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lunedì 19 settembre 2011

Politica italiana, domande kantiane

Dal mio blog sul sito de Il Fatto quotidiano, 19 settembre 2011

Politica italiana, domande kantiane

Paradossale attualità delle tre grandi domande kantiane: che cosa posso sapere, che cosa devo fare, che cosa posso sperare. E urgenza di rovesciarne l’ordine, partendo magari da interventi come quelli di Bifo Berardi e di Ermanno Rea (Il Manifesto di giovedì 15 e domenica 18 settembre) e di Paolo Flores (Il Fatto quotidiano, domenica 18). Magari assumendosi la responsabilità di radicalizzarne le conclusioni. Possiamo sperare qualcosa da questo Parlamento? Flores non fa che riassumere ciò che tutti sappiamo e leggiamo continuamente da mesi nei nostri mitridatizzati giornali: questi parlamentari non sfiduceranno mai il loro capo banda, nel migliore dei casi perché temono fondatamente di non essere mai rieletti; e più spesso perché rischiano posti e prebende, e poi anche loro (come il loro signore e padrone) arresti, processi, sanzioni varie, non escluse vendette mafiose, una volta usciti dall’ombrello dell’immunità. Rivolgersi allora alla coscienza dei meno turpi tra gli esponenti della maggioranza? Ma come trovarli?

Ermanno Rea pensa (bontà sua) a Maurizio Lupi che sbandiera tutti i momenti la propria fede cattolica: la quale del resto, come si ricava dalla interpretazione che ne danno le supreme gerarchie vaticane, non osta a nessun compromesso con l’immoralità – dai costumi sessuali alle ruberie clientelari e fiscali. Persino la Gelmini e Mara Carfagna vengono nominate in questo appello accorato. Tutti costoro dovrebbero dimettersi, magari accompagnati da una buona parte dei parlamentari della inutile opposizione, creando le condizioni per la caduta del regime e lo scioglimento del Parlamento. Forse allora – ma non possiamo sperare nemmeno questo, temo – il presidente della Repubblica si deciderebbe a indire nuove elezioni.

Il più disperatamente lucido dei tre interventi citati è quello di Bifo. Quello che possiamo aspettarci, certo non sperare, è solo che la situazione peggiori continuamente nel futuro prossimo: magari con la sostituzione di Berlusconi da parte di un meno sputtanato fiduciario della finanza internazionale, che, sollecitato opportunamente dal capo dello Stato, applichi inflessibilmente la manovra e magari la rafforzi con altri giri di vite. Con la conseguenza di aumento di disoccupazione, disagio sociale intensificato, forse qualche sussulto di piazza che Maroni o chi per lui si incaricherà di reprimere – sul modello della Val di Susa e della lotta ai No Tav con i carri armati della Taurinense. Dovremo anche dare nuove prove della nostra lealtà atlantica (si veda La Stampa di domenica 18 settembre: secondo Riotta l’Atlantico si è allargato, bisogna restringerlo!), comprando altri caccia bombardieri per mandarli nelle “missioni di pace” della Nato (in Libia, 50.000 morti finora, non è ancora finita, del resto) e sbarrare l’ingresso dell’Onu ai Palestinesi, aspettando che Israele ne completi la sottomissione o lo sterminio (vera “soluzione finale” del problema).

Se non questo, che cosa? Il pudore democratico di Flores, e addirittura il pacifismo professato da Rea, escludono che si possa pensare a un esito diverso, e cioè che – pur non sapendo niente perché viviamo in regime di censura giornalistico-televisiva – si possa pensare a fare qualcosa che non siano i piagnistei di Bersani e Pd. Ma, sempre a proposito di speranza: non ci sarà la possibilità che i trecentomila fucili della feccia padana, magari al comando della Trota, comincino la guerra di secessione, obbligando la Nato a una missione di pace anche sul nostro territorio? Guerra (no: missione di pace) igiene del mondo? Non ce lo auguriamo, visti i risultati libici. Ma davvero, caro Kant, che cosa possiamo sperare?


