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martedì 31 gennaio 2012

No alla guerra contro Iran e Siria: l'appello

Pubblicato su Il Manifesto, 20 gennaio 2012
«Sempre più concrete e minacciose si fanno le probabilità che la macchina di morte che ha infierito sulla Jugoslavia, sull'Afghanistan e sull'Iraq e che ha appena finito di devastare la Libia si scagli contro altri paesi sovrani. Paesi riottosi ad allinearsi ai persistenti progetti di Nuovo Ordine Mondiale ma la cui sottomissione è decisiva per rilanciare il dominio geopolitico degli Usa e della Nato in Asia e nel mondo intero. (...)
La guerra psicologica, multimediale e ideologica è in effetti già cominciata e ha già messo in campo le armi della disinformazione e della criminalizzazione dell'avversario ma ha anche già proiettato sul terreno i primi corpi d'elite. Questo appello, che invitiamo a sottoscrivere, è stato originariamente lanciato ai primi di gennaio in Germania, paese nel quale ha raccolto l'adesione di 5 parlamentari nazionali. Il testo è stato pubblicato e diffuso in molte lingue. Sul blog Freundschaft mit Valjevo e.V. la versione originale e le diverse traduzioni.
Fermare i preparativi di guerra! Mettere fine all'embargo! Solidarietà con il popolo iraniano e siriano!
Decine di migliaia di morti, una popolazione traumatizzata, un'infrastruttura largamente distrutta e uno Stato disintegrato: questo il risultato della guerra condotta dagli Usa e dalla Nato per poter saccheggiare la ricchezza della Libia e ricolonizzare questo paese. Ora preparano apertamente la guerra contro l'Iran e la Siria, due paesi strategicamente importanti e ricchi di materie prime che perseguono una politica indipendente, senza sottomettersi al loro diktat. Un attacco Nato contro Siria o Iran potrebbe provocare un diretto confronto con Russia e Cina - con conseguenze inimmaginabili.
Con continue minacce di guerra, con lo schieramento di forze militari ai confini dell'Iran e della Siria, nonché con azioni terroristiche e di sabotaggio da parte di "unità speciali" infiltrate, gli Usa e altri Stati della Nato impongono uno stato d'eccezione ai due paesi al fine di fiaccarli. (...) Al fine di procurarsi un pretesto per l'intervento militare da tempo pianificato cercano di acutizzare i conflitti etnici e sociali interni e di provocare una guerra civile. A questa politica dell'embargo e delle minacce di guerra contro l'Iran e la Siria collaborano in misura notevole la Ue e il governo italiano
Facciamo appello a tutti i cittadini, alle chiese, ai partiti, ai sindacati, al movimento pacifista perché si oppongano energicamente a questa politica di guerra. Chiediamo al governo italiano: di revocare senza condizioni e immediatamente le misure di embargo contro l'Iran e la Siria; di chiarire che non parteciperà in nessun modo a una guerra contro questi Stati e che non consentirà l'uso di siti italiani per un'aggressione da parte degli Usa e della Nato; di impegnarsi a livello internazionale per porre fine alla politica dei ricatti e delle minacce di guerra contro l'Iran e la Siria. (...)

Domenico Losurdo, Gianni Vattimo, Margherita Hack, Franco Cardini, Giulietto Chiesa, Costanzo Preve, seguono altre firme
 
Per sottoscrivere l'appello: noguerrasiriairan@libero.it, Paolo Ercolani, Università di Urbino, 0722-303600, 335-8370043, Facebook.com/Paolo Ercolani University of Urbino, Msn paolo.ercolani@hotmail.it

