martedì 8 novembre 2011

Dibattito tra pensiero debole e new realism: intervista a Gianni Vattimo


Il Mattino, lunedì 7 novembre 2011


Vattimo: “Il postmoderno? Sconfitto ma non fallito”
di Corrado Ocone

Si discute molto in queste settimane sul postmoderno, anche perché una mostra londinese (è al Royal and Albert Museum) ne ha decretato la fine. Ma cosa è il postmoderno? Quale è stato il tempo del suo dominio? Esprimeva un’esigenza ancora viva o appartiene inesorabilmente a un tempo che non è più? Per affrontare queste e altre questioni, un colloquio con Gianni Vattimo, che del movimento è stato uno dei più importanti rappresentanti a livello mondiale, è quanto mai opportuno. A maggior ragione considerando il fatto che Garzanti proprio in questi giorni manda in libreria una nuova edizione de La fine della modernità (192 pagine, 11 euro), l’opera in cui Vattimo nel 1985 illustrava la sua versione di postmoderno: il cosiddetto “pensiero debole” 

“Di postmoderno in verità - osserva Vattimo - si cominciò a parlare in un vasto ambito, dalle arti alla società, alla filosofia, da quando nel 1979 uscì un fortunato pamphlet di Lyotard intitolato La condition postmoderne.”

Quale era la tesi?
“Quello di Lyotard era un rapporto sul sapere contemporaneo. In esso si prendeva atto della fine delle metanarrazioni, cioè della crisi delle dottrine che avevano cercato di affermare una visione unitaria della realtà, soprattutto l’illuminismo, l’idealismo e il marxismo. Di fronte alla frammentazione e alla pluralità dei linguaggi e dei saperi che ne scaturiva il suo atteggiamento era positivo, non di chiusura.”

E lei accettò subito questa impostazione
“Non solo. In linea con le mie ricerche cercai di dare uno sfondo filosofico, o meglio storico-ontologico, a questa situazione, soprattutto mostrando come la mia interpretazione di Nietzsche e Heidegger fosse solidale con il nuovo orizzonte. Già nel ‘36 Heidegger aveva definito il nostro tempo 'l’epoca delle immagini del mondo'. E altrettanto nota è l’affermazione nietzschiana che “non esistono fatti, ma solo interpretazioni.”

Qualcuno come Maurizio Ferraris, che è stato suo allievo ma poi ha elaborato una visione neorealista, osserva che senza ancoraggio ad in’idea forte di realtà e verità, anche in politica, si può dire ogni cosa senza darne conto a nessuno. Cosa risponde?
“Rivoltando l’argomento. Se io credo che la realtà sia scritta da sempre in un linguaggio determinato e che nostro compito sia solo quello di individuare la grammatica del mondo e analizzare i linguaggi quotidiani per chiarificarli e riportarli all’ordine dato, non posso pormi nemmeno il problema di cambiare la realtà e umanizzarla. Devo accettarla e basta.”

Ammetterà però che, lungi dal verificarsi una crescita delle possibilità di emancipazione e degli spazi di libertà, in questi anni si sia assistito al trionfo selvaggio del neoliberismo?
“In effetti, noi ci eravamo illusi che fossero finite le metanarrazioni, ma non avevamo considerato che quella basata sugli interessi proprietari, e quindi sul consumismo e l’omologazione dei mercati,  sarebbe sopravvissuta e avrebbe trovato il campo libero per dominare in modo assoluto. Anche se, da questo punto di vista, devo dire che già un critico molto fine come Jameson, che aveva definito il postmoderno la cultura del tardo capitalismo, ci aveva avvertito.”

Anche Habermas aveva criticato il postmoderno e lo avevo visto come una sorta di resa della ragione al presente, riproponendo il “progetto incompiuto della modernità”
“Con un rischio però, di costruire una nuova metafisica o metanarrazione, quella dei diritti umani. I quali, come molti casi concreti di giustizia internazionale o di cosiddetti interventi umanitari stanno a dimostrarci, può diventare a sua volta causa di nuove discriminazioni, neocolonialismo e imperialismo occidentale.”

Crede oggi che il postmoderno sia fallito?
“No, non lo credo affatto: semplicemente non è riuscito, non ha funzionato. La liberazione della comunicazione che auspicavamo, ad esempio, è stata ostacolata. La liberazione è qualcosa che si può fare, anche se c’è qualcosa che resiste.”

Oggi lei si è riavvicinato a Marx e al comunismo? Non è un ritorno ad una concezione forte?
“Il mio è un rivoluzionarismo anarchico. Non credo affatto nel comunismo interpretato in modo rigido come una concezione generale del corso storico, come una meta da realizzare che un giorno ci renderà tutti felici. La riconciliazione non ci sarà mai, ma ad essa bisogna tendere. Credo in una sorta di rivoluzione permanente.”

Nella polemica fra neorealisti e postmodernisti mi ha impressionato il fatto che sia lei sia Ferraris avete saltato del tutto la tradizione dell’idealismo: come se questo momento del pensiero non ci fosse mai stato.
“Da parte mia non c’è stato dolo. Anzi le dirò di più: oggi mi sento particolarmente vicino alle posizioni di Benedetto Croce. D’altronde, l’ho detto più volte anche a proposito dell’affermazione “non ci sono fatti ma solo interpretazioni”: per capirne il senso bisogna pensare allo ‘spirito oggettivo’ di Hegel. Quella che chiamiamo realtà non è affatto qualcosa di inesistente, ma è la trama delle culture, delle tradizioni e dei sistemi di pensiero e di linguaggio ereditate. Una trama frutto delle azioni dei tanti individui che ci hanno preceduto e che cambierà ulteriormente con le nostre nuove azioni. Non era stato forse il filosofo vostro concittadino a dire che lo spirito assoluto era ciò che è morto, mentre quello oggettivo era ciò che rimaneva vivo in Hegel?”