Gianni Vattimo

lunedì 28 marzo 2011

Per colpa dei leghisti metteremo la coccarda. Intervista a Gianni Vattimo

Per colpa dei leghisti metteremo la coccarda. Intervista a Gianni Vattimo

Umbrialeft.it

di Tonino Bucci

Ci siamo. Dell’Unità d’Italia che oggi si festeggia giunge solo l’eco delle guerricciole simboliche tra i leghisti e il fronte dei patriottici del Pdl. Inno di Mameli o meno, la scenografia del centocinquantenario appare piccola, anzi microscopica, dinanzi alle notizie che giungono dal mondo. Qual è, di fronte ai disastri planetari del Giappone, la forza autocelebrativa di un paese che a malapena, ancora oggi, può proclamarsi davvero unito nella cultura e nelle condizioni materiali? Ma c’è, soprattutto, da confessare un certo imbarazzo nell’essere presi tra due fuochi: la retorica antirisorgimentale dei leghisti, da un lato, che riabilitano il tregionalismo, le piccole patrie, i localismi, un’Italia insomma in cui i diritti valgano solo in funzione delle appartenenze etniche; e dall’altro la melassa della retorica, il viva l’Italia dei talk show, l’inno di Mameli (con tutto il rispetto per questo combattente caduto a difesa della Repubblica romana) trasformato nella colonna sonora del vogliamoci bene. E’ con Gianni Vattimo, filosofo, teorico del pensiero debole e torinese di nascita, che ne parliamo.

Non saremmo mica costretti a scegliere tra il delirio dei leghisti e la retorica di facciata?

Questa melassa è uno degli effetti collaterali del fatto che c’è la Lega. Io vado al Gay Pride solo perchè c’è il Papa che ce l’ha con noi e rompe l’anima, altrimenti non mi muoverei. Di solito non indosso le piume di struzzo. Se non ci fosse, la Lega bisognerebbe inventarla. Che motivo ci sarebbe di tanta retorica per in centocinquantenario? Se le persone vanno in giro con la coccarda è perchè ce l’hanno con questi razzisti xenofobi – e anche un po’ imbecilli – dei leghisti. Al di là della presa di posizione antileghista – che è sacrosanta e che dovrebbe però avere la forza di sbaraccare la Lega – c’è qualcos’altro in questa celebrazione? Mi ricordo del centenario del 1961. L’Italia di allora non era mica ossessionata dall’inno. Si pensava piuttosto a come conquistare le olimpiadi, a rimediare soldi per finanziare opere pubbliche. La celebrazione era un’occasione per il miglioramento collettivo, economico, architettonico. Francamente non ricordo che ci fosse un grande spirito nazionalista o un amore spropositato per il tricolore. Il fascismo era finito da poco, il nazionalismo era oggetto di culto del Movimento sociale.

La sinistra italiana – a parte Craxi – ha sempre guardato con sospetto all’idea di nazione, troppo legata all’uso imperialistico che storicamente ne ha fatto il fascismo. Eppure, di fronte alla Lega che esalta le piccole patrie, siamo costretti a rispolverare il concetto di nazione che, in fondo, combinato con la Costituzione, è garanzia di uno spazio universalistico dei diritti. O no?

