domenica 31 maggio 2009

L’Europa che ci attende

Lo so, è un post un po’ lungo. Ma di Europa, in campagna elettorale, si parla poco. E allora approfitto delle possibilità offerte dal blog per proporre qualche spunto di riflessione sul senso delle prossime elezioni. Chi ha più sentito parlare di Europa, negli ultimi cinque anni? Certo, tutti ricordiamo l’allargamento a 25 stati e le alterne vicende del trattato di Lisbona, nuovo accordo tra gli stati dell’Unione che anziché sostituire, integrando e comprendendo, il Trattato di Maastricht (che istituì l’Unione, nel 1992), quello di Roma (che istituì la Cee, nel lontano 1957) e la Carta europea dei diritti fondamentali (la Carta di Nizza, del 2000), si affianca ai predecessori complicando ulteriormente la struttura costituzionale europea. Una tappa storica, di quelle che verranno ricordate dagli studenti dei corsi di relazioni internazionali e integrazione europea, come l’Atto Unico del 1987, il completamento del mercato unico nel 1992, e i trattati appena ricordati qui sopra. Con le nuove elezioni del Parlamento europeo, ecco le solite discussioni sulla scarsa presenza dei temi europei nella campagna elettorale, sullo stipendio dei parlamentari, sull’assenteismo dei nostri rappresentanti. Oltre, come sempre, non si va. Ed è un peccato, alla luce della continua, allarmante riduzione del dibattito democratico nel nostro parlamento nazionale – prova ne è il continuo, vergognoso attacco portato da Berlusconi, che naturalmente, e purtroppo, raccoglie consenso tra gli Italiani esausti dei costi della politica. Che il Parlamento italiano sia divenuto, volente o nolente, poco più di una cassa di risonanza del premier, aiutato in ciò dai media televisivi, è appunto un’occasione formidabile per il Parlamento europeo, chiamato ora più che mai ad aiutare l’Italia a riprendersi dal torpore tendenzialmente autoritario nel quale versiamo.

Già, ma è risaputo – forse – che il Parlamento europeo “conta” poco, tutto sembra in mano alla Commissione (l’artefice del mercato unico) e al Consiglio, composto dai governi degli stati nazionali). Anche se in Europa la suddivisione dei tre poteri è meno netta, rispetto alla situazione degli stati nazionali (la Commissione è il potere esecutivo, ma possiede poteri di iniziativa legislativa; il Consiglio e il Parlamento, dunque non solo quest’ultimo, sono il potere legislativo), è chiaro che il Parlamento è l’anello debole della catena legislativa europea. E allora forse si spiega almeno in parte perché del Parlamento europeo si parli così poco, sui giornali e nei programmi televisivi italiani. Eppure quando sono stato parlamentare europeo, tra il 1999 e il 2004, di Europa si parlava eccome. Forse perché eravamo ancora prede della sbornia seguita alla costituzione dell’Unione Europea, all’ingresso faticoso dell’Italia nell’Europa di Maastricht, poi all’entrata in vigore dell’euro e alla creazione di una convenzione, quella che poi avrebbe scritto l’avveniristica (almeno inizialmente) Carta europea dei diritti fondamentali, che sembrava rappresentare le migliori speranze del continente. In negativo, l’Europa faceva capolino sui media italiani all’epoca del semestre di presidenza italiana con lo scontro tra Berlusconi e Schulz e la consegna ai parlamentari europei, da parte mia, di un opuscolo a firma di Marco Travaglio, tradotto in cinque lingue, illustrativo della figura del nostro presidente del consiglio. E ancora, con la scoperta del sistema Echelon (ho fatto parte della commissione d’inchiesta), una vera e propria struttura di spionaggio messa in atto dagli Stati Uniti e dalla stessa Inghilterra, con Canada, Australia e Nuova Zelanda; e con il dibattito sulle radici cristiane dell’Europa. Ma il clima, in generale, pareva diverso: per continuare con gli esempi legati alla mia persona, il 31 maggio 2003 (finivano in quei giorni i lavori della Convenzione) avevo promosso un’iniziativa che coinvolgeva alcuni intellettuali europei (Habermas, Derrida, Eco, Savater, Muschg e Rorty), tutti disposti a pubblicare – io scrissi su La Stampa un articolo dal titolo “Casa Europa” – un saggio sul futuro dell’integrazione europea, ciascuno su un importante quotidiano nazionale europeo.
Per quali motivi, oltre a quelli appena ricordati, negli ultimi cinque anni l’Europa, e con essa il suo parlamento, si sono allontanati dall’opinione pubblica italiana? Credo che una delle ragioni, non l’ultima, abbia a che fare con la qualità, per così dire, dei nostri rappresentanti. Prendiamo la squadra dei DS ai tempi del mio mandato, e lasciamo perdere la mia persona – anche se, dato che si trattava del mio primo impegno politico “istituzionale”, la mia candidatura era effettivamente espressione della cosiddetta società civile, che non a caso ritorna nelle parole usate da Di Pietro in questa campagna –: in quella squadra comparivano Giorgio Ruffolo, padre della programmazione economica italiana nel dopoguerra e fine intellettuale libero dai pregiudizi del pensiero unico economicistico, presidente della commissione Cultura al Parlamento europeo; Elena Paciotti, in precedenza presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, componente, come me, della commissione Giustizia e Affari Interni al Parlamento europeo; Giorgio Napolitano, presidente dell’importante commissione Affari Costituzionali del Parlamento. Persone che certo non possono essere chiamate in causa quando si parla del Parlamento europeo come pensionato dei politici italiani o raccoglitore dei nani e delle ballerine che affollano la società mediatica del nostro paese. Persone, soprattutto, con le quali ho condiviso un itinerario in Europa, e dalle quali ho imparato quasi tutto quello che so in merito ai compiti di un parlamentare europeo. Persone, infine, il cui lascito non è stato raccolto, penso, dai loro successori nei cinque anni seguenti. Gli stessi incarichi ricoperti dai miei compagni di avventura in quei cinque anni segnalano la presenza di un vero e proprio progetto politico, culturale e sociale.
Credo si possa affermare che proprio questa dimensione progettuale sia venuta meno (non solo mediaticamente) nel corso degli anni, e che al contrario chi si candida oggi al Parlamento debba incaricarsi di recuperarla, per il bene dell’Europa e dell’Italia con essa. Alla domanda di un conduttore televisivo, “Qual è l’Europa dei sogni di Gianni Vattimo?”, ho risposto, senza troppe esitazioni, “Un’Europa che non debba vergognarsi dell’Italia”. Ma come, mi si obietterà: non si tratta della solita svalutazione dei temi europei a vantaggio dell’interesse nazionale? Proverò ad argomentare che non è questa l’interpretazione corretta, e che anzi in quella frase si cela appunto quella dimensione progettuale di cui ho appena scritto. Un’Europa che non debba vergognarsi dell’Italia è un’Europa che aiuta l’Italia a tornare (non si può più dire “rimanere”, purtroppo) in essa. È cioè un’Europa che sprona – al limite costringe – l’Italia ad adottare una legge seria sul conflitto d’interessi, una legge equa e solidaristica sull’immigrazione, una legislazione “europea”, appunto, in tema di giustizia (processi più rapidi, certezza della pena, depenalizzazione dei reati che reati non sono – penso all’uso di determinate sostanze stupefacenti, ad esempio, o allo stesso, barbaro, reato di clandestinità – e al contrario severità nei confronti di coloro che alimentano conflitti sociali per fini di profitto – le mafie che controllano il mercato della droga, per continuare con gli stessi esempi, e quello della stessa immigrazione clandestina), una legislazione sociale al passo coi tempi e soprattutto con i più deboli (precari, disoccupati, morti sul lavoro), una legislazione libertaria in materia di diritti civili (io stesso sono uno dei 9 – ! – candidati Glbt alle elezioni europee), una legislazione meno (o non) vaticanesca in tema di ricerca scientifica, una politica universitaria che sconfessi in tutto e per tutto la sciagurata riforma del nostro governo, una politica ambientale contraria a quella seguita dall’esecutivo italiano, difensore dei soli interessi industriali (non tutti, solo quelli amici), ecc. Potrei continuare per quasi tutte le materie di dominio ancora riservato, purtroppo, degli stati nazionali, che nel nostro caso è un dominio riservato a una sola persona.
In fondo, se ci si stupisce del fatto che una percentuale sempre crescente (e maggioritaria) della legislazione italiana proviene dall’Europa, è perché, fortunatamente per noi, l’Europa si basa sul principio delle migliori prassi, che va interamente a nostro vantaggio. I problemi rimangono dal lato della traduzione delle direttive europee in linguaggio legislativo italiano e della loro applicazione, nonché nella possibilità che il nostro governo conserva di eludere quegli stessi principi in molte delle materie che non fanno parte della costruzione economica dell’Europa. Quando mi chiedono “perché con Di Pietro”, rispondo osservando che il programma della lista nella quale sono candidato è ispirato a un principio di base: il rispetto e la difesa della costituzione. Aggiungo che se davvero riuscissimo a impegnarci in tal senso, suscitando il consenso degli Italiani su questo programma, ci trasformeremmo in una repubblica di stampo (ideale) socialista: Berlusconi ricorda che la Costituzione è stata scritta dai comunisti e dai cattolici di sinistra, cui vanno però affiancati i liberali (ma Berlusconi non lo ricorderà mai), gli azionisti, e così via, le parti migliori della società italiana finalmente libera dal fascismo. Calamandrei ha sempre sostenuto che si tratta di una costituzione decisamente avanzata, forse la più progressista tra quelle del continente europeo. Una costituzione calpestata, soprattutto nella sua ispirazione di fondo, da un’evoluzione politica inimmaginabile, fino a pochi anni fa. Un’Europa che non si vergogni dell’Italia è ovviamente un’Europa contenta di averci con sé; di osservare che abbiamo tenuto fede agli ideali di cui erano portatori quei militanti federalisti (Spinelli in primis) che scrissero, in quegli stessi tempi nei quali l’Italia migliore cominciava a immaginare un futuro antifascista, un programma di pace e integrazione che faremmo bene a rileggere oggi. Un’Europa, potremmo spingerci a dire, che guarda all’Italia come a una sua avanguardia – ciò che nel passato è stata, al contrario di oggi, almeno in alcuni periodi.

