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mercoledì 6 marzo 2013

Grillo, sempre Grillo, fortissimamente Grillo

04/03/2013
di Gianni Vattimo

Grillo sempre Grillo fortissimamente Grillo. Forse è ora di smitizzare un po’ il grande trionfo dei Cinque Stelle, anche se è giusto aspettare che gli eletti del Movimento  si “qualifichino” in Parlamento e con le decisioni che prenderanno. Io non ho nessun dubbio che i loro programmi coincidano con le mie aspettative, dunque anche per me Cinque Stelle è la possibilità buona di cambiare finalmente l’Italia, di realizzare quella “rivoluzione civile” per cui, anche nell'ultima campagna elettorale, mi sono impegnato.

Grillo come un Di Pietro non gravato da zavorre amministrative (Maruccio) o troppo conservatrici (Donadi e C.). Una certa dose sana di “leninismo”, che a Di Pietro è rimasto sempre (troppo?) estraneo, e che forse, almeno agli inizi, è indispensabile a ogni rivoluzione, per civile che sia. Ma appunto perché si tratta di una rivoluzione “civile”, che si compie dentro la cornice della democrazia formale (persino Chavez si è sempre affidato alle elezioni democratiche!) non può pretendere di cominciare completamente da zero. Si tratta solo di decidere quando si comincia a fare i conti con la storia, quella delle strutture esistenti, dei partiti e dei politici “di prima”. E’ un po’ come nelle contrattazioni sindacali: il sindacato deve lottare contro il padrone, ma da ultimo, dovendo “portare a casa il contratto”, non potrà mai diventare un potere totalmente rivoluzionario. 

martedì 5 marzo 2013

Gianni Vattimo: «Grillo non è Lenin»

04/03/2013, Lettera43
Intervista a Gianni Vattimo di Antonietta Demurtas

Gianni Vattimo

Al filosofo Gianni Vattimo piace sempre più l'antitesi che la sintesi. In politica l'europarlamentare dell'Italia dei valori (Idv) ha esercitato l'arte della dialettica per criticare tutto e tutti: prima delle elezioni contro «il montismo, il bersanismo e il napolitanismo» ha auspicato il successo della lista di Antonio Ingroia. Che insieme al Movimento 5 stelle era «l'unica novità della campagna elettorale».
Ma ora che il magistrato siciliano è rimasto fuori dal parlamento e l'ingovernabilità regna sovrana, anche Vattimo sospende il giudizio sui primi passi del movimento di Beppe Grillo: «Certo se penso al loro programma in effetti mi sembra il migliore, tranne le cose più stravaganti come la presa di posizione contro il latte di mucca», ha detto a Lettera43.it, «ora però è difficile valutare perché non si capisce cosa diavolo vogliano fare».

Più che una rivoluzione una vera confusione?
Mi sembra che in questo momento si stia troppo enfatizzando la novità di Grillo. È diventata una specie di moda, se uno per strada dice 'non credo a Grillo', lo picchiano direttamente.

Quindi lei non ci crede?
Non è quello il punto, è che trovo esagerato che tutti si precipitano a studiare il fenomeno. Io prima di parlare li metterei alla prova.

Per entrare in parlamento però serve un voto di fiducia che i grillini non vogliono dare.
Il M5s non vuole mischiarsi con gli altri partiti, nè collaborare. Da un lato ha ragione perché squadra che vince non si cambia. Grillo ha vinto per la sua diversità rispetto al sistema politico esistente, e ora stenta ad abbandonare quella condizione. Ho però l'impressione che prima o poi dovrà mostrare un'apertura.

mercoledì 20 febbraio 2013

Elezioni, Vattimo: “Un voto di resistenza antimontiana”

18/02/13, Micromega

colloquio con Gianni Vattimo di Rossella Guadagnini


Gianni Vattimo
Il countdown è cominciato. La settimana che manca al voto significa per i partiti l’ultima occasione per rafforzare le proprie posizioni, conquistare gli indecisi, contrastare la spinta all’astensionismo. L’incognita del Senato pesa come un macigno sulla formazione del futuro governo. Nella convulsa campagna elettorale cui abbiamo finora assistito due sono le novità: Beppe Grillo con il M5S e Antonio Ingroia con Rivoluzione Civile. E il resto? E’ noia, secondo il filosofo Gianni Vattimo, che spiega a MicroMega come sulle politiche economiche ci sia ben poco di diverso tra le proposte di Bersani e quelle di Monti. Per scongiurare un futuro di conflitti sociali, avvisa l’europarlamentare Idv, serve una forte affermazione delle componenti della sinistra, a partire da Rivoluzione Civile.