sabato 27 agosto 2011

Gheddafi e i suoi ribelli

Dal mio blog sul sito de Il Fatto Quotidiano, 27 agosto 2011

Gheddafi e i suoi ribelli
La caduta di Gheddafi suscita pochi rimpianti in Italia. Certo, industriali e speculatori di borsa possono vedervi nuove opportunità di guadagno, e alcuni sionisti, più o meno fanatici, la potrebbero considerare anche una vittoria di Israele, quale in effetti è (immagino le critiche, mi vien da aggiungere; ma che dire della politica di potenza di Tel Aviv? Non è forse questa un’ennesima occasione per discuterne?). Ma negli ultimi anni, e sempre più, col passar del tempo, il carattere totalitario del suo governo in Libia aveva allontanato da lui ogni simpatia nata negli anni in cui si presentava come capo di una rivoluzione anti-imperialista. Un destino peraltro condiviso da molti capi di stato di paesi arabi rapidamente divenuti satelliti obbedienti dell’Occidente (anche qui, non sarebbe ora di svecchiare il nostro modo di guardare, e dunque stare, al mondo? Possibile che nemmeno oggi, dopo la fine del colonialismo e della guerra fredda, non sia questa la questione principale da porsi per i cittadini europei nelle relazioni internazionali?). In Italia, poi, era divenuto l’alleato naturale dei fascisti della Lega Nord (immagino ancora critiche; ma davvero esistono altri termini per definire la relativa politica leghista?) che lo utilizzavano, con tutto il governo Berlusconi, per reprimere l’immigrazione clandestina aprendo veri e propri lager sulla sponda meridionale del Mediterraneo.



Quindi, nessun rimpianto per Gheddafi e la sua dittatura. Ma proviamo certamente sdegno, anche vero e proprio disgusto per la politica della Nato e dell’Ue, nonché per  le bugie che ci propinano i giornali e le televisioni, quando (sempre) parlano di vittoria dei “ribelli“. Che sono quasi tutti ex collaboratori del regime di Gheddafi, armati e organizzati, molto prima delle “rivoluzioni arabe” dei mesi scorsi, da Francia e Gran Bretagna con l’approvazione degli Usa.

La Libia, del resto, era il paese più ricco dell’Africa mediterranea; l’opposizione al regime, se aveva qualche radice popolare, era ispirata da motivi etnici, per lo più, non era certo una rivolta di proletari affamati o anche di sinceri democratici assetati di libertà. La cosiddetta liberazione della Libia è solo l’ennesimo atto del colonialismo occidentale che usa la Nato come propria polizia privata per difendere gli interessi economici del grande capitale multinazionale. Sono forse gli interessi dei popoli europei frustati dalla crisi della finanza? Non lo sappiamo, ci sarà certo un po’ di lavoro in più per la cosiddetta ricostruzione (affidata poi alle ditte di Cheney, come in Iraq?). Le borse, come si sa, hanno reagito benissimo alla caduta di Gheddafi. Il senso di questa lotta “popolare” è tutto lì, e le tante vittime civili sono alla fine servite a far salire di qualche punto il valore delle azioni di tante compagnie. Alla salute della democrazia!

Gianni Vattimo

mercoledì 13 aprile 2011

Philosophers at War

Philosophers at war
(translated by Andrea Pavoni for Critical Legal Thinking)

In times of confrontations between explicitly material interests, and in the absence of any real public debate involving the Italian Government (busy protecting the orgy of power), what could be better than a proper exchange between internationally-renowned philosophers, on the alleged necessity of a military intervention in Libya? In an article published on the 28th of March on Libération, Jean-Luc Nancy defends the Western operation. Bengazi insurgents, he explains, are asking us to defeat the ‘vile murderer’ Gaddafi, and the West is called upon to assume the political responsibility for that desired change. Nancy believes that the non-interventionists’ arguments – the potential collateral risks of the operation, the suspicions about the real interests at stake, the principle of non-interference in the reserved domain of States, the weight of the (recent) colonial past – are de facto no longer valid in this globalised world, which empties the principle of sovereignty of any meaning. In such a world it is rather necessary “to reinvent the act of living together and, before all else, the act of living itself”. This, ultimately, would be what the Arab people are forcing us to acknowledge. Hence the necessity of the intervention, in order to protect the rebels from Gaddafi’s bloody clutches. In the second instance, only in the second one, the Western people (we all) should act so as to neutralise oil, financial and war merchants’ interests, already responsible for bringing and keeping such ‘puppets’ as Gaddafi in power.

