che viene definita la "prima retrospettiva globale" al mondo intitolata "Postmoderno: stile e sovversione 1970-1990". 
Un momento.... Vi sento urlare. Perché dichiarano ciò? Che cosa è stato il postmoderno, dopo tutto? Non l'ho mai capito. Come è possibile che sia finito? Non siete gli unici. Se esiste una parola che confonde, irrita, infastidisce, assilla, esaurisce e contamina noi tutti è "postmoderno". E nondimeno, se lo si capisce, il postmodernismo è scherzoso, intelligente, divertente, affascinante. Da Madonna a Lady Gaga, da Paul Auster a David Foster Wallace, la sua influenza è arrivata ovunque e tuttora si espande. È stata l'idea predominante della nostra epoca. 
Allora: di che cosa si è trattato, esattamente? Beh, il modo migliore per iniziare a capire il postmodernismo è facendo riferimento a ciò che c'era prima: il modernismo. A differenza, per esempio, dell'Illuminismo o del Romanticismo, il postmodernismo racchiude in sé il movimento che si prefiggeva di ribaltare. A modo suo, il postmodernismo potrebbe essere considerato come il tardivo sbocciare di un seme più vecchio, piantato da artisti quali Marcel Duchamp, all'apice del modernismo tra gli anni Venti e Trenta. Di conseguenza, se i modernisti come Picasso e Cézanne si concentrarono sul design, sulla maestria, sull'unicità e sulla straordinarietà, i postmoderni come Andy Warhol e Willem de Kooning si sono concentrati sulla mescolanza, l'opportunità, la ripetizione. Se i modernisti come Virginia Woolf apprezzarono la profondità e la metafisica, i postmoderni come Martin Amis hanno preferito l'apparenza e l'ironia. In altre parole: il modernismo predilesse una profonda competenza, ambì a essere europeo e si occupò di universale. Il postmodernismo ha prediletto i prodotti di consumo e l'America, e ha abbracciato tutte le situazioni possibili al mondo. 
I primi postmodernisti si legarono in un movimento di forte impatto, che mirava a rompere col passato. Ne derivò una permissività nuova e radicale. Il postmodernismo è stato una rivolta apprezzabilmente dinamica, un insieme di attività critiche e retoriche che si prefiggevano di destabilizzare le pietre miliari moderniste dell'identità, del progresso storico e della certezza epistemica. Più di ogni altra cosa il postmodernismo è stato un modo di pensare e di fare che ha cercato di eliminare ogni sorta di privilegio da qualsiasi carattere particolare e di sconfessare il consenso del gusto. Come tutte le grandi idee, è stato una tendenza artistica evolutasi fino ad assumere significato sociale e politico. Come ha detto il filosofo egiziano-americano Ihab Hassan, nella nostra epoca si è affermato un "forte desiderio di dis-fare, che ha preso di mira la struttura politica, la struttura cognitiva, la struttura erotica, la psiche dell'individuo, l'intero territorio del dibattito occidentale". 
Il postmodernismo apparve per la prima volta come termine filosofico nel libro del 1979 dell'intellettuale francese Jean-François Lyotard intitolato "The Postmodern Condition", nel quale si affermava che gruppi diversi di persone utilizzano il medesimo idioma in modi differenti e ciò implica che possano arrivare a vedere il mondo con occhi alquanto differenti e personali. Così, per esempio, il sacerdote utilizza il termine "verità" in modo assai diverso dallo scienziato, che a sua volta intende la medesima locuzione in modo ancora diverso rispetto a un artista. Di conseguenza, svanisce completamente il concetto di una visione unica del mondo, di una visione predominante. Se ne deduce - sostenne ancora Lyotard - che tutte le interpretazioni convivono, e sono su uno stesso piano. Questo confluire di interpretazioni costituisce l'essenza del postmodernismo. 