Ma l’Europa ci aiuterà a conseguire questo risultato? Dipende dal contributo che l’Italia saprà dare in tal senso. L’Europa non è un paradiso, non è una panacea. L’Italia e l’Europa hanno in fondo un destino comune: indietreggiano e avanzano insieme (si ricordi la presidenza Malfatti, o il semestre italiano del 2003). Né la prima (come potremmo sostenerlo?) né la seconda (per ora) sono “un modello per il mondo” – come invece sosteneva, con riferimento all’Europa, la parlamentare europea che mi è succeduta. Legittimamente, l’Europa è indicata come esempio di modello sociale di successo, ancora fortunatamente lontano dall’American way of life applicato alle relazioni sociali. Concertazione, attenzione per le esigenze del mondo del lavoro oltre che dei datori di lavoro, sensibilità per la responsabilità sociale delle imprese, e via discorrendo. Tutto bene; ma invocare il modello sociale europeo come modello per il mondo diverrà sempre più difficile se:

- continueremo a spingere, contro la nostra stessa tradizione, per politiche dell’offerta (imprenditoriale) anziché della domanda (o keynesiane, se volete), se cioè nel seguire la Germania comprimeremo sempre più costi e salari a vantaggio delle industrie esportatrici e a danno della domanda interna;

- se continueremo ad accordare un vantaggio competitivo, per così dire, ai grandi gruppi di pressione industriali (primo fra tutti la European Round Table of Industrialists, ERT, che comprende una cinquantina tra le maggiori corporations che operano in Europa come Fiat e Pirelli, Nokia e Samsung, Nestlé, e via dicendo, e cioè i principali sponsor del completamento del mercato unico europeo nei primi anni Novanta), sui gruppi portatori di interessi non direttamente connessi con la produzione di ricchezza: tra questi i sindacati, il cui potere è di fatto consultivo (contro un potere tacito d’iniziativa legislativa concesso all’ERT), e tutte quelle associazioni (sociali, ambientalistiche, ecc.) che di solito l’Europa nomina per veicolare l’immagine di un pluralismo nella rappresentazione degli interessi;

- se rifiuteremo di prendere coscienza del fatto che il mondo è cambiato, e che la presenza sulla scena globale di attori nuovi, dalla Cina all’India, al Brasile e la Russia, dal Sud Est Asiatico ad alcuni paesi africani, comporta cambiamenti anche nella percezione del nostro modello sociale. È davvero ancora possibile parlare di modello sociale europeo se poi (lo stesso dicasi per le politiche d’immigrazione degli stati membri) nel mondo, il nostro modello di relazioni internazionali ha un’impostazione simile a quella americana? Dov’è finita la nostra solidarietà nei confronti dei paesi un tempo colonizzati (i paesi ACP, Africa-Caraibi-Pacifico)? Nel perseguire altre strade rispetto a quelle tradizionalmente battute dagli Stati Uniti, l’America Latina è oggi anch’essa un nuovo “modello” di convivenza solidaristica, (pur con una serie di limiti) che occorrerebbe studiare seriamente, e al quale un’Europa progressista potrebbe guardare senza lo sguardo economistico che spesso utilizza al di fuori dei suoi confini.

- se continueremo ad adottare politiche tipiche dei paesi in via di sviluppo, che hanno molte più ragioni di noi di comportarsi in tal modo, in un mondo nel quale i paesi in via di sviluppo esistono eccome, e lottano per integrarsi nell’economia globale. Gli squilibri internazionali, con tutto ciò che ne consegue per un mondo colpito dalla crisi finanziaria americana, non si devono esclusivamente all’equilibrio del terrore Usa-Cina, o alla difficile tenuta di un sistema nel quale gli Stati Uniti scambiano il proprio sovraconsumo con la possibilità offerta al Sud Est Asiatico di crescere per tramite delle esportazioni verso i mercati americani. L’Europa ha delle responsabilità, quelle appunto di non essersi fatta carico, insieme agli Stati Uniti, di una parte della domanda mondiale, e di essere ancorata a principi economici di dubbia utilità, quali quelli monetaristi, in un’epoca di recessione.
- se non ci daremo da fare, per primi o con i primi, per una svolta decisa del nostro modello economico in favore delle energie rinnovabili e contro la privatizzazione dei beni essenziali; se continueremo a guardare con occhi nazionali l’evoluzione del sistema Fiat senza cogliere le tendenze in atto (i processi di razionalizzazione, nel sistema capitalistico, avvengono necessariamente per tramite della compressione dei costi e dunque dell’occupazione; tanto più in un mondo nel quale la capacità produttiva di automobili è già superiore alla domanda potenziale globale). Se, in termini più generali, non concederemo ai paesi in via di sviluppo la possibilità di sfruttare i vantaggi competitivi di cui godrebbero nei settori dell’agricoltura e delle costruzioni, per non citare che i maggiori, qualora l’Europa smettesse di appoggiare il protezionismo nascosto degli Stati Uniti.

- se, infine, prevarranno le vecchie logiche, quelle che in positivo ci hanno condotto al completamento del mercato unico, e che in negativo perdurano tuttora, conducendo le politiche europee all’ossequio (unico) verso il criterio della competitività e dell’interesse finanziario – degli azionisti delle imprese – anziché reale, di creazione di ricchezza effettiva. Se cioè prevarrà il benchmarking, anziché le migliori prassi.