The answer to Nancy, coming from a stupefied Alain Badiou, deserves the greatest attention. First, he reminds, in Libya we didn’t face a popular uprising such as the Egyptian and Tunisian ones. In Libya there is no trace of documents and flags of protest of the same character as those employed in Egypt and Tunisia, and no women are to be found among Libyan rebels. Second, since the last autumn British and French secret services have been organising Gaddafi’s fall; this would explain, third, both the weapons of unknown origin, available to the rebels, as well as the sudden formation of a revolutionary council to replace the Raìs’ government. Fourth: in contrast to the other Arab countries, explicit help requests have been coming from Libya. According to Badiou, the Western objective is evident: “to transform a revolution into a war”, to replace the rebels with weapons (heavy weapons, armoured vehicles, war instructors, blue helmets), so as to allow “the despotism of capital” to “reconquest” the effervescence of the Arab world. If this wasn’t the case, Badiou asks – and we ask our regime too – how could those same Western leaders, friends to Gaddafi, perform such a turnaround?

What, then, is to be done? Even in the case we would be willing to concede – and we are far from being persuaded by it – that the humanitarian motivation would suffice to justify the intervention. As Peter Singer contends recalling the catastrophe of Rwanda, it is still impossible to ignore that the UN resolution does not authorise a military intervention (Singer himself reminds that). From a utilitarian perspective – in his consequentialist version, that is – collateral risks do matter indeed. Wouldn’t it have been better to seek to obtain the desired outcome by resorting to deterrent measures and high-efficacy sanctions, emphasising precisely (and uniquely) the humanitarian reasons for opposing to Gaddafi? In any case, Nancy’s solution is wholly unsatisfying: why wait (for the military intervention to succeed) to prevent (only in the second instance) the sordid material interests from coming back onto the political scene? Doing this, Badiou explains, would equate to bowing to the Western will, repressing the “unexpected and intolerable” (for the Western warlords, that is) character of the Egyptian and Tunisian revolutions, and thus the “political autonomy” and “independence” of the Arab revolutionaries.

Badiou is right: as I wrote in this blog some posts ago, the multipolar world has its own needs. It is simply not enough to remind all that the Western Imperialism of the cold-war and post cold-war era can no longer aspire to dominate the world. The true revolution will come when the West will learn to step back, to accept the difference, to realise that in a globalised world the concept of sovereignty has even more significance. Nancy’s is a logic mistake: it is exactly the world we wish for, the (international) society in which we would wish to live – to use the words written by Singer somewhere else – which calls upon us to revisit the traditional criteria of the interventionist logic. The world in which we would wish to live, today and tomorrow, is not that of Sarkozy and Cameron, but rather one in which the Arab countries, likewise those of Latin America and Asia, will be legitimate to build from a position of independence and equal rights with respect to the Western nations.

Gianni Vattimo

giovedì 7 aprile 2011

Filosofi in guerra

Dal mio blog su Il Fatto quotidiano, 7 aprile 2011

Filosofi in guerra

Quoi de mieux, in tempi di smaccati interessi materiali contrapposti e in assenza di un reale dibattito pubblico che coinvolga il governo italiano (impegnato a difendere l’orgia del potere), di uno scambio tra filosofi di livello internazionale sulla presunta necessità dell’intervento militare in Libia? In un articolo pubblicato su Libération il 28 marzo, Jean-Luc Nancy difende le operazioni occidentali. Gli insorti di Bengasi, spiega, ci chiedono di sconfiggere il “vile assassino” Gheddafi, e l’Occidente è chiamato ad assumersi la responsabilità politica dell’auspicato cambiamento. Nancy ritiene che gli argomenti sollevati dai non-interventisti – i possibili rischi collaterali dell’operazione, i sospetti relativi ai reali interessi in gioco, il principio di non-interferenza nel dominio riservato degli stati e anche il peso del (recente) passato coloniale – non valgano più, di fatto, nell’attuale mondo globalizzato, che svuota di senso il principio di sovranità, e nel quale è anzi necessario “reinventare il vivere insieme, e prima di tutto lo stesso vivere”. Sarebbe questo, in ultima istanza, ciò che i popoli arabi ci costringono a riconoscere. Di qui la necessità dell’intervento, per proteggere i rivoltosi dalle grinfie sanguinarie di Gheddafi. In seconda battuta, ma solo in seconda, i popoli occidentali (noi tutti) dovrebbero agire in modo tale da neutralizzare gli interessi petroliferi, finanziari, e quelli dei mercanti della guerra, che hanno condotto e mantenuto al potere “puppets” come Gheddafi.

