Berlusconi esiste o no? Dipende dall'ermeneutica
L'Unità, 5 ottobre 2011. Di Mico Capasso
Le
vie di mezzo sono le uniche che non portano a Roma», scriveva Schönberg,
celebre compositore, teorico della dodecafonia e della dissonanza.
D’altra parte, la fecondità di un dibattito come quello in corso sul New
Realism si misura proprio sull’asprezza delle posizioni antitetiche in
gioco. Da tempo, la posizione di Maurizio Ferraris lo vede contrapposto
al suo antico maestro, Vattimo, rappresentante di una linea di pensiero
dominante, l’ermeneutica, di cui il suo «pensiero debole» è versione
assai accreditata. La questione è rimbalzata sui giornali per le sue
ricadute politiche, in particolare per la lettura del berlusconismo. I
due filosofi spiegano infatti lo stesso fenomeno partendo da posizioni
radicalmente opposte. Senza vie di mezzo cercano di spiegare cosa
succede a Roma.
Da
una parte, ed è la posizione di Vattimo e dell’ermeneutica, vale
l’istanza secondo cui «non ci sono fatti, ma solo interpretazioni».
Dall’altra, ed è la posizione di Ferraris e della proposta insita nel
suo New Realism, è necessario che i fatti ci siano perché le
interpretazioni possano essere smentite (e Berlusconi sbugiardato).
Ferraris sprona dunque la filosofia a mettere in moto quella «ragione
pigra», come la chiamava Kant, che si è ambientata in un mondo fatto di
interpretazioni, rinunciando a porre il problema della loro
verificabilità. Nello spirito di una ricerca della verità e non di una
sterile polemica politica à la page, il lavoro di Ferraris sprona la
comunità ermeneutica e storicistica italiana a ritornare, secondo il
noto adagio fenomenologico, alle «cose stesse». Ma l’ermeneutica dice
proprio ciò Ferraris vuol farle dire, o il filosofo del New Realism ne
attacca, peraltro giustamente, solo una versione assai indebolita? È
davvero possibile che l’ermeneutica, al di là dei discorsi che ha
prodotto e che, nella critica di Ferraris, ne fanno un sintomo del
postmoderno, sia stata così ingenua da barattare la ricerca della verità
per un relativismo che non ha più la minima presa o pretesa sulla
realtà?
Prendiamo
una proposizione semplice: «piove». La verità o falsità di questa
proposizione è qualcosa che chiunque può accertare semplicemente
guardando fuori dalla finestra. Che piova o non piova è un fatto. Sin
qui la reductio di Ferraris. L’ermeneuta però non concede neppure
questo, ma ed è questo il punto essenziale non perché non creda alla
verificabilità della proposizione, non perché creda che tutto è relativo
e che quindi per lui potrebbe non essere pioggia quella che è pioggia
per un altro, ma perché pensa che per poterne dirimere la verità, o il
senso di verità, occorre guardare allo sfondo interpretativo che si
nasconde e su cui si staglia l’enunciato, alle ragioni per cui è
prodotto e ai suoi effetti di senso. Con i vecchi ma sempre istruttivi
paradossi greci si potrebbe ad esempio chiedere quando finisce la
pioggia o dove comincia un temporale. Probabile che in una foresta
amazzonica le rilevazioni percepite dal senso comune siano diverse dalle
nostre, perché legate ad altre forme di vita e ad altre condizioni di
esistenza, senza per questo essere false.
D’altra
parte, l’insufficienza del dato salta agli occhi, quando per esempio,
in un pubblico dibattito, si ragiona «dati alla mano», e però questi
dati dicono gli uni il contrario degli altri. Da un simile impasse non
si esce additando il mondo com’è fuori dalla finestra, ma comprendendo
le modalità interpretative di quei dati (che in verità dovrebbero
chiamarsi «risultati»).
Come
sono stati raccolti quei dati? Su quali campioni? Più che di
un’esibizione di dati, è in gioco un conflitto di interpretazioni, dove
alla fine soltanto quella che descriverà il paese nella sua complessità
risulterà più vera. Non bastano ad esempio i dati sulla crescita o sul
prodotto interno lordo, ma solo incrociando questi dati con la
sperequazione della ricchezza e con l’aumento della forbice tra ricchi e
poveri si otterrà un’immagine più veritiera del Paese.
La
proposta ermeneutica sta dunque non nel negare i fatti e inventarsi le
interpretazioni, ma nella consapevolezza che i fatti, per sé soli, non
dirimono nulla (se non inutili dispute meteorologiche, tipo se fuori
piove o c’è il sole), e anzi spesso celano, dietro la loro apparente
datità, un’operazione di potere tanto più ingannevole in quanto si
dissimula nella forma della verità a portata di mano. Anzi, proprio
rispetto a chi ci dice che il mondo è quello che è, la filosofia, nella
sua originaria vocazione politica, ha bisogno di un’iniezione di
dialettica. Cioè di quella cura hegelo-marxiana, coppia non a caso
assente da questo dibattito, che riemerge con la forza di un rimosso
quando il pensiero, distogliendo lo sguardo dalle contraddizioni
esistenti, si assopisce in questa «tenerezza delle cose» condita in
salsa postmoderna. E senza vie di mezzo, ma con una robusta proposta di
interpretazione del nostro tempo, a Roma ci si arriva e come.
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