Certo, l’Europa è in molti sensi un’avanguardia, rispetto ai suoi stati membri; anche laddove – negli altri stati – questa caratteristica non le deriva principalmente dal retrocedere delle garanzie democratiche nazionali. Lo slogan del Gay Pride, “in Europa è diverso”, è illuminante. L’ultima ruota del carro europeo, e cioè il Parlamento, è un modello pressoché irraggiungibile dal suo omologo italiano: questo l’effetto del regime berlusconiano, ostacolato con debolezza dal principale partito di opposizione, il Pd. I tempi dei girotondi appaiono lontani e attuali al tempo stesso. Le tendenze autoritarie di stati nazionali come il nostro compaiono tra i motivi più rilevanti che spiegano lo stallo europeo. In sostanza, è un circolo vizioso: l’Europa non riesce, per ora, a salvare l’Italia, e l’Italia non contribuisce al progresso europeo. Perché l’Europa riesca a redimerci, è necessario ampliare la dotazione di risorse a disposizione delle autorità sovranazionali – l’annosa, e vergognosa, questione di un bilancio comunitario al quale gli stati membri rifiutano contributi di peso – e velocizzare il processo di democratizzazione delle istituzioni. Ma allora il salvataggio dell’Italia è anche tra i fattori che possono contribuire al rilancio europeo: è per tramite di un’Europa più “pesante”, in termini di potere decisionale e capacità di farsi sentire sui cittadini degli stati membri (tra gli esempi più e meno banali al contempo, il programma Erasmus) che l’Europa salverà l’Italia, e potrà al contempo, e finalmente, realizzare i sogni dei primi federalisti. Di qui l’importanza del Parlamento europeo, oltre che dell’Europa tutta.

Un candidato al Parlamento europeo potrebbe elencare una serie di provvedimenti che, se eletto, si sforzerà di far passare. Ma sarebbe inutile. Il potere di iniziativa legislativa, come detto (e nonostante i passi avanti compiuti sulla strada della codecisione), è di fatto concesso alla Commissione e al Consiglio. Per questo, e per le traiettorie storiche compiute dal Parlamento europeo (che nei primi anni di elezione democratica, dal 1979 in avanti, non si divideva tra destra e sinistra ma tra europeisti e non), è necessario che i candidati si facciano portatori di un progetto, la cui realizzazione dipenda certo, ma non in modo esclusivo, dai singoli rapporti che ciascuno di essi sarà chiamato a redigere sulla base delle proposte della Commissione. Vent’anni fa, un discorso di questo tipo non sarebbe stato ascoltato da nessuno, perché dato ampiamente per scontato. Oggi, l’Europa è invece vista come terreno di scontro tra interessi nazionali, e tra interessi subnazionali, e il compito dei parlamentari europei consisterebbe esclusivamente nella difesa degli uni o degli altri. Io la penso diversamente. In Europa è diverso, si può (deve) elaborare una dimensione progettuale.

L’Europa che ci attende è un’Europa in balia degli eventi internazionali. Un’Europa impreparata, che segue, ma non partecipa. Non partecipa alla correzione degli squilibri globali, alle istanze di rinnovamento provenienti dagli Stati Uniti, a quelle di cambiamento provenienti dall’America Latina. Non sembra in grado di partecipare, più in generale, all’eventuale costituzione di un nuovo ordine globale, imperniato sul criterio di libertà anziché sulla disciplina. Un ordine cioè più vicino al compianto sistema di Bretton Woods che all’insensato suo successore, il “nonsistema” nato negli anni Settanta, poi attraversato dalla parabola del Washington Consensus per finire nella crisi attuale, che giunge paradossalmente al culmine di un processo di crescita sostenuto da quegli stessi squilibri di cui ora ci lamentiamo. Un nonsistema fondato sulla teoria dei mercati efficienti, sull’ennesima legge presuntamente naturale del mercato, che solo un uomo filosoficamente impoverito può porre alla base del suo agire, come se fosse venuto al mondo per rispettare ordini “naturali” anziché per realizzare forme di convivenza via via più sostenibili. Sarà difficile, spero impossibile, continuare a ragionare sulle politiche europee senza porsi il problema di definire un nuovo ordine, che ripudi la disciplina (politica ed economica) degli anni Novanta – le disastrose condizionalità del Fondo Monetario Internazionale – e dei primi anni del nuovo secolo – la campagna irachena del presidente americano e dei suoi seguaci –, e ponga nuovamente la libertà di scelta di ciascun paese del mondo di definire la propria via allo sviluppo come sua regola di fondo. L’Europa che ci attende è allora anche, e soprattutto, un’Europa che trasferisce sul piano delle relazioni internazionali i criteri solidaristici che ha introdotto al suo interno. Senza un nuovo ordine economico internazionale, l’Europa continuerà a giocare il gioco a somma zero che ha praticato negli ultimi anni, con buona pace, per altro, dei propositi ambientalisti, sacrificati sull’altare di una competitività internazionale ottenuta riducendo i costi di produzione.

Ho invocato più volte, in passato, i parametri di Maastricht per proporre una loro applicazione in altri ambiti, quali ad esempio quello dei diritti civili (stabilire cioè dei criteri minimi, e possibilmente più che minimi, per essere stati europei: unioni civili, parità completa, e così via) e della ricerca scientifica (veri e propri parametri per stabilire se le diverse università europee rispettano criteri di merito, di pubblica utilità, di valore della formazione offerta). Certo, mi si può obiettare che il modello di Maastricht è un modello disciplinare: se i paesi non rispettano le regole del rapporto debito/PIL e deficit/PIL, saranno raggiunti da un “early warning” della Commissione, che alla lunga si trasformerà in vere e proprie sanzioni. Ma il limite del modello di Maastricht esistente – il Patto di crescita e stabilità si fonda su quei parametri – risiede non tanto nel suo essere statico anziché dinamico, quanto nello scarso contenuto di libertà (troppa stabilità e poca crescita) previsto. Se alla disciplina di Maastricht, necessaria ad armonizzare le politiche economiche europee, si affiancassero strumenti europei, appunto (ripetiamolo, il bilancio comunitario), per dotare il continente di strategie di crescita, di uscita dalla crisi, di crescita sostenibile, ecc., quei parametri godrebbero di stima diversa. Una Maastricht dei diritti, che presti ascolto al frutto più maturo e migliore del messaggio cristiano, quella della laicità, diverrebbe di per sé uno strumento di libertà, poiché sanzionerebbe le violazioni delle libertà dei cittadini degli stati membri, limitate da politiche reazionarie come quelle purtroppo seguite in Italia in merito ai temi della ricerca scientifica, degli orientamenti sessuali, della libertà (appunto) d’informazione, ecc. Una regolamentazione intelligente non si fonda sulle sanzioni disciplinari, quanto sulla libertà che per tramite di quella regola è possibile assicurare ai suoi destinatari.
Qualche anno fa, in un articolo che ha poi dato il titolo a un volume sull’Europa, argomentavo in favore di un processo d’integrazione continentale che recuperasse una visione della politica come grande impresa etica di promozione umana. Continuo a pensarla così: l’Europa è fortunatamente un ordine artificiale, con tutto il positivo che ne consegue (nasce non con la guerra ma con la pace, progredisce promuovendo le migliori prassi, ecc.); un ordine antinaturale, per così dire. È un modello di discussione libera ed argomentata, che ha lo scopo non di raggiungere una dimostrazione definitivamente fondata, ma di stabilire un accordo rivedibile, certo, che però impegna i contraenti (gli stati nazionali, noi cittadini) in modo ben più serio di quanto farebbero le leggi “naturali”. Ancora oggi, come allora (scrivevo nel 2002), un programma di sinistra può e deve identificarsi come programma dell’integrazione europea. Le condizioni indispensabili della libertà – sicurezza, giustizia e sua efficacia, qualità della vita sociale, sostenibilità ambientale – si possono dare, in Europa, solo all’interno di un’integrazione più decisa. Parlando di relazioni internazionali, quelle stesse condizioni di libertà saranno difese solo da un’Europa che sappia immaginare un programma di riduzione delle proprie pretese (protezionismo contro i paesi emergenti, ad esempio) a vantaggio di un futuro più pacifico, e dunque delle proprie condizioni economiche e sociali di sopravvivenza.