La risposta a Nancy giunta da uno stupefatto Alain Badiou è degna della massima attenzione. Primo, ricorda Badiou, in Libia non si è assistito a una rivolta popolare del tipo di quelle egiziana e tunisina. In Libia non vi è traccia di documenti e di vessilli di protesta dello stesso carattere di quelli utilizzati in Egitto e Tunisia, e tra i ribelli libici non si osservano donne. Secondo, è dall’autunno che i servizi segreti britannici e francesi organizzano la cacciata di Gheddafi; di qui (terzo argomento) la presenza di armi di origine sconosciuta a disposizione dei rivoltosi libici, e del consiglio rivoluzionario immediatamente formatosi in sostituzione del governo del raiss. Quarto: esplicite richieste di aiuto sono giunte alle potenze occidentali, in Libia ma non negli altri paesi arabi in rivolta. L’obiettivo dell’Occidente è palese, secondo Badiou: “trasformare la rivoluzione in una guerra”, sostituire i rivoltosi con le armi (armi pesanti, mezzi militari, istruttori di guerra, caschi blu), così da permettere al “dispotismo del capitale” di “riconquistare” l’effervescente mondo arabo. Altrimenti come potrebbero, si domanda Badiou e domandiamo noi al nostro regime, quegli stessi capi di governo occidentali amici di Gheddafi operare un simile voltafaccia?

Ma allora, come sempre, che fare? Se anche – e siamo lontani dall’esserne persuasi – la motivazione umanitaria fosse sufficiente per giustificare l’intervento, come sostiene Peter Singer richiamando il disastro del Rwanda, non si può nascondere (è Singer stesso a ricordarlo) che la risoluzione dell’Onu non autorizza all’intervento militare. In ottica utilitaristica ma nella sua versione consequenzialista, i rischi collaterali contano eccome. Non sarebbe stato meglio tentare di ottenere il risultato sperato adottando misure deterrenti e sanzioni di elevata efficacia, puntando proprio (e unicamente) sulle ragioni umanitarie dell’opposizione a Gheddafi? La soluzione di Nancy è poi del tutto insoddisfacente: perché attendere (che l’intervento militare abbia successo) per impedire (in seconda battuta, appunto) il ritorno dei sordidi interessi materiali sulla scena politica? Così facendo, ci si piegherebbe alla volontà occidentale, spiega Badiou, di reprimere il carattere “inatteso e intollerabile” (per i signori della guerra occidentali) della rivolta egiziana e tunisina, “l’autonomia politica” e “l’indipendenza” dei rivoltosi arabi.

Badiou ha ragione: come scrivevo in questo blog qualche post fa, il mondo multipolare ha le sue esigenze. Non basta ricordare che l’imperialismo occidentale dei tempi della guerra fredda e degli anni immediatamente successivi non può più ambire a dominare il mondo. La vera rivoluzione giungerà quando l’Occidente avrà imparato a fare un passo indietro, ad accettare la differenza, a capire che il concetto di sovranità è ancora più importante, ora che il mondo è globalizzato. Quello di Nancy è un errore logico: è proprio il mondo che vorremmo, la società (internazionale) nella quale vorremmo vivere, per usare le parole scritte da Singer in altri saggi, che ci chiama a rivisitare i tradizionali criteri della logica interventista. E il mondo nel quale vorremmo vivere, oggi e domani, non è quello di Sarkozy e Cameron, ma uno che i paesi arabi, così come quelli dell’America Latina e quelli asiatici, siano legittimati a costruire in posizione di indipendenza e di pari diritti rispetto alle nazioni occidentali.