E’ vero. Per la sinistra può essere una buona occasione, di distinguere il nazionalismo da un concetto di nazione che non contraddica la solidarietà internazionale. Solo che oggi è diventato tutto una melassa e francamente di questa retorica per l’Unità ne farei volentieri a mano. Io mi sento italiano quando mi metto a tavola e quando gioca la Nazionale, per il resto non me ne importa niente. L’unico patriottismo che si può rivendicare oggi è quello costituzionale, come dice Habermas. Sono affezionato a una certa tradizione politico-culturale a condizione che non escluda le altre. Anche il dialetto mi piace. Che poi l’Italia unita sia meglio di quella disunita, di questo non sono pienamente convinto. Non vorrei sembrare leghista, ma perchè la gente lottava per l’unità d’Italia? Perchè credeva in una trasformazione più radicale, che non riguardasse soltanto il passaggio di sovranità, dai Borboni ai Savoia, ma cambiasse anche le condizioni sociali ed economiche. Non ci si ribellava soltanto all’oppressione dello straniero, ma all’oppressione in generale. Ci è mancata una rivoluzione sul modello di quella francese, che non è stata una semplice rivoluzione nazionalista. Io credo che il Risorgimento muovesse gli animi non solo con le parole d’ordine unitarie, ma anche con aspirazioni socio-politiche. Dell’Italia una d’arme, di lingua, d’altare non ce ne frega niente sinceramente. E poi c’è l’aspetto colonialistico di un’unificazione che ha assunto la forma di un’espansione dei Savoia. Questo è stato il nostro Risorgimento, condizionato dalla presenza di una casa regnante che ha occupato il sud e ha fatto la guerra ai contadini del meridione chiamandoli briganti. Ma vorrei fare anche un’altra considerazione. Mazzini, Cavour e Garibaldi avevano un progetto e l’hanno realizzato senza che un popolo fosse chiamato a votarlo. Io sono molto sensibile ai limiti della democrazia formale. Quei personaggi non rappresentavano la maggioranza, erano un’elite che aveva un progetto ed è riuscita a realizzarlo. I plebisciti certo sono stati fatti, ma erano elezioni corrette dal punto di vista procedurale, chissà? Ma allora non capisco perchè la gente celebri il Risorgimento e poi se la prenda, che so, con un Fidel Castro perché a Cuba non ci sono le elezioni.

Nella retorica ufficiale non c’è nessuna traccia dell’anima anticlericale che ha segnato il nostro Risorgimento, perlomeno dal 1848 in poi. Non trova?

E’ diventato un valore così isituzionale che nelle celebrazioni ci deve essere anche il vescovo. Sennò che celebrazione è? Mi è capitato di scrivere di recente la prefazione alla raccolta di scritti di Vittorio Gorresio (storico e giornalista de La Stampa scomparso nell’82, ndr), uscita col titolo Risorgimento scomunicato. Ne avessimo di lotte anticlericali come quelle là. C’erano anche dei cattolici che odiavano il Papa.

Nel dopoguerra c’è stato un momento di recupero del Risorgimento, del quale la Resistenza era considerata la prosecuzione e il compimento. Non è così?

La teoria popolare a Torino, negli anni in cui iniziavo a frequentare l’università, era che la Resistenza era stata il compimento del Risorgimento. Lo stesso Gramsci si sentiva in continuità con la rivoluzione liberale dell’Ottocento – e con lui, Gobetti. Ma oggi l’abbracciare la retorica risorgimentale è anche un segno che non sappiamo dove sbattere la testa.

Veniamo da anni di disincantamento della politica. Anche la sinistra nei discorsi pubblici ha ostentato pragmatismo e realismo. Cosa è sucesso, oggi abbiamo bisogno di reincantare di nuovo la politica? Dove la prendiamo una nuova religione civile?

Tutto il fervore centocinquantenario di Torino non è dovuto solo a bassi motivi economici, a interessi turistico-alberghieri – c’è gente che ci guadagna, come con la Tav – è che proprio non sappiamodove sbattere la testa. Questo è un paese che non ha una religione civile, nè un’ideologia politica in grado di muovere e commuovere. Voi di Liberazione lo sapete. Una volta doveva venire Baffone, oggi non c’è niente da aspettare, non abbiamo niente in cui credere e dobbiamo rispolverare le memorie di famiglia. Forse il mito del futuro sarà l’ecologismo. Le notizie che arrivano dal Giappone ci costringono a prenderne atto. C’è poco da festeggiare.