Concludo: l’Europa che ci attende è, in tutti i sensi, un’Europa che non ci attende. Non aspetterà che il regime italiano si “normalizzi”, trasformandosi definitivamente nel dominio esclusivo del premier per poi aiutare il nostro paese a risalire dopo aver toccato il fondo. Dobbiamo muoverci subito, proponendo all’Europa quello scatto in avanti nel processo d’integrazione che costituisce il nostro unico strumento di salvezza, strumento del quale in Italia non riusciamo a trovare un sostituto. Mai come ora, abbiamo bisogno dell’Unione europea, nella speranza che ciò che riusciremo a fare, a Strasburgo, per approfondire la democrazia europea, divenga per l’Italia quel tanto di “sovversivismo democratico” che in patria fatichiamo a stimolare.

Risposta giovane all’astensionismo

In questi giorni di giri per mercati, mi accorgo che l’astensionismo è probabilmente persino più elevato di quanto non vogliano farci credere sondaggi, statistiche e conta stessa dei voti. Che ci si presenti con le tipiche frasi, “Sono Gianni Vattimo, candidato per l’Italia dei Valori al Parlamento europeo”, o che s’interpelli il potenziale elettore con il più aggressivo: “Vogliamo cacciare Berlusconi dall’Italia e dall’Europa?”, la reazione è spesso di totale indifferenza, quando non di fastidio. In quest’ultimo caso, l’elettore spiega di non poterne più, di quei soliti politici che promettono ma non fanno nulla, che sono lì solo per intascare, che sono tutti uguali; quei politici che “ho votato per trent’anni, e nulla è cambiato”. Certo, è vero che nel tentare di passare oltre e non essere disturbati, gli elettori spesso finiscono comunque per guardare il santino, e vedono il simbolo dell’Italia dei Valori. Un barlume di speranza improvvisamente s’accende e l’elettore si ferma, per prendere il santino e magari spendere qualche parola col candidato. Come se Di Pietro facesse breccia – e ciò è un bene di per sé, al di là della preferenza per quel partito – tra elettori stanchi e delusi.
Ma la sensazione di sconforto resta. E allora cosa? Quando osservo i giovani che distribuiscono la mia faccia ai mercati insieme a me, mi capita di pensare che in fondo una risposta all’astensionismo c’è, seppure debole (ma fino a che punto? Forse è meno debole di quanto si pensi). L’elettore, come detto, urla la sua protesta: li ho votati per trent’anni, e non è successo nulla. Già, ma i giovani possono rispondere: “E io?”. Loro non possono dire altrettanto. Non hanno votato “inutilmente” per trent’anni: devono necessariamente trovare una risposta diversa. Quando i giovani rispondono “e io?”, l’elettore si ferma forse imbarazzato, giustificando la rassegnazione: “ne ho viste più di te”, ecc. Ma il giovane non può che ribattere, “io ci sto provando. In gioco c’è il mio futuro, oltre al vostro”. L’elettore tenta allora di spostare l’oggetto: “infatti, siete voi che dovete cambiare le cose”. Sì, risponde il giovane, ma se non riesco a coinvolgere le persone che votano da trent’anni, non potrò mai cambiare nulla, né spingere i giovani astensionisti a ripensare all’occasione perduta: molti di loro, lo dico per esperienza personale (avendo osservato come i ragazzi che sostengono la mia candidatura tentino di persuadere i loro coetanei astensionisti a votare), non attendono altro che un altro giovane disposto a discutere, faccia contro faccia, le ragioni della sua passione politica. I “vecchi” elettori tornano allora con la mente a quando stavano dall’altra parte. E magari ripensano a quanto appena detto. Se anche non è cambiato nulla per loro (ma è poi vero?), questo non è un buon motivo per spegnere le speranze dei giovani.

Sono anch'io un candidato per il software libero

"Software libero" si riferisce alla libertà dell'utente di eseguire, copiare, distribuire, studiare, cambiare e migliorare il software. Più precisamente, esso si riferisce a quattro tipi di libertà per gli utenti del software:

- Libertà di eseguire il programma, per qualsiasi scopo (libertà 0).
- Libertà di studiare come funziona il programma e adattarlo alle proprie necessità (libertà 1). L'accesso al codice sorgente ne è un prerequisito.
- Libertà di ridistribuire copie in modo da aiutare il prossimo (libertà 2).
- Libertà di migliorare il programma e distribuirne pubblicamente i miglioramenti (e le versioni modificate in genere), in modo tale che tutta la comunità ne tragga beneficio (libertà 3). L'accesso al codice sorgente ne è un prerequisito. Un programma è software libero se l'utente ha tutte queste libertà[1].
Per approfondire clicca qui.


Il software libero è importante per l'Italia perché:
dinamizza il mercato nazionale delle PMI di servizi informatici[2];
realizza i valori costituzionalmente garantiti della libertà d'espressione e d'informazione, libertà di cultura, libertà d'iniziativa economica, uguaglianza e cooperazione[3].
beneficia la bilancia dei pagamenti[4] ed il bilancio dello stato[5].

Note
[1] Definizione tratta dal sito del progetto GNU.
[2] Mentre nel mercato del software proprietario la vendita di licenze gioca in misura fondamentale, l'economia del software libero si incentra sulla fornitura di servizi (di installazione, personalizzazione, sviluppo, modifica, manutenzione, assistenza, e formazione) che possono essere erogati da PMI. La diffusione del software libero favorisce lo sviluppo di competenze informatiche sul territorio e quindi migliora la competitività del mercato ICT nazionale e, incidentalmente, riduce la dipendenza del sistema paese dalle risorse tecnologiche estere.
[3] Vedi l'articolo “Software libero e diritti fondamentali”, che evidenzia i profili di rilievo costituzionale del software libero.
[4] Se si usa più software libero diminuisce l'acquisto di licenze software. Da ciò consegue una diminuzione delle importazioni ed un beneficio nei conti della bilancia dei pagamenti. Infatti, i maggiori fornitori di software proprietario utilizzano strategie di ottimizzazione fiscale e vendono le loro licenze dall'estero (per esempio, Microsoft vende dalla filiale Irlandese. A p. 32 delle note integrative al bilancio di Microsoft S.r.l. per l'esercizio economico 2005/2006 si legge: E' importante rilevare che Microsoft Italia non vende ai clienti i prodotti di Microsoft, in quanto le vendite sono effettuate da Microsoft Ireland Operation Limited).
[5] Quando un'impresa od un privato rinunciano ad acquistare licenze di software proprietario dall'estero ed acquistano servizi di software libero in Italia, lo stato ha un maggior introito fiscale consistente nell'imposta sul reddito pagata dall'impresa nazionale e, a cascata, nell'imposta sui redditi dei dipendenti dell'impresa, dei fornitori, ecc.

(http://www.carocandidato.org/wiki/view/what)

28 maggio, scatti da Ivrea




Presentazione di "Addio alla verità" a Ivrea, Sala Cupola del centro la Serra, organizzata dalla Libreria Cossavella.

28 maggio, scatti da Cesano Maderno





Presento "Addio alla verità" all'Università Vita-Salute San Raffaele (1-2),
chiacchiero con gli studenti (3), e mi prendo un minuto di pausa (4) prima di andare a Ivrea.

Luino (VA): "In Europa per la difesa della democrazia"


Il 1 giugno alle 21, sarò con Giorgio Schultze a Luino, Sala delle Conferenze della Biblioteca di Luino, Villa Hussy, Piazza Risorgimento 2, per un incontro dal titolo: "In Europa per la difesa della democrazia".
Non mancate...!

Oggi saremo...

...ad Asti, alle 17.45, al festival "A sud di nessun nord" (http://www.nomadiestanziali.it/programma): tout cinèma (presbiterio ex chiesa san Michele), Acque vorticose: Tempo e libertà: G. Vattimo e A. Gobetti.

a Cuneo, alle 21, per la presentazione dei candidati IdV alle elezioni europee, circoscrizione Nord-Ovest (http://targatocn.it/it/internal.php?news_code=66661&cat_code=114).

sabato 30 maggio 2009

Vattimo per la Calabria

Tra Silvio e Gianni chi è valoriale

Tra Silvio e Gianni chi è valoriale

C’eravamo appena lasciati alle spalle l’odioso termine «attimino», e ancora resiste il termine «filiera».
Adesso ci arriva quello di «valoriale» che, a naso, dovrebbe indicare una gamma di valori indistinti ma tutti positivi.
E’ «valoriale», chiede Franceschini, il comportamento «educativo-genitoriale» di Berlusconi?
Sono «valoriali» i comportamenti di Di Pietro per i giornalisti del Giornale?
Di Pietro... l’Italia dei valori... ecco da dove può essere nato il termine «valoriale» che potrebbe essere applicato anche ai suoi adepti.
Per esempio: Gianni Vattimo è «valoriale»?