Purtroppo, il 75% di tutto ciò che è stato scritto su questo movimento è contraddittorio, inconciliabile, oppure emblematico della spazzatura che ha danneggiato il mondo accademico della linguistica e della filosofia "continentale" per troppo tempo. Non tutto però è da buttar via. Due sono gli elementi importanti. Il primo è che il postmodernismo è un'offensiva non soltanto all'interpretazione dominante, ma anche al dibattito sociale imperante. Ogni forma d'arte è filosofia e ogni filosofia è politica. Il confronto epistemico del postmodernismo, l'idea di de-privilegiarne un significato, ha pertanto condotto ad alcune conquiste utili per il genere umano. Se infatti ci si impegna per sfidare il ragionamento prevalente e predominante, ci si impegna altresì per dare voce a gruppi fino a quel momento emarginati. Così il postmodernismo ha aiutato la società occidentale a comprendere la politica della differenza e quindi a correggere le miserabili iniquità ignorate fino a quel momento. Il secondo punto va maggiormente in profondità. Il postmodernismo mirava a qualcosa di più che pretendere semplicemente una rivalutazione delle strutture del potere. Affermava che noi tutti come esseri umani altro non siamo che aggregati di quelle strutture. Sosteneva che non possiamo prendere le distanze dalle richieste e dalle identità che tali discorsi ci presentano. Adios, Illuminismo. Bye bye, Romanticismo. Il postmodernismo, invece, afferma che ci muoviamo attraverso una serie di coordinate su vari fronti - classe sociale, genere, sesso, etnia - e che queste coordinate di fatto costituiscono la nostra unica identità. Altro non c'è. Questa è la sfida fondamentale che il postmodernismo ha portato al grande convivio delle idee umane, in quanto ha cambiato il gioco, passando dall'autodeterminazione alla determinazione dell'altro. 
Eccoci però giunti alla domanda trabocchetto, la più subdola di tutte: come sappiamo che il postmodernismo è alla fine, e perché? Prendiamo in considerazione le arti, la linea del fronte. Non si può affermare che l'impatto del postmodernismo sia minore o in via di estinzione. Anzi, il postmodernismo è esso stesso diventato il sostituito dell'ideologia dominante, e sta prendendo posto nella gamma di possibilità artistiche e intellettuali, accanto a tutte le altre grandi idee. Tutti questi movimenti in modo impercettibile plasmano la nostra immaginazione e il modo col quale creiamo e interagiamo. Ma, sempre più spesso, il postmodernismo sta diventando "soltanto" una delle possibilità che possiamo utilizzare. Perché? Perché tutti noi siamo sempre più a nostro agio con l'idea di avere in testa due concetti inconciliabili: che nessun sistema di significato possa detenere il monopolio sulla verità, e che nondimeno dobbiamo riformulare la verità tramite il nostro sistema scelto di significati. 
Forse, il modo migliore per spiegare le ragioni di questo sviluppo è usare la mia forma d'arte, il romanzo. Il postmodernismo ha influito sulla letteratura sin da quando sono nato. In effetti, il modo stesso col quale ho scritto questo articolo - mescolando parzialmente a livello di consapevolezza tono formale e tono informale - è in debito verso le sue stesse idee. Stile alto e stile basso coesistono allo scopo precipuo di creare occasioni di stupore, sorpresa, introspezione. Il problema, però, è quello che potremmo definire il paradosso del