Destra e sinistra: qualcuno sostiene che siano concetti obsoleti, non più in grado di descrivere la realtà, specie per i giovani.

La differenza tra destra e sinistra è l’unica cosa in cui possiamo ancora credere. Destra e sinistra oggi sono più vive che mai e si vede benissimo. La destra, in questo momento, significa Europa, Monti, banche e messa in ordine dei conti. Uno schieramento che domina perché ha il controllo dei media. La sinistra, invece, significa più politica sociale, meno disuguaglianze, sostegno ai diritti civili e una patrimoniale seria. Il patto con la Svizzera per il rientro dei capitali, noi non l’abbiamo fatto. L’hanno fatto Inghilterra e Francia, tassandoli al 20 per cento. La destra ha una natura darwiniana e razzista: vuole usare le differenze naturali per lo sviluppo. La sinistra vuole correggere le differenze naturali in modo che tutti possano competere cominciando dallo stesso livello. 

lunedì 28 gennaio 2013

Ingroia, Di Pietro e la rivoluzione che non può più attendere





Dal mio blog sul Fatto Quotidiano: www.ilfattoquotidiano.it


Inutile dire che voterò per la lista Ingroia, soprattutto perché è lì che ritrovo Di Pietro e quel che resta di IdV; giustamente purificata dagli elementi di destra che ci stavano dentro fino ad ora: persone per lo più rispettabili e solo di opinioni più conservatrici delle mie; a parte ovviamente quelli che hanno ceduto alle lusinghe berlusconiane in vari momenti, o quelli che hanno deciso di scappare con la cassa.

Di Pietro ha ragione: dobbiamo usare di questa emorragia di finti o scontenti militanti per rendere IdV più autenticamente quello che deve, voleva, essere: un partito di rinnovamento radicale della politica e della società italiana; non per niente, a parte l’innominabile Lega, è rimasto l’unico gruppo di opposizione al governo eurobancario Bersani-Monti-Napolitano.


venerdì 29 aprile 2011

Appello della società civile per Luigi de Magistris sindaco di Napoli

“Contro la destra, per una politica nuova”. Appello della società civile per Luigi de Magistris sindaco di Napoli

La battaglia per affermare una nuova politica e una nuova cultura amministrativa a Napoli ha un assoluto rilievo nazionale. Sotto gli occhi dell’opinione pubblica italiana e internazionale, infatti, Napoli sta vivendo in questi anni una gravissima emergenza politica, sociale, economica, ambientale e culturale.

Ma Napoli non è soltanto la terza città d’Italia, è anche la capitale del Mezzogiorno, di quella parte d’Italia abbandonata a sé stessa e cancellata dalle priorità nazionali nell’ultimo quindicennio di confuse riforme istituzionali e di falso federalismo. I tagli dei trasferimenti e la compressione degli investimenti per il Mezzogiorno, le tante promesse tradite, come la soluzione dell’emergenza rifiuti, svelano l’abisso in cui è caduto il governo Berlusconi, caratterizzato dalla propaganda leghista sulla “questione settentrionale”.

È urgente battersi contro questa politica. Non solo per ribadire i fondamentali principi di uguaglianza nei diritti di cittadinanza sull’intero territorio nazionale stabiliti dalla Costituzione, ma anche perché non potrà esserci un reale sviluppo del Paese senza un rilancio del Mezzogiorno. Questa battaglia non può che partire da Napoli. Il Paese ha bisogno di una nuova politica nazionale per Napoli e la Città ha bisogno di una nuova stagione amministrativa per ispirare quella politica. Per questo è necessario impedire che la destra conquisti il governo della Città.

Tuttavia, battere la destra è necessario ma non sufficiente. Nell’ultimo decennio, infatti, le forze del governo locale hanno raccolto istanze che nulla hanno a che vedere con una prospettiva riformistica. Da visione pragmatica, il riformismo si è trasformato in una mera copertura ideologica per nascondere la reale impotenza nell’interpretare i cambiamenti della società e proporre risposte adeguate. Ora occorre che le forze progressiste e democratiche napoletane mettano in campo una profonda innovazione nei programmi, nei metodi di governo e nella cultura amministrativa.