martedì 12 ottobre 2010

L'Europa? In fondo a destra


Post dal mio blog su Il Fatto Quotidiano, 11 ottobre 2010

L'Europa? In fondo a destra

L’ultima doccia fredda è stata la notizia dell’ingresso dell’estrema destra nel Parlamento svedese. Che non significa la conquista della maggioranza, ma certo un passaggio significativo, per un paese che era stato il modello della socialdemocrazia europea per molti decenni. Ma questo, come ho detto, è solo l’ultimo fatto emblematico di una situazione europea nella quale i governi di destra – che pudicamente si definiscono di centro-destra – sono ogni giorno più numerosi. Del resto il Parlamento europeo, per quanto questo dato può valere, ha una maggioranza di destra, e solo molto di rado le sinistre – liberali, socialisti, verdi – ottengono qualche risultato, che peraltro deve sempre affrontare ancora l’approvazione del Consiglio Europeo, quella sorta di Camera Alta dell’Unione che rappresenta i governi dei vari stati. Ma non c’è dubbio che, a parte questi meccanismi istituzionali, l’Europa ha oggi una faccia politicamente moderata, che tende continuamente a diventare francamente di destra e che, come si vede dalle recenti leggi xenofobe che si è data la Francia (seguendo, a quanto sembra, l’esempio dell’Italia di Berlusconi!), fa ogni giorno un passo di più verso il fascismo; un fascismo per ora molto soft, ma che promette di irrigidirsi in forme sempre meno conformi alla tradizione liberale e democratica del continente.

Perché siamo improvvisamente (non proprio; ma dopo la fine del nazismo non si era mai visto un fenomeno così generalizzato; possiamo parlare di un clima, di una atmosfera, ormai) diventati conservatori, e spesso decisamente razzisti? Chi si è sempre richiamato agli ideali della sinistra stenta a spiegarsi questo fenomeno, e non è detto che anche le ipotesi che qui presento colgano nel segno. Paradossalmente, la visione del mondo della sinistra, in Europa, si è sempre fondata su presupposti filosofici della tradizione storicistica, che è stata anche l’ideologia del colonialismo: quella per la quale c’è un corso unitario della storia umana che procede verso una sempre più completa civilizzazione. La punta di questo corso, che ha anche il diritto storico di guidarlo, è l’Europa, la quale si espande nel mondo “portando la civiltà” ai popoli che ancora sono “sottosviluppati”. Quando, con la ribellione dei popoli ex-coloniali, questo schema storicistico è diventato anche filosoficamente insostenibile, la fede nel progresso del mondo verso la democrazia e il socialismo, e dunque la sinistra stessa hanno subito una crisi di fiducia. È accaduto, sul piano delle convinzioni e dell’impegno politico collettivo, qualcosa di simile alla caduta del muro di Berlino. Ancora oggi la sinistra si sente orfana e priva di forti orientamenti ideali. Se il comunismo si è rivelato impossibile, per che cosa si dovrebbe ancora lottare?

Naturalmente, questa vicenda ideologica non coinvolge davvero i milioni di elettori che in varie parti d’Europa abbandonano i partiti di sinistra per passare ai conservatori, oppure, come sempre più spesso accade, per rifugiarsi nell’astensionismo.
Questa considerazione risente certo del mio punto di vista italiano; ma il fenomeno è generale, riguarda il socialismo francese, i laburisti inglesi, persino il socialismo spagnolo. Insieme e più ancora che la caduta di tensione ideologica che identifichiamo emblematicamente con la caduta del muro di Berlino, un’altra tappa finora decisiva per lo stabilirsi di una clima di destra in Europa è stato, probabilmente, l’11 settembre, e l’inizio della guerra americana al “terrorismo internazionale”. Da dieci anni a questa parte il leit motiv della politica conservatrice è la lotta al terrorismo; una lotta che, a propria volta, è essenzialmente terroristica, ha bisogno, cioè, di coltivare un sentimento di paura costante. Quel che era ai tempi della guerra fredda la minaccia del comunismo sovietico, oggi è la paura generalizzata; non solo degli attacchi terroristici, ma molto più, di recente, la paura della perdita del posto di lavoro, di quel poco o tanto che il capitalismo mondiale continua ad assicurare ai cittadini della metropoli.