postmodernismo. Per qualche tempo, quando il Comunismo crollò, la supremazia del capitalismo occidentale parve messo a dura prova proprio ricorrendo alle tattiche ironiche del postmodernismo. Col passare del tempo, però, si è presentata una nuova difficoltà: tenuto conto che il postmodernismo se la prende con qualsiasi cosa, ha iniziato ad affermarsi una sensazione di confusione, finché negli ultimi anni è diventata onnipresente. Una mancanza di fiducia nei dogmi e nell'estetica della letteratura ha permeato la cultura e pochi si sono sentiti sicuri o esperti a sufficienza da riuscire a distinguere la spazzatura da ciò che non lo è. Pertanto, in assenza di criteri estetici attendibili, è diventato sempre più conveniente stimare il valore delle opere in rapporto ai guadagni che esse assicuravano. Così, paradossalmente, siamo arrivati a una fase nella quale la letteratura stessa è ormai minacciata, prima dal dogma artistico del postmodernismo, poi dagli effetti involontari di tale dogma, l'egemonia dei marketplace. 
Esiste inoltre un paradosso parallelo, in politica e in filosofia. Se deprivilegiamo tutte le posizioni, non possiamo affermare alcuna posizione, pertanto non possiamo prendere parte alla società e quindi, in definitiva, un postmodernismo aggressivo diventa indistinguibile da una specie di inerte conservatorismo. La soluzione postmoderna non servirà più da risposta al mondo nel quale ci ritroviamo a vivere. In quanto esseri umani, noi non desideriamo esplicitamente essere lasciati in compagnia del solo mercato. Perfino i miliardari vogliono essere collezionisti di opere d'arte. Certo, internet è quanto di più postmoderno esista su questo pianeta. Il suo effetto più immediato in Occidente pare essere stato la nascita di una generazione che è maggiormente interessata ai social network che alla rivoluzione sociale. Tuttavia, se sappiamo guardare oltre scopriamo un secondo effetto negativo indesiderato: una smania a conseguire una sorta di veridicità offline. Desideriamo essere riscattati dalla volgarità dei nostri consumi, dalla simulazione del nostro continuo atteggiarci. 
Se il problema per i postmodernisti è stato che i modernisti avevano detto loro che cosa fare, allora il problema dell'attuale generazione è esattamente il contrario: nessuno ci sta dicendo che cosa fare. Questo crescente desiderio di una maggiore veridicità ci circonda da tutte le parti. Lo possiamo constatare nella specificità dei movimenti food local, per i cibi a chilometro zero. Lo possiamo riconoscere nelle campagne pubblicitarie che ambiscono ardentemente a raffigurare l'autenticità e non la ribellione. Lo possiamo vedere nel modo col quale i brand stanno cercando di prendere in considerazione un interesse per i valori dell'etica. I valori tornano ad avere importanza. Se andiamo ancor più in profondità, ci accorgiamo della crescente rivalutazione dello scultore che sa scolpire e del romanziere che sa scrivere. Jonathan Franzen ne è un esempio calzante: uno scrittore encomiato in tutto il mondo perché si sottrae alle evasioni di genere o alle strategie narrative postmoderne, cercando invece di dire qualcosa di intelligente, di autentico, scritto bene, sulla propria epoca. Ciò che conta, dopo tutto, non è soltanto la storia, ma come è raccontata. Queste tre idee - specificità, valori, autenticità - sono in aperto conflitto con il postmodernismo. Stiamo dunque entrando in una nuova era. Potremmo provare a chiamarla "l'Età dell'Autenticità". Vediamo un po'come andranno le cose.
(Traduzione di Anna Bissanti)