Così, su Tuttolibri di sabato 30 maggio, Nico Orengo. Che ci ha appena lasciati.

venerdì 29 maggio 2009

Blog e web: Obama e Berlusconi battuti da Bonsignore e Vattimo



Europee, la maggioranza dei candidati torinesi non crede nel web. E' quanto emerge da una ricerca effettuata indagando su quanti candidati torinesi dei diversi partiti hanno pensato di presentarsi con un proprio sito alle prossime elezioni europee. Solo una minoranza crede in un mezzo di modernità nella cultura Europea. Ancor meno coloro che hanno deciso di puntare sul blog per dialogare con i cittadini. Tra i siti più significativi di politici torinesi che invece hanno dato forte importanza al blog, con numerosi argomenti su cui poter intervenire, troviamo quelli di Roberto Placido (PD), Vito Bonsignore (PDL), forse tra i migliori per la grafica e lo spazio blog e Gianni Vattimo (IDV) che però gestisce il blog in un sito apposito, non direttamente nel portale. In provincia di Torino è Fabrizio Bertot (PDL) ad aver scelto il web come strumento di incontro con i cittadini di Rivarolo ed elettori. Ma questi blog saranno visitati? Dalla classifica di Alexa, il noto sito internazionale che misura il Traffic Rank (calcolando una media tra gli utenti giornalieri e le pagine viste) dove più il numero è piccolo più la posizione nel traffico (mondiale) è forte, si direbbe non ancora abbastanza in Italia se pensiamo che Berlusconi è al 4.169.426 posto (berlusconi-blog.blogspot.com) mentre Barack Obama è al 7.570 (my.barackobama.com/page/content/hqblog). Ecco la classifica dei blog più seguiti dei piemontesi presi a campione nell'ordine: 1° vitobonsignore.net 3.499.761; 2° robertoplacido.it 5.876.750; 3° fabriziobertot.it/blog.asp 7.717.909; 4° giannivattimo.blogspot.com 14.055.113 (3,601,406 il sito).
Chiaramente i numeri sono ancora ben distanti da quelli americani. Ma sorprendentemente, facendo una comparazione*, notiamo che i blog dei nostri uomini politici probabilmente sono più interessanti, o perlomeno, la media delle pagine viste da ogni utente è in molti casi più alta di quello americano e ancor più il tempo dedicato al sito da ognuno (vedi grafici). Per molti altri il sito è ancora uno strumento per raccontarsi più che per dialogare. Peccato, perché l'Europa sarebbe più vicina se raccontata attraverso internet.


Che dire? Grazie a tutti voi...!

mercoledì 27 maggio 2009

Perché una persona di sinistra può votare l'IdV

(nuovo post mio sul blog di MicroMega; il "pezzo sta suscitando dibattito, vi consiglio - se interessati - di seguire l'evoluzione dei commenti: il link è in fondo a questo post)


Prima di un nuovo post (ma in realtà questo stesso lo è), vorrei rispondere a un commento (Marina) giunto al blog di MicroMega, di estrema importanza. Marina pensa che all’Italia dei Valori manchi “ancora quel quid davvero di sinistra che convinca quelli che ce l’hanno a morte con Berlusconi e la sua cricca, e sono rimasti delusi dal Pd, ma definiscono sprezzantemente Di Pietro un poliziotto, un questurino, un populista… dicono che ha una cultura di destra “nonostante tenti di presentarsi come colui che scopre la realtà del lavoro”. Segnala inoltre un video di Agnoletto che ricorda che Di Pietro chiederà a ogni parlamentare eletto nell’IdV di sedersi tra i banchi dell’Eldr, il partito dei liberali in Europa. Agnoletto spiega che l’Eldr ha votato la famigerata direttiva Bolkenstein, leggi discutibili sull’immigrazione e sull’orario di lavoro. Già. Leggi alle quali io sono contrario, ovviamente, come ho già avuto modo di ricordare in alcuni articoli del passato pubblicati, se non erro, su La Stampa. Una persona di sinistra può allora votare l’IdV? Io ne sono convinto.

La mia candidatura - voluta dallo stesso Di Pietro, tengo a precisare - è quella di un indipendente. Che un partito candidi indipendenti - ricordo che un’altissima percentuale, ben superiore al 50%, dei candidati dell’IdV al Parlamento europeo è di persone che non sono iscritte al partito, e che in grande parte provengono da esperienze di sinistra - non è cosa da poco. Ogni volta che il Pci ha candidato indipendenti, anche al Parlamento europeo, si trattava di persone che avrebbero orientato in modo deciso, in un particolare senso, le attività del partito nelle aule parlamentari. Il Pci candidò Spinelli, ad esempio, traghettando se stesso verso un europeismo convinto (cosa non scontata, data la tradizione del Pci in materia). La fama destrorsa di Di Pietro appartiene più al passato che al presente o, ancor più, al futuro. Non c’è alcun dubbio sul fatto che aprendosi in modo così deciso alle candidature indipendenti, Di Pietro stia portando avanti un progetto nuovo, e che stia compiendo, appunto, un’apertura, della quale non potrà, né vorrà, dimenticarsi una volta “tornato” nell’Eldr. Io stesso, quando ero membro dei Ds al Parlamento, tentavo di respingere le derive centriste del partito - cosa che si può fare, perché al Parlamento europeo, a differenza che in quello italiano, il dibattito è ampio e ragionato.

Se sarò eletto, non tradirò certo i miei ideali per amore dei liberali; piuttosto, tenterò in ogni modo di allargare - ciò che è insito nella mia candidatura e, ripeto, nella scelta fatta da Di Pietro sulla mia persona - il consenso sui temi a me (e alla sinistra) cari. Come noto, non sono a favore della Tav. Potrei dunque candidarmi con chi è già assolutamente contrario, ma se lo spirito di Cln mi spinge a orientarmi sull’IdV (occorre un comitato di liberazione nazionale da Berlusconi, nello stesso spirito di quello che contribuì alla riscossa degli Italiani al termine della Seconda guerra mondiale: cattolici, comunisti, socialisti, azionisti, ecc., tutti insieme, e tutti insieme per una costituzione democratica), è bene che io - tra gli altri - rappresenti, se così gli elettori vorranno, la voce dei cittadini contrari, e discuta le diverse ragioni con chi mi siederà accanto. Tanto più in un momento nel quale i partiti per i quali Agnoletto ci invita a votare manifestano purtroppo la loro inefficacia. Occorre costruire consenso, anche in Europa, sui temi verso i quali tradizionalmente mi sento più vicino - temi di sinistra, assolutamente di sinistra, temi che è difficile far passare, lo dico per esperienza diretta, anche nel Pse (non immagino nemmeno cosa succederà con il nuovo gruppo del Pd!). Mi opporrò a qualsiasi nuova Bolkenstein, mi opporrò all’orientamento tendenzialmente reazionario dell’Europa sulla droga, mi opporrò a qualsiasi ulteriore precarizzazione dei precari, spingerò in tutti i modi per i diritti civili e la ricerca universitaria e scientifica, e mi batterò perché l’Europa inizi a trattare la questione di un nuovo ordine internazionale.

Come si vede, sono temi sui quali anche l’orientamento di Di Pietro si sta spostando, rispetto a come si muove l’Eldr. Ma in fondo, si tratterà di un problema più ampio, che Di Pietro sta affrontando, credo, in un modo intelligente. Apertura di nuovi orizzonti. Del resto, lo dico promettendo un nuovo post sull’Europa che vorrei e sul ruolo che intendo ricoprire in Europa, lo stesso Keynes, quando divenne Lord, si sedette - da persona di sinistra - tra i liberali: perché immaginava di dover aprire il fronte, e di poterlo fare in libertà. Anche al costo di doversi dedicare a far passare le sue riforme più presso i liberali stessi che presso i socialisti. E ci è riuscito.

martedì 26 maggio 2009

Genova, presentazione di "Addio alla verità": primi piani


Un fotografo professionista, Luca Forno, ci regala questi scatti (grazie davvero!),

e noi prontamente ve li proponiamo...