Il successo della destra, in Italia come in Francia come in Olanda come in Svezia, è fondato sulla paura, della perdita del lavoro e soprattutto dell’immigrazione. I rom sono solo l’obiettivo più recente; ma da anni, ormai, i paesi “di confine”, come l’Italia, la Spagna, la Francia, sono dominati da un’ossessione difensiva, che prevale, in larghe parti della società, sulla difesa della libertà, della privacy, delle stesse istituzioni democratiche. È sempre la paura di perdere stabilità, tranquillità, privilegi, quello che impedisce anche la realizzazione di un’Europa più autenticamente federale, e perciò anche più forte e capace di gestire il rapporto con i mondi che premono ai suoi confini. Il governo Berlusconi, per esempio, sostenuto in modo determinante da un partito sempre più esplicitamente razzista e cripto-nazista come la Lega Nord, si accorda con il dittatore libico Gheddafi a cui affida il compito di pattugliare il Mediterraneo, senza troppi scrupoli di legalità e rispetto dei diritti umani, impedendo l’immigrazione clandestina di cittadini africani spesso in cerca solo di asilo politico. Quello che fa Gheddafi per respingere gli immigranti clandestini, lo fa, nei confronti del problema del lavoro, la minaccia continua delle delocalizzazioni delle industrie. Così, da ultimo, gli operai della Fiat di Pomigliano sono stati messi di fronte alla scelta tra accettare una forte (e anticostituzionale) limitazione dei loro diritti sindacali oppure perdere il lavoro per la chiusura e il trasferimento della fabbrica in Serbia. Inutile dire che anche qui la paura ha trionfato, il referendum indetto tra gli operai ha dato ragione all’azienda. Più in generale, statistiche neutrali dicono che vari punti percentuali di PIL sono passati, negli ultimi quindici anni, dai salari ai profitti; i ricchi sempre più ricchi, i lavoratori sempre più sfruttati. Anche di squilibri come questo è fatta la disperazione che alimenta le vittorie della destra in Europa.

mercoledì 31 marzo 2010

Vattimo in Argentina: l'accordo UE-Colombia, i diritti umani, e le elezioni regionali

(articoli tratti da AnsaLatina.com)
ACORDO ENTRE UE E COLÔMBIA DEPENDE DE RESPEITO AOS DIREITOS HUMANOS
BUENOS AIRES, 30 MAR (ANSA)
http://www.ansa.it/ansalatinabr/notizie/notiziari/colombia/20100330152135054464.html
- O deputado italiano no Parlamento Europeu Gianni Vattimo relacionou a assinatura de um Tratado de Livre Comércio (TLC) entre a União Europeia e a Colômbia com um compromisso do país sul-americano em adotar uma postura de respeito sobre os direitos humanos.
"A Europa deveria condicionar a assinatura do TLC a alguma iniciativa que o governo colombiano faça para demonstrar respeito aos direitos humanos. Se até os Estados Unidos se negam a referendar um TLC, alguma coisa deve haver", apontou Vattimo à ANSA.
Na opinião do italiano, que busca um consenso com outros deputados europeus em favor desse condicionamento, a medida pressionaria Bogotá, pois o acordo econômico "a interessa muito". Vattimo também recordou "a descoberta recente de uma fossa comum com dois mil cadáveres, próxima a uma base militar", localizada em La Macarena, no departamento [estado] de Meta. As declarações do filósofo italiano foram feitas durante um debate organizado pela sede da Universidade de Bolonha em Buenos Aires, denominado "Direitos Humanos, definí-los e defendê-los, o papel dos parlamentos regionais".
As eleições regionais realizadas na Itália nos últimos dois dias também foram analisadas por Vattimo, autor de "Não ser Deus" e "O fim da modernidade".
Para ele, os bons resultados obtidos pela Liga Norte (aliada do governista Povo da Liberdade), liderada por Umberto Bossi, "é um grande perigo para a Itália", pois "mescla sentimentos de autodefesa da pequena burguesia, homofóbica, xenófoba e contra a imigração".
(ANSA) 30/03/2010 15:21