Imparando da Las Vegas
La Repubblica, 3 settembre 2011


Denise Scott Brown approdò a Las Vegas coi suoi studenti dell'Ucla nel 1965 e poi nel 1968, convincendo il marito Robert Venturi a seguirla. "Learning from Las Vegas" fu il frutto di quelle indagini. Il libro analizzava, senza scomunicarla, la malfamata città del vizio, «una città che spavaldamente sembrava fare a meno non solo degli architetti, ma dell'architettura in generale», scrive Manuel Orazi nella postfazione alla traduzione italiana. Las Vegas cresceva per accumulo di oggetti fastosi e improbabili che si accatastavano sui due lati della Route 91, frutto di speculazione sulle aree. Era l'esempio di come la funzionalità e la razionalità predicate dal movimento moderno potessero infrangersi contro l'irrompere di gusti e di consumi, contro la potenza del mercato. Il libro provocò molte reazioni e Scott Brown e Venturi vennero accusati di snobismo, di apologia del disordine, di giustificare e non solo di studiare.

Robert Venturi
«Robert Venturi e io ci consideriamo ancora postmoderni, ma in un'accezione che deriva dalle arti e dalle scienze umane degli anni Sessanta, o anche prima. Quelle idee ci influenzano tuttora e prendono il nome di "Postmoderno" in molti campi. Siamo al tempo stesso Modernisti, impegnati nel progetto di aggiornare i dogmi del Moderno per avviare un cambiamento. La definizione di Postmoderno non va confusa con la deriva a cui abbiamo assistito in architettura e che chiamo, in senso negativo, "PoMo".
Il "PoMo" ha fatto sì che in passato Venturi negasse di essere postmoderno: è un movimento puramente commerciale che si distingue per quel disprezzo del sociale che in alcuni circoli, dagli anni Settanta in poi, è diventato un marchio distintivo. A causa di questa deriva, anche noi siamo stati accusati di essere superficiali e "ossessionati dai neon".
Al mio grido di allora: "Ci deve essere un modo per incidere sulla società coni nostri progetti", gli architetti "PoMo" hanno risposto: "Possiamo fare davvero poco per risolvere i problemi sociali, allora perché tentare?". A noi, invece, la società interessa. Quando dicevo che il nostro saggio "Imparando da Las Vegas" era in parte un trattato sociale, tutti replicavano: "Stai scherzando!". Ma oggi gli studenti e i giovani architetti rispondono: "Che altro c'è di nuovo?". Ci auguriamo che le nuove generazioni raccolgano la fiaccola (il neon?) e si facciano carico di situazioni tecniche e sociali che noi non siamo in grado di capire perché troppo vecchi e così facendo si mettano al servizio della necessità e raggiungano lo scopo della bellezza (magari straziante)».
(Il testo è un estratto del saggio di Scott Brown scritto per il catalogo della mostra del Victoria & Albert Museum)

lunedì 22 agosto 2011

Vattimo, lezione sull'arte

 Vattimo, lezione sull'arte
Il filosofo al festival dedicato a Fante a Torricella Peligna

di Oscar Buonamano. Il Centro, 22 agosto 2011

«Vattimo è un’intelligenza che rimane», con queste parole il professor Giulio Lucchetta introduce Gianni Vattimo al pubblico che affolla la sala della mediateca di Torricella Peligna intitolata a John Fante. Sold out per la lectio magistralis del filosofo torinese che è stato preside della facoltà di Lettere e Filosofia della sua città. «Questa non è una lectio magistralis, ma una conversazione di sabato pomeriggio perciò non vi aspettate tutto messo in ordine», avverte Vattimo e si capisce che si diverte a giocare con le parole e a cercare continuamente un’interazione con il pubblico che raggiunge il culmine quando intona una canzone di Kurt Weill sfoggianfo un’invidiabile tedesco.
«Leggerei John Fante senza entrare nei meccanismi dei suoi racconti: Mi sono messo in una prospettiva diversa e mi sono chiesto: cosa posso dire io di questo autore?» Il suo approccio è concettuale. Fa continuamente ricorso a Martin Heiddeger per definire l’opera d’arte e il (suo) mondo. Così come pesca nella sua memoria di lettore tutti quegli autori che gli hanno aperto un mondo dentro il quale gli è piaciuto e gli piace vivere. Ma procediamo con ordine.
John Fante non ha mai messo piede a Torricella Peligna eppure la sua scrittura ha i piedi fortemente piantati in questa terra di mezzo tra il Sangro e l’Aventino, ai piedi della “Montagna Madre”, la Majella. Disvela un mondo a lui sconosciuto ri-producendolo in un altrove a lui già noto e per farlo attinge direttamente dalla sua memoria di figlio cogliendo quegli aspetti primari dell’esistenza umana e della sua comunità «nella loro cosalità, ovvero nel loro essere cose». Li re-inventa e reinventandoli gli restituisce significati perduti o banalmente dimenticati. In questo senso così come scrive Martin Heidegger, mutuando tale convincimento da Platone: «Tutto ciò che fa passare una qualsiasi cosa dalla non presenza alla presenza è poihsis, è produzione», John Fante porta alla luce un mondo, apre e svela nuove possibilità. Per Heidegger l’opera d’arte è tale se è capace di aprire un mondo.