Gianni Vattimo

martedì 5 aprile 2011

Libia o un viejo mundo en guerra

Libia o un viejo mundo en guerra

“¿No sería hora de dejar de usar a la ONU como pantalla? ¿Qué legitimidad puede derivar de ella hoy?”, se pregunta el filósofo italiano, para quien la crisis de Libia exhibe el sometimiento de la política a la economía.

Escribir algo sensato sobre la guerra en Libia es difícil. Y es difícil escribir algo sensato en general sobre guerras como ésta, ahora más que nunca. Se podía quizás en vísperas de las primeras intervenciones militares posteriores a la Guerra Fría, Irak, etcétera. Pero ahora, con la carga de esas experiencias, no podemos hacer otra cosa que leer y releer el artículo de Massimo Fini, publicado por el Fatto Quotidiano (ilfattoquotidiano.it) y retomado por MicroMega, y estar sustancialmente de acuerdo con él.

Estamos en guerra, con la bendición (justamente...) de la ONU, del presidente napolitano y de todos los intervencionistas humanitarios. Y a toda velocidad, con una facilidad desarmante (la guerra se apodera también del vocabulario) nos deslizamos en ella sin darnos cuenta. A tal punto que, pensándolo bien, los resultados reales que obtendremos son los señalados por Fini: crearemos un precedente sin precedentes, justamente, el de una intervención dentro del ámbito reservado de un Estado que no invadió a ningún vecino, pero cuyo poder central se rebela contra la rebelión de una parte del país que nunca asimiló la unidad. Reavivaremos el terrorismo, feliz con la evolución de la crisis, legitimando por otra parte cualquier venganza libia. Protegeremos nuestros intereses, haciéndonos como de costumbre portadores de un ideal de democracia que es tal, precisamente, porque nos queda cómodo, es más, nos permite hacer lo que se nos da la gana cómodamente.

Intervenimos con fines humanitarios, contentos de no haber sido cuestionados por Egipto –actuar contra Mubarak habría sido francamente demasiado, para Estados Unidos y los numerosos proveedores del tirano– pero conscientes de la imposibilidad de ver pasar los cadáveres sobre las orillas –las playas– libias. Si el pueblo se arregla solo, exultamos. De lo contrario, intervenimos. Imponiendo en los dos casos –porque siempre es posible después lamentarnos del peligro del extremismo islámico– la norma democrática occidental como regla del “ Brave New World ”.

El problema principal, como ocurre siempre en estos casos, es que habrá que esperar para saber qué deberíamos haber hecho. Tendríamos que haber aplaudido cuando Vietnam invadió la Camboya de Pol Pot, y en cambio, en esos tiempos, nos escandalizamos por la primera guerra entre dos países comunistas.

Tendríamos que haber detenido la masacre en Ruanda, y seguramente tendríamos que haber intervenido para frenar la guerra en Yugoslavia. Pero habríamos podido (debido) actuar antes, no después: tendríamos que haber discutido públicamente, como Europa, en vez de limitarnos a observar atónitos, el inmediato reconocimiento por parte de Alemania y los países europeos, de las reivindicaciones nacionales de Eslovenia y compañía.

Tal vez habríamos comprendido que la adopción de una estrategia pura de interés personal económico produce consecuencias no deseadas, y no sólo la feliz mano invisible smithiana, sino también el fortalecimiento de nacionalistas estilo Milosevic.

Pero aquí y ahora (en Libia) ¿qué hacer? Protestar, sobre todo, por el sometimiento exagerado de la política internacional a los intereses económicos: donde estos intereses no existen, el problema de los derechos humanos no se plantea. Indignarnos por la cómoda excusa, la de los derechos humanos (que lamentablemente, aun cuando se la emplea de buena fe, sigue siendo un pretexto en la Realpolitik internacional), utilizada para bombardear un país –perdón, para salvaguardar una “zona de exclusión”– y no simplemente para bloquear, y en rigor incluso deponer, a un tirano.