FILOSOFO VATTIMO PIDE CONDICIONAR FIRMA TLC CON COLOMBIA
BUENOS AIRES, 29 (ANSA)
- Existen "muchas reservas sobre el respeto de los derechos humanos en Colombia", sostuvo el filósofo italiano Gianni Vattimo, quien como diputado del Parlamento Europeo propuso condicionar la firma del tratado comercial con ese país a un compromiso en ese sentido. Vattimo, autor de "No ser Dios" y "El fin de la modernidad" entre decenas de publicaciones, dijo además a ANSA que es "malo" el avance de la Liga Norte en las elecciones regionales celebradas en Italia el domingo y el lunes.
El filósofo y eurodiputado participó el lunes de un debate organizado por la sede en Buenos Aires de la Universidad de Boloña sobre "Derechos Humanos, definirlos y defenderlos, el rol de los parlamentos regionales", junto a la ex fiscal de La Haya Carla del Ponte, entre otros panelistas. También el eurodiputado mantenía hoy encuentros con colegas en su condición de miembro de Eurolat, la Asamblea Parlamentaria de Europa y América Latina, creada en 2006.
Vattimo dijo que trabaja para reunir consenso entre los demás legisladores europeos a su iniciativa de condicionar la firma del Tratado de Libre Comercio (TLC) entre Colombia y la Unión Europea -prevista en mayo- a un compromiso formal del gobierno de Bogota en el respeto a los derechos humanos.
Entre las "condiciones negativas" en el país suramericano, el filósofo citó "el hallazgo reciente de una fosa común con 2 mil cadáveres, cerca de una base militar", la mayor de América Latina en tiempos de democracia, situada en La Macarena, departamento del Meta.
Dado que al gobierno de Bogotá "le interesa mucho" la firma del acuerdo económico, "Europa debería condicionar la firma del tratado a alguna iniciativa que el gobierno haga para demostrar el respeto de los derechos humanos", explicó Vattimo.
"Si hasta Estados Unidos se niega a refrendar el TLC, alguna cosa que no va debe haber", ironizó sobre la resistencia de los demócratas norteamericanos a aprobar el acuerdo bilateral en el Parlamento por los crímenes reiterados de dirigentes sindicales colombianos, que siguen impunes.
Consultado sobre el resultado de las elecciones regionales en su país, que finalizaron el lunes, y donde la Liga Norte de Umberto Bossi logró un respaldo fuerte en el norte, Vattimo opinó que "es un gran peligro para Italia en cuanto mezcla sentimientos también de autodefensa pequeño burguesa, homofóbica, xenófoba y contra la inmigración".
El diputado por Italia de los Valores, fundado por el ex fiscal de "Manos Limpias" Antonio Di Pietro, explicó el triunfo de la fuerza de Bossi en el norte rico italiano en que durante la campaña "arengó sobre los peores sentimientos de autodefensa" de parte de la población.
GAT 30/03/2010 18:57

martedì 1 dicembre 2009

“A Varese il risultato sarebbe stato lo stesso”


“A Varese il risultato sarebbe stato lo stesso”
Gianni Vattimo, La Stampa
1 dicembre 2009 (Ema. Min.)

