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mercoledì 22 febbraio 2012

Una filosofia debole

Zabala Santiago
Una filosofia debole

Saggi in onore di Gianni Vattimo

Traduzione dall'inglese di Lucio Saviani

510 pagine

€ 45.00
ISBN 978881160054-1


Gianni Vattimo è uno dei filosofi più importanti sulla scena internazionale. Le sue opere sono tradotte in tutto il mondo. Per celebrare il suo percorso filosofico, pensatori come Umberto Eco, Richard Rorty, Charles Taylor e molti altri hanno voluto dibattere i temi da lui affrontati. Muovendo dal decostruzionismo di Derrida e dall'ermeneutica di Ricoeur e sulla base della sua esperienza di uomo politico, Vattimo si è interrogato sulla possibilità di parlare ancora di imperativi morali, di diritti individuali e di libertà politica, e ha proposto la filosofia di un pensiero debole che mostra come i valori morali possano esistere senza essere garantiti da un'autorità esterna. La sua interpretazione secolarizzante scandisce elementi anti-metafisici e pone la filosofia in relazione con la cultura postmoderna.

Nel volume i contributi di Rüdiger Bubner, Paolo Flores d'Arcais, Carmelo Dotolo, Umberto Eco, Manfred Frank, Nancy K. Frankenberry, Jean Grondin, Jeffrey Perl, Giacomo Marramao, Jack Miles, Jean-Luc Nancy, Teresa Oñate, Richard Rorty, Pier Aldo Rovatti, Fernando Savater, Reiner Schrümann, James Risser, Hugh J. Silverman, Charles Taylor, Gianni Vattimo, Wolfgang Welsch, Santiago Zabala.

mercoledì 13 aprile 2011

Philosophers at War

Philosophers at war
(translated by Andrea Pavoni for Critical Legal Thinking)

In times of confrontations between explicitly material interests, and in the absence of any real public debate involving the Italian Government (busy protecting the orgy of power), what could be better than a proper exchange between internationally-renowned philosophers, on the alleged necessity of a military intervention in Libya? In an article published on the 28th of March on Libération, Jean-Luc Nancy defends the Western operation. Bengazi insurgents, he explains, are asking us to defeat the ‘vile murderer’ Gaddafi, and the West is called upon to assume the political responsibility for that desired change. Nancy believes that the non-interventionists’ arguments – the potential collateral risks of the operation, the suspicions about the real interests at stake, the principle of non-interference in the reserved domain of States, the weight of the (recent) colonial past – are de facto no longer valid in this globalised world, which empties the principle of sovereignty of any meaning. In such a world it is rather necessary “to reinvent the act of living together and, before all else, the act of living itself”. This, ultimately, would be what the Arab people are forcing us to acknowledge. Hence the necessity of the intervention, in order to protect the rebels from Gaddafi’s bloody clutches. In the second instance, only in the second one, the Western people (we all) should act so as to neutralise oil, financial and war merchants’ interests, already responsible for bringing and keeping such ‘puppets’ as Gaddafi in power.

The answer to Nancy, coming from a stupefied Alain Badiou, deserves the greatest attention. First, he reminds, in Libya we didn’t face a popular uprising such as the Egyptian and Tunisian ones. In Libya there is no trace of documents and flags of protest of the same character as those employed in Egypt and Tunisia, and no women are to be found among Libyan rebels. Second, since the last autumn British and French secret services have been organising Gaddafi’s fall; this would explain, third, both the weapons of unknown origin, available to the rebels, as well as the sudden formation of a revolutionary council to replace the Raìs’ government. Fourth: in contrast to the other Arab countries, explicit help requests have been coming from Libya. According to Badiou, the Western objective is evident: “to transform a revolution into a war”, to replace the rebels with weapons (heavy weapons, armoured vehicles, war instructors, blue helmets), so as to allow “the despotism of capital” to “reconquest” the effervescence of the Arab world. If this wasn’t the case, Badiou asks – and we ask our regime too – how could those same Western leaders, friends to Gaddafi, perform such a turnaround?

What, then, is to be done? Even in the case we would be willing to concede – and we are far from being persuaded by it – that the humanitarian motivation would suffice to justify the intervention. As Peter Singer contends recalling the catastrophe of Rwanda, it is still impossible to ignore that the UN resolution does not authorise a military intervention (Singer himself reminds that). From a utilitarian perspective – in his consequentialist version, that is – collateral risks do matter indeed. Wouldn’t it have been better to seek to obtain the desired outcome by resorting to deterrent measures and high-efficacy sanctions, emphasising precisely (and uniquely) the humanitarian reasons for opposing to Gaddafi? In any case, Nancy’s solution is wholly unsatisfying: why wait (for the military intervention to succeed) to prevent (only in the second instance) the sordid material interests from coming back onto the political scene? Doing this, Badiou explains, would equate to bowing to the Western will, repressing the “unexpected and intolerable” (for the Western warlords, that is) character of the Egyptian and Tunisian revolutions, and thus the “political autonomy” and “independence” of the Arab revolutionaries.

Badiou is right: as I wrote in this blog some posts ago, the multipolar world has its own needs. It is simply not enough to remind all that the Western Imperialism of the cold-war and post cold-war era can no longer aspire to dominate the world. The true revolution will come when the West will learn to step back, to accept the difference, to realise that in a globalised world the concept of sovereignty has even more significance. Nancy’s is a logic mistake: it is exactly the world we wish for, the (international) society in which we would wish to live – to use the words written by Singer somewhere else – which calls upon us to revisit the traditional criteria of the interventionist logic. The world in which we would wish to live, today and tomorrow, is not that of Sarkozy and Cameron, but rather one in which the Arab countries, likewise those of Latin America and Asia, will be legitimate to build from a position of independence and equal rights with respect to the Western nations.