Un mondo altro e diverso da ciò che c’era prima, e perché ciò avvenga c’è bisogno di uno “Stoss”, un urto, una forte discontinuità con ciò che già esiste e produrre un effetto spaesante. Questa ricerca dell’essenza prima delle cose per poter poi produrre e aprire un nuovo mondo riguarda l’opera d’arte in senso lato, la poesia, la letteratura, l’arte, l’architettura. Nel caso di un’opera letteraria e di un romanzo in particolare, ciò che conta è la capacità con cui un romanzo propone al lettore non solo una storia specifica da seguire ma un contesto umano, una comunità, in cui riconoscersi. In questo senso possono essere considerati autentici maestri autori come Bernard Malamud, Philip Roth ma anche Saul Bellow, Paul Auster. «Avendo letto la letteratura degli ebrei americani, in particolare di Malamud, mi aveva colpito la capacità di parlare a una comunità. In questi racconti c’è sempre un mondo di riferimento». In uno dei capolavori di Malamud,
The assistant, Il commesso nella traduzione italiana”, la forte presenza culturale ebraica rende “più facile” e veloce la comprensione presso una comunità molto vasta, pur avendo l’opera un carattere autenticamente universale. Ragionamento analogo si può fare per gli scrittori già citati.
Per esempio Philip Roth tracciando nei suoi lavori affreschi famigliari o di quartiere riesce nello stesso tempo a coinvolgere emotivamente una comunità, la sua comunità, e contestualmente a tracciare il profilo di un’epoca. Cogliere le cose «nel loro essere cose», avere come riferimento una comunità e, come ha recentemente dichiarato in un’intervista Jonathan Franzen, l’autore de Le correzioni e Libertà, «vedere gli scrittori parlare del mondo in cui viviamo, invece di rifugiarsi nell’adolescenza o in questioni marginali. Penso a quanto fosse eccitante in tal senso Saul Bellow».

Il secondo intermezzo vede come coprotagonista Giulio Lucchetta che interloquisce con Vattimo  leggendo un brano di John Fante tratto da La confraternita dell’uva: «Sì, me ne andai. Lo feci prima ancora di compiere vent’anni. Furono gli scrittori a portarmi via. London, Dreiser, Sherwood Anderson, Thomas Wolfe, Hemingway, Fitzgerald, Silone, Hamsun, Steinbeck. In trappola, barricato contro il buio e la solitudine della valle, me ne stavo lì coi libri della biblioteca pubblica impilati sul tavolo da cucina, solo, ad ascoltare il richiamo delle voci dei libri, con la brama di altre città». La fine della lettura del brano è accolta da un lungo applauso al quale si unisce anche Vattimo che approfitta dell’atmosfera complice che si è creata per esprimere tutta la sua passione per Fante, «Sento molto in John Fante la presenza di un mondo. L’opera d’arte apre un mondo dentro cui voi siete invitati ad abitare. Ed è molto interessante affrontare John Fante nel rapporto tra il mio mondo e il mondo del racconto» e ancora «l’esperienza di un mondo immaginario costruito bene è sempre un’esperienza critica nei confronti del mio mondo, questo vuol dire Heidegger quando dice che l’opera d’arte apre un mondo e vi cambia il modo di essere nel mondo». Il pubblico apprezza e Vattimo capisce che è giunta l’ora di chiudere il suo intervento. «Forse ci sarà un futuro, speriamo migliore di questo presente. Nel frattempo lasciateci coltivare la passione per John Fante e le sue storie». E un ultimo, lunghissimo, applauso chiude la serata.
A Torricella Peligna bisogna arrivarci non è un luogo che incontri per caso e in questo è simile, molto simile,  a quel deserto ai margini della città con il quale Arturo Bandini, l’alter ego di John Fante, ha imparato a convivere. «Fui sopraffatto dalla consapevolezza del patetico destino dell’uomo, del terribile significato della sua presenza. Il deserto era lì come un bianco animale paziente, in attesa che gli uomini morissero e le civiltà vacillassero come fiammelle, prima di spegnersi del tutto. Intuii allora il coraggio dell’umanità e fui contento di farne parte. Il male del mondo non era più tale, ma diventava ai miei occhi un mezzo indispensabile per tenere lontano il deserto». Ha proprio ragione Vattimo, aspettando un tempo che verrà, continuiamo a godere con la lettura di John Fante.