4 commenti:

Juan Carlos Villanueva Miranda ha detto...

Buenos dias Dr Vattimo.
Mi nombre es Juan Carlos Villanueva Miranda, soy estudiante de filosfia en la Universidad pontificia Bolivariana, en Medellin Colombia, a pesar de solo estar en mi primer año, he decidido elegir sus tesis para desarrollarlas sobre toda la carrera, y en verdad que puedo decir que algunas me parecen buenas y otras no tanto.... acerca del pensamiento debil queria pregunatarle que respuesta da a muchos comentarios que he escuchado, en relacion que este parece mas una lectura sociologica y no tanto filosfica...
Muchas gracias...

Munus Umanus ha detto...

Gentile Gianni Vattimo,
se intervengo con tanto ritardo in un dibattito che mi preme molto - per quanto possa valere la mia opinione di dilettante, in senso proprio - è semplicemente perché speravo di vedervi partecipare autori che sembrano, infine, aver disertato e comparire parole e temi che sono rimasti assenti, o, forse, occultati. Qualche anno fa lessi in un articolo il motivo per cui un iniziale "compagno di viaggio" del pensiero debole si era defilato dal quel percorso comune: non si tratta dell'onnipresente Ferraris, ma del più "discreto" Alessandro Dal Lago - autore che amo molto per lo smontaggio dei meccanismi della "produzione della devianza" e del "nemico" che mette in atto nei suoi preziosi testi. Dal Lago spiegava semplicemente che all'inizio il pensiero debole gli parve un tentativo della filosofia di occuparsi - pensare e prendersi cura - della debolezza e vulnerabilità che inerisce in modo inaggirabile agli esistenti, fin dalla loro costituzione "materiale" (il corpo, la carne). E che rimase ben presto deluso da una curvatura di esso che pareva fare apologia dell'esistente - l'entusiasmo per il libero mercato come veicolo della fine delle metanarrazioni attraverso la transizione completa del valore d'uso in valore di scambio, per fare un esempio "esemplare". Credo che Dal Lago - autore di uno dei più bei saggi di quella raccolta che tentò di proporre l'indebolimento della ratio come koiné filosofica e non solo - avesse, allora, non poche ragioni. Adesso che lei si è riavvicinato, seppure in maniera paradossale, a Marx, forse quelle ragioni sono meno forti. Eppure, di nuovo, da tutto questo dibattito su esito e futuro del pensiero debole, continua a mancare proprio la "debolezza" dell'esistenza, che come direbbero Nancy ed Esposito, è costitutivamente "esposta" sì, alla mortalità, ma anche agli altri, nel gioco infinito delle relazioni che rende la (co)esistenza con-divisa nel con-tatto. Ecco, mancano Esposito e Nancy, da questo dibattito: come sono mancati in tutti questi anni, e tale reciproco ignorarsi, fra lei e loro, sinceramente me lo spiego a fatica. Forse lei considera loro "ancora" dediti, in fondo, ad una forma di ontologia, seppure decostruttiva, da cui va preso congedo. E forse loro considerano lei - sono tutte ipotesi, ovviamente - giocatore di una partita un po' troppo facile - e forse à la page? -, quella ermeneutica. Resta che questo reciproco ignorarsi - e ci metto dentro Dal Lago, ma pure Agamben - appare davvero come uno spreco immenso. E non solo a me. Siamo in molti a pensarla in questa maniera - sto facendo da testimone e da portavoce, tutto sommato. Come è possibile che il progetto di "indebolimento dell'essere" in favore della rivalutazione dell'amicizia, della pietas e della verità come esito di "colloqui" di comunità di parlanti non si sia mai incrociata con la "comunità impossibile" delle singolarità plurali di Nancy, e col munus del cum di Esposito? E come queste e la sua ripresa del pensiero debole in chiave di critica del potere (dei poteri) con il percorso di smontaggio dei poteri "reali" di Dal Lago, ma pure con l'inesausta lettura della sacertà e dello stato di eccezione di Agamben? Sinceramente lasciar pensare - perché questo accade di pensare - che tutto sia riconducibile ad antipatie personali genera una grande desolazione. Soprattutto che un confronto fra di voi e fra i vostri pensieri non si dia ora. Tanto più che a molti, mi creda, del "new realism" (ma che fantasia!) interessa come della biografia sessuale di Margaret Thatcher. Non so se rendo l'idea PS le butto lì che un altra grande assenza, ma questo riguarda il pensiero filosofico in generale, è la critica dello specismo. Adorno, almeno, aveva intravisto la questione

Munus Umanus ha detto...

Ho dimenticato di firmare.
Perdoni la maleducazione

Antonio Volpe

Gianni Vattimo ha detto...

Caro Volpe,
le questioni che le solleva sono molto articolate. E proprio per questo non penso che possano essere riportate soltanto a simpatie o antipatie "personali". C'è insomma di più (o di meno), almeno da parte mia: c'è la difficoltà a entrare realmente dentro sistemi apparentemente così compatti, come alcuni tra quelli che lei cita. Lo dice lei stesso: talvolta questa compatezza sembra nascondere una nostalgia da cui il pensiero debole prova a prendere congedo.
Quanto alla curvatura verso l'esistenza (verso il problema dei "deboli"), che lei riconosce al dibattito di questi ultimi anni sul pensiero debole, sono naturalmente d'accordo - e va esattamente nel senso che lei indica.
Grazie, dunque.
GVattimo