VERITA', RELATIVISMO, MORALISMO


Facoltà di Filosofia CeSEP - Centro Studi di Etica Pubblica LFP - Laboratorio di Filosofia Pratica presentano

Cesano Maderno, Università Vita - Salute San Raffaele, Facoltà di Filosofia

Giovedì 28 maggio 2009, ore 11.30 - 13.30
Palazzo Arese-Borromeo, Sala dei Fasti Romani

VERITÀ, RELATIVISMO, MORALISMO
Gianni Vattimo
Roberta De Monticelli
Roberto Mordacci


Modera: Glauco Tiengo

locandina
In occasione dell’uscita dei libri
Gianni Vattimo, Addio alla verità, Meltemi, 2009
Roberta De Monticelli, La novità di ognuno. Persona e libertà, Garzanti, 2009
Roberto Mordacci, Elogio dell’immoralista, Bruno Mondadori, 2009

Il tramonto della verità è la rappresentazione più fedele della cultura contemporanea: questo vale, secondo Gianni Vattimo, non solo per la filosofia, la religione e la politica, ma anche e soprattutto per l’esperienza quotidiana di ognuno di noi. La cultura delle società occidentali è – di fatto, anche se spesso non di diritto – sempre più pluralista. I media mentono, l’informazione e la comunicazione sono un gioco di interpretazioni e ai politici si consentono molte violazioni dell’etica, e dunque anche del dovere di verità, senza che nessuno si scandalizzi. Tuttavia, la nostra società “pluralista”, come mostrano ogni giorno le discussioni politiche, continua a credere alla “metafisica” idea di verità come obiettiva corrispondenza ai fatti e si illude di creare l’accordo sulla base dei “dati di fatto”.Prendendo radicalmente le distanze da tutte le pretese di fondare la politica su un sapere scientifico, fosse pure quello dell’economia e della tecnica, Gianni Vattimo sostiene che il solo orizzonte di verità che oggi la politica e la filosofia hanno il compito di cogliere, esplicitare e costruire consiste nelle condizioni epistemologiche del dialogo sociale e interculturale. Il tema della verità va dunque ricondotto a una questione di condivisione sociale e gli intellettuali sono chiamati a pensare forme di vita più comprensibili, condivise e partecipate.L’addio alla verità è dunque l’inizio, e la base stessa, della democrazia. Prendere atto che il consenso sulle singole scelte è anzitutto un problema di interpretazione collettiva, di costruzione di paradigmi condivisi o almeno esplicitamente riconosciuti, è la sfida della verità nel mondo del pluralismo postmoderno. Perché la verità non si “incontra”, ma si costruisce con il consenso e il rispetto della libertà di ciascuno e delle diverse comunità che convivono, senza confondersi, in una società libera.

Risposte, precisazioni

Un lettore mi scrive:
Caro Prof. Vattimo, terrò questo commento molto breve perché, non vedendo nessun commento sul blog, sono incerto se la funzione commento funzioni. Leggo sul Corriere.it una Sua dichiarazione: "Invece di chiedere a Berlusconi notizie da gossip su Noemi - afferma Gianni Vattimo, candidato alle europee per l'Idv - sarebbe meglio costruire un progetto di società realmente alternativo." Purtroppo, non si sa mai, con i giornali, quando una dichiarazione sia stata estratta dal suo contesto in modo fuorviante. In ogni caso, se potesse dedicare un intervento sul Suo blog alla questione, credo che cio' sarebbe utile non solo ma a me ma ad altri elettori dell'IDV. Detto molto in breve, sono molto sorpreso che le vicende riguardanti Noemi Letizia ed il Presidente del Consiglio vengano considerate questioni di "gossip". Grazie.

Un altro lettore:
Gentile professor Vattimo, non le sembra che un "progetto di società realmente alternativo" non possa prescindere dall'avere uomini che, ricoprendo ruoli istituzionali, dicano la verità sui propri affari privati? Non le sembra che il cittadino elettore abbia il diritto di confrontare la pubblica apparenza di un politico con il suo agire privato? Tanto più quando questo pubblico apparire insegue un modello di moralità bigotta e tradizionalista? Non sono un militante del PD, né mai lo voterò, sono ostile al suo progetto centrista e moderato ma, se per una volta questo "malriuscito amalgama" compie la propria elementare funzione di opposizione, che dire, lasciamogliela fare! Magari, un poco alla volta si abituano. Cordialmente ed auguri. Roberto.

La mia risposta, in generale, è contenuta nell'articolo che ho pubblicato su La Stampa, il 16 maggio, "Verità come arma", nonché nel libro che sto presentando in questi giorni, "Addio alla verità". Riporto qui sotto l'articolo. Direi comunque, ampliando il messaggio che ho voluto lanciare con il comunicato stampa sul caso Noemi, poi riportato dalle principali testate, comunicato che necessariamente restringe un po' l'ambito della mia risposta, che non mi sembra affatto inessenziale stabilire se Berlusconi abbia mentito o no su Noemi; ma solo perchè fa differenza per il paese e la democrazia sapere (o provare - che lo sia tutti lo sappiamo) se Berlusconi è o no un bugiardo sfrontato. La dichiarazione data al Corriere è un po' sommaria. Intendevo: niente moralismo sulle abitudini private di Mr. B; molta attenzione alla sua abitudine di mentire ai cittadini, non solo sulla faccenda di Casoria. Come bugiardo, e non come adultero o addirittura come pedofilo, si deve scacciarlo dal governo.

Grazie dei vostri commenti, continuate a scrivere.

La verità come arma
La Stampa, 16 maggio 2009
Ciò che ha scandalizzò gli elettori americani nell’affare Lewinski-Clinton, e prima, quel che provocò le dimissioni di Nixon per il Watergate non furono tanto le malefatte di cui i due presidenti si erano resi colpevoli. Clinton aveva tenuto una condotta «inappropriata» con la stagista (allora non si chiamavano ancora veline), ma erano fatti suoi e della sua signora; Nixon aveva «spiato» il quartier generale degli avversari democratici, ma non sembra fossero stati rubati segreti tanto decisivi per la vittoria dell’uno o dell’altro candidato. No, quel che costituiva una macchia intollerabile per l’immagine dei due presidenti era che avessero mentito ai concittadini. Merita di ricordarlo oggi, in Italia ma non solo, quando sembra che la sopravvivenza di un governo dipenda dal fatto che il suo massimo esponente si sia reso colpevole o no di comportamenti «inappropriati» nei confronti di una minorenne o appena maggiorenne. Se di questo si trattasse, avrebbero ragione coloro che si rifiutano di scendere a un così basso livello della polemica politica. Ciarpame, come è stato definito il tutto, non è solo il tema delle passioni private d’un esponente governativo, ma il fatto stesso di interessarsene, violando il limite della privacy e della decenza. Non possiamo però considerare inessenziale, e parte dello stesso ciarpame, stabilire se le notizie che abbiamo della vicenda siano esatte o manipolate nell’interesse d’una delle parti in causa. Sapere se un’alta autorità governativa ha frequentazioni non conformi alla morale dei più è assai meno importante che stabilire se ci menta o no. Non è questione da lasciare alla privacy, diventa un fatto di enorme rilevanza politica. Ma, osserverà qualche mente politica molto europea e disincantata, solo un pubblico ingenuo e di tradizioni puritane come quello americano può pensare che i politici (e i detentori di potere economico o spirituale) non debbano mentire. Andiamo, persino Kant pensava che fosse legittimo mentire in nome di una causa superiore: per salvare lo Stato, la pace, l’ordine sociale. Davvero la verità è un valore così assoluto da diventare il criterio per la stessa legittimità delle istituzioni? Nella Morte a Venezia di Mann le autorità tengono nascosta la gravità dell’epidemia che fa strage per evitare la fuga dei villeggianti e la rovina del turismo. Tutti accettiamo come una triste necessità l’esigenza di non creare panico, e danni maggiori, in caso d’imminenti catastrofi naturali che non abbiamo il potere di evitare. La famosa distinzione di Max Weber tra etica della convinzione e etica della responsabilità vale anche in casi come questi. Paradossalmente, può essere un affare di convinzione morale personale il dovere di dire in ogni caso la verità; ma è altrettanto legittima una convinzione morale che antepone il bene comune al dovere di dire il vero. Però, anche per un convinto assertore di quest’ultima posizione, e tanto più in quanto si preoccupa del bene comune, diventa un dovere prevalente quello di dire il vero se la legge dello Stato glielo impone.Ha poco senso, dunque, rimproverare a qualcuno di mentire, come se il dovere di dire la verità fosse un dovere assoluto precedente ogni legge positiva. Solo se viola qualche legge sancita e perciò necessariamente condivisa dai membri della comunità (l’ignoranza della legge non è ammessa) la menzogna esce dalla sfera della «convinzione» e entra in quella della «responsabilità», anche giudiziaria. Non valore naturale assoluto, la verità è piuttosto un’arma. Persino per il Vangelo: «La verità vi farà liberi». Ma appunto quella che serve a chi non è libero per diventarlo. Mostrare (veracemente?) che il potente è un bugiardo è un modo di prendere sul serio la verità molto più che andare tra gli scioperanti a insegnare la tavola pitagorica o le leggi di Newton. Senza questa consapevolezza, davvero solo ciarpame.
Gianni Vattimo