Avergonzarnos por el espectáculo obsceno de la diplomacia internacional –el aterrador Sarkozy y el arribista Cameron; la OTAN invocada por quienes la forman pero no la dirigen, porque quien la dirige tiene miedo de los efectos que provocaría la bandera; la nuestra, incalificable, cruza de profesor de esquí y cantante de crucero; la formación de la santa alianza anti-BRIC (Brasil, Rusia, China, India) y, como recordaba Paolo Ferrero, incluso la inserción de un verdadero y auténtico campeón de la democracia, Qatar, en el grupo de los cruzados.

En resumidas cuentas: ¿No sería hora de dejar de usar a Naciones Unidas como pantalla? ¿Qué legitimidad puede derivar de la ONU, hoy? De un acuerdo aprobado en 1945, que asigna explícitamente a las potencias vencedoras de una guerra mundial el deber de mantener la paz, y que como tal nunca funcionó (la paz fue asegurada por el régimen de terror frío dirigido por las dos superpotencias, y cuando éste acabó, la ONU terminó autorizando guerras que no podían contar con el consenso de la parte derrotada, la Rusia post-soviética).

El Consejo de Seguridad es un órgano no democrático y, lisa y llanamente, vetusto. Una Europa iluminada debería preocuparse sobre todo por rediscutir los organismos de cooperación internacional con los países BRIC. Entonces sí, podremos preguntarnos legítimamente qué hacer con Libia y su régimen. No tener una guerra mundial y sus vencedores sobre las espaldas puede ser una debilidad, pero también una fuerza, si se aprovecha para crear una institución que realmente sea supranacional, que pueda velar (un poco más) por el interés general.

En cualquier caso, la cuestión es urgente. Las tecnologías envejecen, como enseña Fukushima. Todo nuestro mundo es demasiado viejo: es viejo el FMI, es vieja Europa, es vieja la ONU. Y, en la próxima crisis, los BRIC no se quedarán mirando.

Gianni Vattimo

(c) MicroMega y Clarin, 2011. Traduccion de Cristina Sardoy.

domenica 27 marzo 2011

Un mondo vecchio in guerra


Articolo postato sul mio blog de Il Fatto quotidiano.

Un mondo vecchio in guerra

Scrivere qualcosa di sensato sulla guerra in Libia è difficile. Ed è difficile scrivere qualcosa di sensato in generale su guerre come questa, ora più che mai. Lo si poteva forse fare alla vigilia dei primi interventi militari post-guerra fredda, Iraq e seguenti. Ma ora, appesantiti da queste esperienze, non possiamo che leggere e rileggere l’articolo di Massimo Fini, pubblicato dal Fatto Quotidiano e ripreso da MicroMega, e trovarci sostanzialmente d’accordo con lui.

Siamo in guerra, con buona pace (appunto…) dell’Onu, del presidente Napolitano e di tutti gli interventisti umanitari. E lo siamo in tutta rapidità, con una facilità disarmante (la guerra s’impadronisce anche del lessico), ci siamo scivolati dentro senza accorgercene. Tanto che, a ben guardare, i veri risultati che otterremo sono proprio quelli indicati da Fini: creeremo un precedente senza precedenti, appunto, quello di un intervento nel dominio riservato di uno stato che non ha invaso alcun vicino, ma il cui potere centrale si ribella alla ribellione di una parte del paese che non ha mai digerito l’unità. Ravviveremo il terrorismo, ben felice dell’evoluzione della crisi, legittimando per altro qualsiasi ritorsione libica. Proteggeremo i nostri interessi, facendoci come al solito portatori di un’ideale di democrazia che è tale proprio perché ci fa comodo, anzi ci permette di fare i nostri comodi.