Gianni Vattimo

giovedì 7 aprile 2011

Filosofi in guerra

Dal mio blog su Il Fatto quotidiano, 7 aprile 2011

Filosofi in guerra

Quoi de mieux, in tempi di smaccati interessi materiali contrapposti e in assenza di un reale dibattito pubblico che coinvolga il governo italiano (impegnato a difendere l’orgia del potere), di uno scambio tra filosofi di livello internazionale sulla presunta necessità dell’intervento militare in Libia? In un articolo pubblicato su Libération il 28 marzo, Jean-Luc Nancy difende le operazioni occidentali. Gli insorti di Bengasi, spiega, ci chiedono di sconfiggere il “vile assassino” Gheddafi, e l’Occidente è chiamato ad assumersi la responsabilità politica dell’auspicato cambiamento. Nancy ritiene che gli argomenti sollevati dai non-interventisti – i possibili rischi collaterali dell’operazione, i sospetti relativi ai reali interessi in gioco, il principio di non-interferenza nel dominio riservato degli stati e anche il peso del (recente) passato coloniale – non valgano più, di fatto, nell’attuale mondo globalizzato, che svuota di senso il principio di sovranità, e nel quale è anzi necessario “reinventare il vivere insieme, e prima di tutto lo stesso vivere”. Sarebbe questo, in ultima istanza, ciò che i popoli arabi ci costringono a riconoscere. Di qui la necessità dell’intervento, per proteggere i rivoltosi dalle grinfie sanguinarie di Gheddafi. In seconda battuta, ma solo in seconda, i popoli occidentali (noi tutti) dovrebbero agire in modo tale da neutralizzare gli interessi petroliferi, finanziari, e quelli dei mercanti della guerra, che hanno condotto e mantenuto al potere “puppets” come Gheddafi.

La risposta a Nancy giunta da uno stupefatto Alain Badiou è degna della massima attenzione. Primo, ricorda Badiou, in Libia non si è assistito a una rivolta popolare del tipo di quelle egiziana e tunisina. In Libia non vi è traccia di documenti e di vessilli di protesta dello stesso carattere di quelli utilizzati in Egitto e Tunisia, e tra i ribelli libici non si osservano donne. Secondo, è dall’autunno che i servizi segreti britannici e francesi organizzano la cacciata di Gheddafi; di qui (terzo argomento) la presenza di armi di origine sconosciuta a disposizione dei rivoltosi libici, e del consiglio rivoluzionario immediatamente formatosi in sostituzione del governo del raiss. Quarto: esplicite richieste di aiuto sono giunte alle potenze occidentali, in Libia ma non negli altri paesi arabi in rivolta. L’obiettivo dell’Occidente è palese, secondo Badiou: “trasformare la rivoluzione in una guerra”, sostituire i rivoltosi con le armi (armi pesanti, mezzi militari, istruttori di guerra, caschi blu), così da permettere al “dispotismo del capitale” di “riconquistare” l’effervescente mondo arabo. Altrimenti come potrebbero, si domanda Badiou e domandiamo noi al nostro regime, quegli stessi capi di governo occidentali amici di Gheddafi operare un simile voltafaccia?

Ma allora, come sempre, che fare? Se anche – e siamo lontani dall’esserne persuasi – la motivazione umanitaria fosse sufficiente per giustificare l’intervento, come sostiene Peter Singer richiamando il disastro del Rwanda, non si può nascondere (è Singer stesso a ricordarlo) che la risoluzione dell’Onu non autorizza all’intervento militare. In ottica utilitaristica ma nella sua versione consequenzialista, i rischi collaterali contano eccome. Non sarebbe stato meglio tentare di ottenere il risultato sperato adottando misure deterrenti e sanzioni di elevata efficacia, puntando proprio (e unicamente) sulle ragioni umanitarie dell’opposizione a Gheddafi? La soluzione di Nancy è poi del tutto insoddisfacente: perché attendere (che l’intervento militare abbia successo) per impedire (in seconda battuta, appunto) il ritorno dei sordidi interessi materiali sulla scena politica? Così facendo, ci si piegherebbe alla volontà occidentale, spiega Badiou, di reprimere il carattere “inatteso e intollerabile” (per i signori della guerra occidentali) della rivolta egiziana e tunisina, “l’autonomia politica” e “l’indipendenza” dei rivoltosi arabi.

Badiou ha ragione: come scrivevo in questo blog qualche post fa, il mondo multipolare ha le sue esigenze. Non basta ricordare che l’imperialismo occidentale dei tempi della guerra fredda e degli anni immediatamente successivi non può più ambire a dominare il mondo. La vera rivoluzione giungerà quando l’Occidente avrà imparato a fare un passo indietro, ad accettare la differenza, a capire che il concetto di sovranità è ancora più importante, ora che il mondo è globalizzato. Quello di Nancy è un errore logico: è proprio il mondo che vorremmo, la società (internazionale) nella quale vorremmo vivere, per usare le parole scritte da Singer in altri saggi, che ci chiama a rivisitare i tradizionali criteri della logica interventista. E il mondo nel quale vorremmo vivere, oggi e domani, non è quello di Sarkozy e Cameron, ma uno che i paesi arabi, così come quelli dell’America Latina e quelli asiatici, siano legittimati a costruire in posizione di indipendenza e di pari diritti rispetto alle nazioni occidentali.

Gianni Vattimo