Segnaliamo inoltre l'articolo appena pubblicato (19 settembre 2011) da Nicola Baccelliere su Controcampus.it.

lunedì 11 luglio 2011

Un libro per l'estate. Alberto Arbasino, "America amore"

Un libro per l'estate. L'Espresso, 14 luglio 2011

Ricordi
di Gianni Vattimo
La folla solitaria

Non esattamente un libro da spiaggia, l'ultimo di Alberto Arbasino uscito qualche mese fa da Adelphi, "America amore". Non però tanto pesante da non essere portato con sé insieme agli altri parafernalia estivi. E soprattutto di lettura godibilissima, né come un giallo che non riusciamo a interrompere finché finisce e poi si butta ; né come un saggio magari pieno di informazioni curiose, pascalianamente divertenti, ma inessenziali. "America amore" è un libro-epoca. Come altri testi arbasiniani, a cominciare da "Fratelli d'Italia" con i suoi rifacimenti e aggiornamenti; non è una storia, ma la nostra storia. Non solo di chi ha attraversato le stesse epoche, e l'età, dell'autore. Nel bene e nel male, le tematiche della cultura americana che Arbasino incontra negli anni Cinquanta del secolo scorso, quando arriva come studente a Harvard, e continua a frequentare in seguito, sono ancora gli archetipi di gran parte della cultura di oggi.

Proprio in quegli anni comincia a delinearsi la rivoluzione post-moderna della società statunitense, e Arbasino non è così esclusivamente concentrato su letteratura, cinema, teatro, arti da non fornire anche significative riflessioni su quella che un sociologo dell'epoca, David Riesman, chiamò la "folla solitaria" - così tremendamente simile alla folla che siamo noi oggi, come se là ci fosse una profezia che si è avverata. Può sembrare un'esagerazione provocatoria, ma leggendo il libro vengono in mente la "Recherche" di Proust (un modello non poi tanto segreto per tutta la prosa dell'autore) e la "Fenomenologia dello spirito" di Hegel. Soprassalto scandalizzato? Ma là come qui si tratta per l'appunto di noi, di quella storia che ci ha fatti quelli che siamo. Se progettate una lettura estiva di un qualche peso, ma certo molto più piacevole che l'opera di Hegel, e forse anche di Proust, questo è il libro per voi.

Le pagine su Boston e Cape Cod, sulla New York dei teatri off Broadway, sulla West Coast, sono esempi del miglior Arbasino narratore. Dilettevole, e più che utile: sostanziale; ci siamo dentro tutti, niente di meglio che riconoscersi con la guida sapiente e leggera di un (grande) scrittore.

Alberto Arbasino: "America amore" (Adelphi, pp. 867, euro 19)

sabato 9 luglio 2011

Salviamo l'Indice


Salviamo l’Indice
Dal mio blog sul sito de Il Fatto quotidiano, 9 luglio 2011

Ne ha parlato recentemente il Corriere della Sera (ad esempio in questo articolo), e se ne parla su Facebook e vari blog. Aggiungo allora il mio personale appello, qui su Il Fatto quotidiano, sperando di raggiungere altri lettori. Lettori in tutti i sensi: lettori del Fatto e di questo blog, ma soprattutto i lettori – pochi o tanti che siano, nel paese (sempre più stanco) di B. – di quello strano oggetto, il libro, che sembra richiamare, anche se non per derivazione etimologica, il concetto di libertà. “L’Indice dei libri del mese”, storica rivista oggi diretta da Mimmo Candito, fondata nel 1984 da un gruppo di intellettuali in buona parte torinesi (Cesare Cases, Gian Giacomo Migone, Gian Luigi Beccarla, Diego Marconi, Tullio Regge, Marco Revelli, Lore Terracini, solo per citarne alcuni), rischia di scomparire sotto il peso dei debiti accumulati negli anni (e in particolare in quelli più recenti, a causa del sempre più scarso appeal della pubblicità su riviste cartacee e dell’aumento dei costi di produzione, ma anche della selvaggia politica culturale del governo di B., che consente a Tremonti di tagliare a più non posso i finanziamenti all’editoria). Un patrimonio di 37.500 recensioni scritte dalle migliori firme del panorama intellettuale italiano (Bobbio, Magris, Foa, Sanguineti, Galante Garrone, e così via) meriterebbe ben altro destino.