La Svizzera vota contro i minareti? La cosa mi dispiace, ma non mi stupisce. D’altronde quello elvetico è da sempre un popolo reazionario tendente a proteggere i ladri di cavalli. Per metterla giù in modo meno pesante direi che non sono propriamente un esempio di modernità. Sono ricchi, sono conservatori, e in fondo, se avessimo fatto lo stesso test a Varese o a Bergamo il risultato non sarebbe cambiato molto: hanno votato come voterebbe un leghista.
Mi dispiace, ma ripeto, il no al minareto non mi stupisce, né mi scandalizza: non sono mica come Borghezio che porta a passeggio il maiale davanti alle moschee. Io penso che ci dovrebbe essere la piena libertà di costruirle, le moschee. Perché così come ci sono le chiese ci devono essere anche le moschee con i loro minareti.

mercoledì 14 ottobre 2009

"Leghismo e Chiesa anti-moderna ecco chi semina l'odio per i diversi"

La Repubblica, mercoledì 14 ottobre 2009


"Leghismo e Chiesa anti-moderna ecco chi semina l'odio per i diversi"

La denuncia del filosofo Vattimo, europarlamentare Idv, che si è sempre definito cattolico, comunista e gay
di Ettore Boffano

«Mi vergogno di essere italiano». Gianni Vattimo, il filosofo che si è sempre definito «cattolico, comunista e gay», gesticola e alza la voce ripetendo le identiche parole che Norberto Bobbio pronunciò per l'omicidio di Giovanni Falcone. Poi, si ricorda anche di essere un politico, un europarlamentare dell'Idv, e attacca: «Hanno accettato di tutto: le peggiori porcherie volute da Berlusconi. Hanno detto che era costituzionale il lodo Alfano e ora invece affossano le norme contro l'omofobia».

Professore, chi sono i nemici dei gay in Italia?
«Beh, dopo questo voto mi pare difficile avere dubbi. La nostra nemica è la destra italiana di oggi, che è figlia di quella di ieri».

Ma alcuni fedelissimi di Fini si sono dissociati.
«Infatti la matrice più omofoba non è quella postfascista, ma quella della Lega. Il celodurismo di Bossi è l'essenza di questo sentimento che odia i gay: becero, identitario e che guarda oltre gli stessi omosessuali, che ha come vero obiettivo la diversità in senso lato. E la paura per l'immigrazione extracomunitaria che genera spavento, che accresce il bisogno di identità locale, quasi di classe, di appartenenza. E che la fa pagare subito ai più deboli, a quelli che, immediatamente, sono i meno in grado di difendersi».

Che cosa vuol dire, professor Vattimo?
«Tento di spiegarmi quest'odio contro i gay che dilaga in Italia. Una cosa strana, se pensiamo che ormai l'omosessualità non si nasconde più, sfila nelle città e ha dei luoghi e dei modi pubblici e accettati. Eppure, proprio ora scatta la rabbia. Se avessimo la pazienza di rileggere Pasolini, scopriremmo ad esempio che era più tranquillo essere omosessuai nella Roma fascista degli anni ‘40 piuttosto che in quella di oggi».

E quali sono le cause di tutto ciò?
«Per prima cosa, ritengo che significhi una controreplica della nostra società all'aumento delle libertà in generale. Quasi che avere più libertà si porti dietro anche più resistenze contrarie. Poi, c'è il maschilismo...

Un vizio molto italiano: lo stesso delle cronache private del premier e delle sue battute offensive sulle donne. O no?
«E così, ma io direi che il maschilismo, più che solo italiano, è un atteggiamento mediterraneo. Anzi, cattolico-mediterraneo. Perché la Chiesa del celibato del clero e della chiusura al sacerdozio femminile è molto maschilista e io ripeto sempre che il suo gridare contro i gay, nonostante le ipocrisie sui preti pedofili, è l'ultimo urlo possibile contro la modernità che le è rimasto in gola».

Ieri la cattolica del Pd Paola Binetti ha votato con il centro-destra e Dario Franceschini ha detto che questo è un signor problema.
«È un problema che hanno da tempo, ma non se ne liberano mai».