Interveniamo per fini umanitari, contenti di non essere stati chiamati in causa per l’Egitto – agire contro Mubarak sarebbe stato francamente troppo, per gli Stati Uniti e i tanti foraggiatori del tiranno – ma consapevoli dell’impossibilità di veder passare i cadaveri sulle rive – sulle spiagge – libiche. Se il popolo ce la fa da solo, esultiamo. Altrimenti, interveniamo. Imponendo, in entrambi i casi – perché è sempre possibile, dopo, lamentarsi del pericolo dell’estremismo islamico –, lo standard democratico occidentale come regola del brave new world.

Il problema principale, come sempre in questi casi, è che bisognerà attendere per sapere che cosa avremmo dovuto fare. Avremmo dovuto applaudire l’invasione della Cambogia polpottiana da parte del Viet Nam, e invece, ai tempi, ci scandalizzammo per la prima guerra tra due paesi comunisti. Avremmo dovuto fermare il massacro in Rwanda, e sicuramente avremmo dovuto intervenire per fermare la guerra in Jugoslavia. Ma avremmo potuto (dovuto) agire prima, non dopo: avremmo dovuto discutere pubblicamente, come Europa, anziché limitarci a osservare attoniti, l’immediato riconoscimento, da parte della Germania e dei paesi europei, delle rivendicazioni nazionali di Slovenia e compagni. Avremmo forse capito che l’adozione di una strategia pura di economic self-interest produce conseguenze non desiderate, e non solo la felice mano invisibile smithiana, ma anche l’irrobustimento di nazionalisti alla Milosevic.

Ma ora e qui (in Libia), che fare? Protestare, innanzitutto, per lo smaccato asservimento della politica internazionale agli interessi economici: laddove questi interessi non esistono, il problema dei diritti umani non si pone. Indignarsi per il comodo pretesto, quello dei diritti umani (che purtroppo, anche quando lo si impiega in buona fede, resta un pretesto nella realpolitik internazionale), utilizzato per bombardare un paese – pardon, per salvaguardare una “no-fly zone” – e non semplicemente per bloccare, e al limite persino deporre, un tiranno. Vergognarsi per l’osceno spettacolo della diplomazia internazionale – il terrificante Sarkozy e l’arrivista Cameron; la Nato invocata da chi ne fa parte ma non la comanda, perché chi la comanda ha paura degli effetti che il vessillo provocherebbe; la nostra, inqualificabile, accoppiata tra maestro di sci e cantante da crociera; la formazione della santa alleanza anti-Bric (Brasile, Russia, Cina, India) e, come ricordava Paolo Ferrero, persino l’inserimento di un vero e proprio campione della democrazia, il Qatar, nel gruppo dei crociati.

A dirla tutta: non sarebbe ora di smetterla di usare le Nazioni Unite come paravento? Quale legittimità può ormai derivare all’Onu, oggi, da un accordo approvato nel 1945, che assegna esplicitamente alle potenze vincitrici di una guerra mondiale il compito di mantenere la pace, e che come tale non ha mai funzionato (la pace fu assicurata dal regime di terrore freddo retto dalle due superpotenze, e quando questo venne meno, l’Onu finì per autorizzare guerre che non potevano contare sul consenso della parte sconfitta, la Russia post-sovietica). Il Consiglio di Sicurezza è un organo non democratico e, più semplicemente, vetusto. Un’Europa illuminata dovrebbe preoccuparsi innanzitutto di ridiscutere gli organismi di cooperazione internazionale con i paesi Bric. Allora sì, potremo chiederci legittimamente cosa fare con la Libia e il suo regime. Non avere una guerra mondiale e i suoi vincitori alle spalle può essere una debolezza, ma anche una forza, se sfruttata per creare un’istituzione che sia realmente sovranazionale, che possa guardare (un po’ più) all’interesse generale. In ogni caso, la questione si pone con urgenza. Le tecnologie invecchiano, come Fukushima insegna. Tutto il nostro mondo è troppo vecchio: è vecchio l’Fmi, è vecchia l’Europa, è vecchia l’Onu. E, alla prossima crisi, i Bric non staranno a guardare.