Le pagine di presentazione della rivista che compaiono sul suo sito, così come quella fornita da Wikipedia, sottolineano giustamente l’importante ruolo culturale svolto negli anni dall’Indice, che ha avuto l’indubbio merito di resistere al progressivo svuotamento del mestiere e della funzione sociale del recensore nella società mediatica (e da ultimo, di internet), continuando a proporre saggi di qualità elevata, concepiti con l’intento di fornire un vero e proprio servizio culturale, e con la speranza di contribuire al dibattito politico (nel senso alto del termine) di una società difficile come quella italiana. Già, ma se l’Indice è oggi in difficoltà, non sarà per colpa (merito) dei tanti supplementi culturali dei tanti quotidiani italiani, che offrono ormai gratuitamente un veloce sguardo (rapidissimo, e cioè al passo – settimanale – coi tempi; e, ahimè, spesso pubblicitario, anche perché suggestionato dalle vendite di narrativa e saggistica) sulle novità in libreria? Non sarà per colpa (merito) di internet, che autorizza a cercarsi da sé il libro prescelto, magari avendo spulciato qualche nota di lettura sui blog? Non sarà perché il tono spesso accademico (che però assicura quantomeno l’accuratezza di giudizio) dell’Indice si scontra con una società che dell’accademia non sa che farsene, e anzi tenta di restringerne gli spazi ogni volta che può?

Se (se) l’Indice non serve più, è forse perché non ha mai servito alcuno e alcunché, al punto da rimanere, proprio per questo, un po’ indietro coi tempi: e tuttavia è bello poter leggere una rivista che si occupa di tutti i settori, senza seguire le mode culturali; una rivista i cui numeri durano effettivamente un mese, anziché una settimana, un giorno o un veloce passaggio di occhi sullo schermo; una rivista che, mantenendo uno standard elevato, costringe il lettore a scelte ragionate su ciò che leggerà e a ritornare su ciò che ha letto. Certo, l’adeguamento coi tempi è comunque, in una certa misura, necessario, come riconoscono gli animatori della rivista; e sarebbe però importante concedere all’Indice (più di) una chances di adeguarsi. Personalmente, spero che al mio contributo finanziario e di riflessione se ne aggiungano tanti altri (il sito della rivista spiega come sostenerla). Il tanto auspicato risveglio della società civile nell’era del berlusconismo sguaiato, che della semplificazione culturale ha fatto la sua bandiera, passa anche per iniziative di questo tipo; chi volesse passarle in rassegna, cominci pure dall’Indice.

Gianni Vattimo

Pagine rigeneranti - Le scoperte (e riscoperte) degli esperti

Pagine rigeneranti - Le scoperte (e riscoperte) degli esperti
di Giulia Calligaro, Io donna, 9-15 luglio 2011