lunedì 25 maggio 2009

Modena: workshop su Richard Rorty

Un workshop dedicato alla figura e alle opere del filosofo americano Richard Rorty è quello proposto dal Dipartimento di Scienze del linguaggio e della cultura dell’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia.

Organizzato nell’ambito della Scuola di dottorato in Scienze Umane il seminario dal titolo “La filosofia e lo specchio della natura. Trent’anni dopo” si svolgerà in occasione del trentesimo anniversario della pubblicazione dell’omonimo saggio “La filosofia e lo specchio della natura”, testo che più di altri rappresenta l’approccio filosofico del pensatore statunitense. L’appuntamento è per domani - martedì 26 maggio - alle ore 15.00 presso l’Aula Magna della facoltà di Lettere e Filosofia (Largo Sant'Eufemia, 19) a Modena.Relatori dell’iniziativa saranno il prof. Diego Marconi che parlerà de “La verità secondo Rorty” ed il prof. Gianni Vattimo che interverrà su “Verità, solidarietà e storia”. Richard Rorty è cresciuto nell'ambiente della sinistra americana, ben prima di diventare uno dei più noti filosofi contemporanei. Entrambi i genitori erano simpatizzanti del partito comunista e poi attivi antimilitaristi impegnati nei circoli intellettuali della sinistra libertaria e socialista. Dopo essersi formato alla scuola analitica, negli anni ‘70 Rorty se ne allontanò rendendosi così protagonista di una vera e propria svolta nella filosofia americana - già preannunciata con "La svolta linguistica" del 1967 - aprendosi alla filosofia europea. Il primo passo di questa svolta, espresso nel suo libro del ‘79, "La filosofia e lo specchio della natura" si realizza nella critica all’idea tradizionale, sostenuta da Cartesio fino a Husserl, che la conoscenza sia una rappresentazione, un rispecchiamento mentale del mondo esterno.
(tratto da Bologna 2000)

A Teramo, fine marzo: Io in pillole, dalla filosofia, alla religione, alla politica

Scatti da Settimo Torinese (24 maggio)



"Addio alla verità": presentazione a Torre Pellice, martedì 26 maggio

Martedì 26 maggio, ore 21
Libreria Claudiana di Torre Pellice Piazza Libertà 7

GIANNI VATTIMO presenta ADDIO ALLA VERITÀ (Ed. Meltemi, 2009)
Partecipa: Mario Cedrini, Università del Piemonte Orientale

Il tramonto della verità è la rappresentazione più fedele della cultura contemporanea: questo vale, secondo Gianni Vattimo, non solo per la filosofia, la religione e la politica, ma anche e soprattutto per l’esperienza quotidiana di ognuno di noi. La cultura delle società occidentali è – di fatto, anche se spesso non di diritto – sempre più pluralista. I media mentono, l’informazione e la comunicazione sono un gioco di interpretazioni e ai politici si consentono molte violazioni dell’etica, e dunque anche del dovere di verità, senza che nessuno si scandalizzi. Tuttavia, la nostra società “pluralista”, come mostrano ogni giorno le discussioni politiche, continua a credere alla “metafisica” idea di verità come obiettiva corrispondenza ai fatti e si illude di creare l’accordo sulla base dei “dati di fatto”. Prendendo radicalmente le distanze da tutte le pretese di fondare la politica su un sapere scientifico, fosse pure quello dell’economia e della tecnica, Gianni Vattimo sostiene che il solo orizzonte di verità che oggi la politica e la filosofia hanno il compito di cogliere, esplicitare e costruire consiste nelle condizioni epistemologiche del dialogo sociale e interculturale. Il tema della verità va dunque ricondotto a una questione di condivisione sociale e gli intellettuali sono chiamati a pensare forme di vita più comprensibili, condivise e partecipate. L’addio alla verità è dunque l’inizio, e la base stessa, della democrazia. Prendere atto che il consenso sulle singole scelte è anzitutto un problema di interpretazione collettiva, di costruzione di paradigmi condivisi o almeno esplicitamente riconosciuti, è la sfida della verità nel mondo del pluralismo postmoderno. Perché la verità non si “incontra”, ma si costruisce con il consenso e il rispetto della libertà di ciascuno e delle diverse comunità che convivono, senza confondersi, in una società libera.


Gianni Vattimo ha insegnato Filosofia Teoretica presso l’Università di Torino – dove è stato anche Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia – dal 1964 al 2008. Visiting professor in varie università americane, ha tenuto seminari e conferenze in atenei di tutto il mondo. Dopo aver diretto per molti anni la «Rivista di Estetica», collabora oggi con diversi quotidiani e riviste italiane e straniere. Dal 1999 al 2004 è stato deputato al Parlamento di Strasburgo. I suoi libri sono stati tradotti in moltissime lingue. La Meltemi sta pubblicando le sue Opere complete.

domenica 24 maggio 2009

Berlusconi/Vattimo (Idv): Franceschini lasci perdere gossip Noemi

Berlusconi/Vattimo (Idv): Franceschini lasci perdere gossip Noemi
di Apcom
Se Pd insegue premier su suo terreno gente preferisce originale

Roma, 24 mag. (Apcom) - "Invece di chiedere a Berlusconi notizie da gossip su Noemi sarebbe meglio costruire un progetto di società realmente alternativo. Fino a quando il Pd continuerà ad inseguire il premier sul suo terreno, la gente sceglierà l'originale scartando la fotocopia". Lo sostiene, in una nota, il candidato di Idv alle Europee Gianni Vattimo.

Elezioni europee: sì, ma...

Altro pezzo per MicroMega, 24 maggio.

Elezioni europee: sì, ma... (Gianni Vattimo)

Sono elezioni europee e quindi bisogna parlare di ciò che si vorrà fare in Europa. Questo però è solo un argomento usato nei dibattiti elettorali televisivi per far credere agli elettori che si bada di più alla sostanza europea della cosa. Ed è anche giusto, naturalmente, perché una delle ragioni per cui l'Europa ha cosi poco peso nei nostri paesi è il fatto che i partiti nazionali hanno sempre visto il Parlamento europeo di Strasburgo come pura cassa di risonanza per le lotte interne ai singoli stati. Tuttavia, soprattutto per i partiti piccoli che non s'illudono di determinare da un giorno all'altro un cambiamento nel Parlamento europeo è bene ricordare che la posta in gioco il 6-7 giugno è anche e soprattutto la sconfitta possibile di Berlusconi e dei suoi complici. Siccome i voti locali saranno spesso e correttamente determinati da questioni specifiche e diverse, è importante che gli elettori utilizzino il voto europeo anche e soprattutto per far capire all'Italia e all'Europa che l'era berlusconiana nel nostro paese è finita.