La Chiesa cattolica è un'altra nemica dei gay, dunque?
«In realtà la cultura anti-gay preesiste al cattolicesimo. La Chiesa, invece, potrebbe cambiare molte cose in materia di sesso e aiutarci tutti ad essere più liberi, ma non lo fa. E questa è la sua vera colpa. Non vuole metterci in condizione di mutare la nostra percezione del sesso, lasciando piuttosto che esso resti “le sale petit secret”, lo sporco piccolo segreto di cui parlava Gilles Deleuze. Il sesso resta così uno scandalo, uno scandalo aumentato dalla mercificazione che gli è stata imposta dal capitalismo. Alla fine, saremo travolti da questa concezione del sesso».

E che cosa bisognerebbe fare, allora?
«Se ne fossimo capaci, dovremmo davvero fare una rivoluzione in campo sessuale. Nel senso che dobbiamo scegliere: o sappiamo darci un modo del tutto nuovo di concepire la sessualità o altrimenti resteremo prigionieri di questo status quo».

lunedì 24 agosto 2009

A quando la bandiera rionale?

Un mio articolo uscito su La Stampa del 12 agosto.

A quando la bandiera rionale?

Ma fino a quando? Sono cominciate le applicazioni della legge sulla «sicurezza» imposta dalla Lega; Bossi straparla di bandiere regionali - ma perché non comunali, di quartiere, di caseggiato? E intanto è sempre più evidente a tutti che il reato di clandestinità non potrà essere seriamente perseguito se non a prezzo di un insopportabile aggravamento del lavoro di giudici, pubblici ministeri, carcerieri e carceri che già scoppiano. Non solo la vacuità e inapplicabilità di questa legge; anche un bilancio di ciò che la Lega ha preteso dal governo negli ultimi mesi, o dei provvedimenti a cui come parte attiva del governo ha collaborato, dovrebbe spingere i suoi elettori a riflettere.

«Roma ladrona», lo slogan di Bossi che manda in delirio le sue piazze, si è rafforzata enormemente proprio per le complicazioni che il federalismo ha creato. Del resto, già da tempo chi ha praticato Bruxelles e le istituzioni europee sa che molte regioni italiane hanno aperto vere e proprie ambasciate presso l'Unione Europea: con spese di locali, personale, eccetera. E per coordinare la moltiplicazione dei poteri regionali sono nate nuove direzioni generali presso i ministeri romani, nuove e sempre più complesse «authorities». Per non parlare degli stipendi e dei privilegi dei consiglieri regionali, in varie regioni di gran lunga superiori a quelli - già alti - dei parlamentari nazionali. E tutto questo in nome delle autonomie locali: penso alle Province, enti della cui inutilità nessuno più dubita, compresi coloro che si sono candidati a presiederle nelle ultime elezioni (così un moderato realista come Vietti, candidato sconfitto alla Provincia di Torino), si sono moltiplicate. E avranno ovviamente diritto alle loro bandiere, magari alle loro ambasciate, a un apposito ministero che le coordini.

La politica, anche e soprattutto quella ispirata dalla Lega, diventa sempre più un terreno in cui si moltiplicano le spese e le cariche inutili, mentre i problemi reali del Paese restano sullo sfondo remoto. E le leggi, sotto la pressione di forze politiche minuscole ma «determinanti» (chi si ricorda mai che la Lega, con tutti i suoi ministri e il suo potere di ricatto su Berlusconi, vale alle elezioni europee un paio di punti percentuali in più dell'Italia dei Valori?), vengono scritte (non ancora in dialetto lombardo, ma poco ci manca) in maniera frettolosa, raffazzonata, contraddittoria, e hanno bisogno di essere immediatamente corrette da decreti ad hoc che ne complicano ulteriormente l'applicazione e ne rendono spesso problematica la costituzionalità (perché sanatoria per le badanti e non per i muratori e i netturbini?). Conoscendo i suoi successi come uomo d'affari, abbiamo sempre pensato che almeno sul piano dell'efficienza Berlusconi fosse affidabile. Bossi gli fa perdere anche questa unica virtù, lo sommerge nel mare delle sue chiacchiere demagogiche, lo riduce al livello degli urli di Pontida e del ridicolo culto del dio Po. Ma davvero: fino a quando?


Gianni Vattimo