Libri rigeneranti: parole giuste che riaccendono la luce anche a chi, per lavoro, si occupa di argomenti "pensanti" e "pesanti". Perché anche gli intellettuali d’estate leggono per rinfrancarsi. Tra intramontabili classici e nuove uscite, ecco i loro suggerimenti.
«Nessun libro è migliore per l’estate della lettura dell’Odissea» dice la grecista Eva Cantarella. «È un grande racconto sull’uomo, in più ci sono il mare e l’avventura. E il finale è lieto, aumenta la fiducia nelle capacità umane». Le fa eco Teresa Cremisi, presidente e direttore dell’editore transalpino Flammarion: «Consiglio l’Iliade» spiega. «Ci sono tutti i grandi temi dell’Occidente: l’amore, la bellezza, la guerra, ma soprattutto il destino e i suoi capricci. Nessuno spazio per il rimorso e per la nostalgia».
La filosofa Michela Marzano, attenta agli studi sulla donna, ci riporta all’attualità: «Il mio consiglio va a Un karma pesantedi Daria Bignardi (Mondadori), perché è un libro ricco di speranza per tutte le donne che non vogliono fermarsi alla sopravvivenza e cercano una vita appagante senza rinunciare al privato».
Propone riflessioni sul nostro tempo un altro pensatore, Gianni Vattimo: «Consiglierei Tramonto globale di Daniele Zolo (Firenze Univ. Press)». E prosegue con arguzia e ironia: «Non è un libro da spiaggia, ma serve anche per suscitare ammirazione presso i vicini di ombrellone. Soprattutto, essendo una specie di panorama delle ingiustizie e dei mali del mondo attuale, mantiene chi sta in vacanza in collegamento con la realtà. In autunno potreste trovarvi ad assaltare un qualche Palazzo d’Inverno».
L’antropologo e architetto Franco La Cecla punta invece sulla conciliazione: «Andrei su Il piacere non può aspettare di Tishani Doshi (Feltrinelli), sull’amore tra una ragazza del Galles e un indiano: una storia di incontro tra culture, con una saggezza profonda».
L’attore performer Moni Ovadia suggerisce una lettura che ci faccia bene inducendo al bene: Se niente importadi Jonathan Safran Foer (Guanda) è un libro necessario» sostiene. «Un affresco della crudeltà e della follia dell’umanità contro gli animali. Non è un mero inno all’essere vegetariani, ma una voce contro il consumismo che divora, a tavola prima e poi nei rapporti umani e tra i popoli».
Infine Filippo La Porta, critico letterario, allarga la gittata: «La grande letteratura sempre consola, perché, pur criticando l’esistente, ci dà delle ragioni di vita. Ora proporrei l’autobiografia di Ettore Sottsass, grande designer contemporaneo: Scritto di notte (Adelphi). È un manifesto del pensiero non-violento, mai appesantito da un Io ingombrante. E infatti Sottsass simpatizza con alcuni temi buddisti e ci racconta quando scoprì che non era lui l’universo, «Che eravamo in due» scrive «io e l’universo, e poi che eravamo in tre… cioè io, l’universo e tutta la gente intorno a me». Non male come conquista per l’estate e per arrivare più disponibili all’autunno!

domenica 27 marzo 2011

Il ragazzo che credeva ai miti


Il ragazzo che credeva ai miti
L'Espresso, 24 marzo 2011

Furio Jesi (1941-1980) è stato una delle figure intellettuali più vivaci nell'Italia della seconda metà del Novecento. Un enfant prodige: negli anni Cinquanta già si era fatto notare per importanti studi nel campo dell'archeologia e della scienza delle religioni. Il suo primo libro (sulla Ceramica egizia) esce a Torino, città dovev vive, nel 1958. Da quegli stessi anni comincia a intessere un rapporto epistolare con maestri del pensiero che, come anzitutto Karoly Kerenyi, ne apprezzano il lavoro. I libri dello studioso ungherese del mito e della religione antica costituiscono il nerbo della famosa Collana viola curata per l'Einaudi da Cesare Pavese. Lo studio del mito e il rapporto con Kerenyi (terminato tra il 1967 e il 1968, perché Jesi, ebreo, assume un atteggiamento critico nei confronti della guerra dei Sei giorni, e poco dopo si schiererà con gli studenti contestatori) sono il filo conduttore della vita di Jesi, che pubblica negli anni della maturità libri come "Letteratura e mito" e "Cultura di destra". Una maturità che si interrompe repentinamente, a causa di un banale incidente domestico. Il denso libro che ora gli dedicano Marco Belpoliti e Enrico Manera (a cura di) "Furio Jesi" (Marcos y Marcos, pp. 349, euro 25), in cui si raccolgono sia frammenti delle sue opere, sia numerose testimonianze e studi sul suo lavoro - apre un orizzonte vastissimo su tutta la cultura italiana ed europea del secolo scorso. Di essa Jesi è stato, e merita di essere considerato ancora per il futuro, uno dei più suggestivi e determinanti protagonisti.
Gianni Vattimo