Usmate Velate, 22 maggio: intervista e comizio

Nei pressi di Arcore...

eccomi mentre rilascio una lunga intervista filosofico-politica alle Acli di Bergamo...





e sostengo i candidati dell'Italia dei Valori alle comunali e provinciali...
(dopo un allegro buffet!).

Se questo è democrazia

Ecco un altro pezzo per il blog di MicroMega, incentrato sulla campagna elettorale dei singoli candidati. A voi, G.

Se questo è democrazia (Gianni Vattimo)

Spero proprio che tra i Valori per cui mi batto nella lista di Di Pietro ci sia anche una provvidenza o giustizia per il candidato: partecipare a incontri televisivi a cui riesco a essere invitato dopo grandi corteggiamenti ai conduttori è molto spesso una tale umiliazione che immagino di dover essere ricompensato con l'elezione a grande maggioranza. Di recente una giuria di giornalisti invitati alla stessa trasmissione in cui io mi (di) battevo con Mario Borghezio, Daniela Santanché e Matteo Salvini ha assegnato la qualifica di miglior comunicatore a Borghezio stesso e, ex aequo, alla Santanché. Non avevano fatto che interrompere chiunque altro parlasse ad altissima voce impedendo la svolgimento di qualunque discorso ragionevole. Oltre alla rabbia per non riuscire a dire quello (poco o tanto) che sia ha da dire, da incontri del genere si esce con l'impressione di aver svenduto la propria umanità per una manciata di voti. E magari non è nemmeno vero questo, perché il pubblico potrebbe non essere totalmente deficiente.

Scatti dal 22 maggio, Savona: Presentazione del mio libro "Addio alla verità", Libreria Ubik (Scrittorincittà 09)

Con me Gloria Bardi, candidata per l'IdV al Parlamento europeo, e Glauco Tiengo, Università Roma Tre.



Scatti dal 20 maggio, Genova: Presentazione del mio libro "Addio alla verità". Chiesa di San Torpete.

Con me Gloria Bardi, candidata per l'IdV al Parlamento europeo, e Glauco Tiengo, Università Roma Tre.


"Il Vaticano? Ha bloccato l'evoluzione della teologia".


Martedì 19.05.2009, Affari Italiani
(Affariitaliani.it; LV)

"In Italia c'è una presenza debordante del Vaticano a limitare i diritti degli omosessuali e a condizionare i politici che temono di perdere anche un solo voto, ove il vescovo locale abbia a disapprovare proposte più liberali. Infatti in altri paesi europei, dove pure esiste la religione cattolica, ci sono già leggi che permettono unioni civili e matrimoni tra persone dello stesso stesso", dichiara il filosofo Gianni Vattimo, incontrato da Affari a Torino, appena fuori da Piazza San Carlo, mentre partecipava a una manifestazione di lancio del Genova Pride 2009 del prossimo 27 giugno, sfilando, distribuendo volantini, stringendo mani e dialogando divertito con le molte persone incontrate lungo il cammino.

"E poi c'è anche il fatto che l'evoluzione delle teologia è stata bloccata da questa esasperata proiezione politica del Vaticano. E i pochi che scrivono cose innovative sono teologi non ufficiali. Nei nostri seminari si insegna ancora la filosofia tomistica... Negli anni '50 e '60 c'era un dibattito vivacissimo sulla dottrina cristiana, poi con Wojtyla e Ratzinger tutto si è spento... E lo dico da credente, anche se forse il papa non è d'accordo"

A Cuneo

Cuneo: Italia dei Valori porta il 31 i candidati alle Europee

Dopo Luigi De Magistris, Carlo Vulpio e Giorgio Schultze, saranno a Cuneo i candidati per le Europee con Italia dei Valori: Vattimo, Bardi, Beretta, Cusati, Ferrante, Paladini, Pieredda e Vezza, per una serata di presentazione congiunta e per incontrare la cittadinanza, il 31 maggio alle ore 21.00 presso la SALA B del Centro Incontri Palazzo della Provincia. Alla serata parteciperà Tullio Ponso, candidato alla presidenza della provincia di Cuneo.

sabato 23 maggio 2009

Intervista a me e Giorgio Schultze

Un "servizio" dal comizio di Verbania: io e Giorgio Schultze presentiamo la nostra candidatura nell'Italia dei Valori.

A TORINO PROVE GENERALI DI REPRESSIONE

A Torino prove generali di repressione
di Gianni Vattimo (candidato per l’Italia dei valori)


Sto forse partecipando a una nuova, piccola, guerra di Spagna, quella dove si collaudarono le armi per la seconda guerra mondiale? La manifestazione studentesca di Torino del 19 maggio, che alla fine ha visto due fermi e – forse con un po’ di esagerazione – venti agenti di polizia feriti, a quanto pare non gravi – non sarà un banco di prova per mettere a punto tecniche di repressione della guerriglia urbana di cui il governo sente di aver bisogno nel futuro prossimo?
Molti segni sembrano far pensare a questa spiegazione, che altrimenti sarebbe difficile da trovare. Tra questi segni, alcuni – non sappiamo se prodotti davvero da un unico “grande vecchio”, da un progetto di provocazione deliberato, ma certo molto ben congegnati – paiono particolarmente indicativi: già il nome della riunione dei rettori di quaranta università di tutto il mondo, battezzata subito “G8 dell’università”, come se quasi chiunque non sapesse che evocare il G8 suscita immediatamente reazioni contestative, oggi tanto più prevedibili dato lo stato di crisi di una città come Torino, dove solo qualche giorno prima si è consumato l’altro episodio “preoccupante”, e stigmatizzato con toni apocalittici da tutto il coro della stampa “indipendente”, della contestazione a Rinaldini della Fiom. Ma altro ancora fa pensare alla provocazione deliberata: chi comanda le forze di polizia a Torino è lo stesso vice-questore Spartaco Mortola della Diaz di Genova (otto anni dopo; era proprio necessario mandare lui?) ; e l’uso ostentato di elicotteri sul corteo, anche, a quanto pare, per sparare lacrimogeni. Come al G8 di Genova, il governo, sempre più incapace di fronteggiare seriamente la crisi economica, pensa di salvarsi trasformando il tutto in una questione di ordine pubblico. Fino a quando? Difficile sperare che sia solo per il periodo elettorale.

DI PIETRO, LA SINISTRA E LA COSTITUZIONE

Di Pietro, la sinistra e la Costituzione
di Gianni Vattimo (candidato per l’Italia dei valori)

Ma Di Pietro sta davvero a sinistra? Ha risposto lui stesso nel dibattito con Bertinotti al Salone del Libro: se la sinistra non c’è – e sarebbe difficile dire il contrario – io ci sono. Incontro studenti e colleghi da sempre schierati dalla parte dei diritti, del lavoro, della solidarietà sociale, e devo rispondere alle loro critiche: ti sei messo con un ex poliziotto (ma poliziotto, cafone meridionale immigrato al Nord vestendo la divisa, era anche mio padre!), con un magistrato forcaiolo… Ma la prima risposta che mi viene, oltre allo spirito del CLN – perché di una nuova resistenza si tratta, oggi, contro il nuovo fascismo che occorre contrastare prima che sia (se non lo è già) troppo tardi – è che almeno una cosa giusta l’ha detta proprio Berlusconi: la Costituzione italiana l’hanno scritta i comunisti e i cattolici di sinistra. Giustizialismo, egualitarismo, difesa della Costituzione, sono la realistica politica di sinistra oggi. Se si applicasse la Costituzione “cattocomunista” avremmo già una società più giusta, solidale, capace di sviluppo e rispettosa dei diritti individuali. Invece di questa che Di Pietro giustamente ha bollato come fascista, razzista, xenofoba e piduista. Un’affermazione netta dell’Italia dei Valori alle prossime elezioni, locali ed europee, è quello che realisticamente ci si deve augurare per la rinascita di una sinistra italiana che possa ancora motivare un elettorato deluso e troppo rassegnato, con il favore dei media addomesticati, al governo di una gang mafiosa e rapinatrice.