Serve una svolta nella direzione del rigore e della efficienza, della lotta alle clientele, della difesa degli assets pubblici contro le privatizzazioni selvagge, per il rispetto del piano regolatore e il rilancio di una programmazione industriale finalizzata allo sviluppo sostenibile e alla difesa della buona occupazione, per l’energia pulita e contro il ricorso al nucleare, contro gli inceneritori, per la dignità delle periferie, per l’acqua pubblica e la difesa dei ceti deboli minacciati dalla crisi.

Ebbene, noi riteniamo che la candidatura di Luigi de Magistris sia quella maggiormente in grado di ridare voce autorevole ai napoletani nel Paese e impedire la vittoria delle destre in Città. Per queste ragioni, invitiamo tutte e tutti a sostenere la candidatura di Luigi de Magistris sindaco per Napoli.

Primi firmatari:

Dario Fo (premio Nobel per la letteratura) Daniel Cohn-Bendit (ecologista leader del maggio francese) Giorgio Cremaschi (presidente della Fiom) Paolo Flores D'Arcais (filosofo direttore di Micromega) Luciano Gallino (sociologo Università di Torino) don Andrea Gallo (sacerdote) Ferdinando Imposimato (magistrato) Gerardo Marotta (presidente dell'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici) Citto Maselli (regista) Giorgio Parisi (fisico National Academy of Sciences) Franca Rame (attrice e drammaturga) Ermanno Rea (scrittore) Riccardo Realfonzo (economista Università del Sannio) Paolo Rossi (attore e regista) Gianni Vattimo (filosofo Università di Torino) Dario Vergassola (attore) Enzo Albano (presidente del Tribunale di Torre Annunziata) Nerino Allocati (avvocato lavorista) Andrea Amendola (segretario generale Fiom Napoli-Campania) Vincenzo Argentato (Fiom Napoli) Gianluca Attanasio (campione italiano di nuoto paralimpico) Enzo Avitabile (cantante e compositore) Davide Barba (giurista Università del Molise) Oliviero Beha (giornalista) Rosario Boenzi (architetto) Gianfranco Borrelli (filosofo Università di Napoli "Federico II") Salvatore Borsellino (Movimento delle Agende Rosse) Massimo Brancato (coordinatore nazionale Fiom Mezzogiorno) Alberto Burgio (filosofo Università di Bologna) Antonio Casagrande (attore regista) Sergio Caserta (Associazione per il Rinnovamento della Sinistra) Dario Castaldi (Rsu Fiom Alenia Capodichino) Salvatore Cavallo (Rsu Fiom Ansaldo Trasporti) Domenico Ciruzzi (avvocato penalista) Giancarlo Cosenza (urbanista) Ciro Costabile (produttore artistico) Lilia Costabile (economista Università "Federico II" di Napoli) Ettore Cucari (presidente della Federazione Imprese Viaggi e Turismo) Wanda d'Alessio (giurista Università "Federico II" di Napoli) Riccardo Dalisi (architetto artista) Rosaria De Cicco (attrice) Michele Della Morte (costituzionalista Università del Molise) Giancarlo de Vivo (economista, Università "Federico II" di Napoli) Antonio Di Luca (operaio FIAT Pomigliano) don Vitaliano Della Sala (parroco della Chiesa madre di Mercogliano) Marinella de Nigris (avvocato) Francesco De Notaris (Assise della città di Napoli e del Mezzogiorno d'Italia) Antonella Di Nocera (produttice presidenza nazionale Arci-Ucca) Luciano Ferrara (fotografo) Gigi De Falco (presidente Italia Nostra Campania) Lucia di Pace (linguista Università di Napoli "l'Orientale") Guido Donatone (presidente Italia Nostra sez. "A. Iannello") Eugenio Donise (Associazione per il Rinnovamento della Sinistra) Nino Ferraiuolo (Associazione per il Rinnovamento della Sinistra) Paola Giros (Presidente direttivo Fiom Napoli) Enzo Gragnaniello (cantante e compositore) Giovanni Impastato (Centro Documentazione Antimafia Peppino Impastato) Bruno Jossa (economista Università di Napoli "Federico II") Peppe Lanzetta (attore e scrittore) Lucio Leombruno (avvocato) Ugo Marani (economista presidente Ires-Cgil Campania) Sergio Marotta (giurista Università Suor Orsola Benincasa di Napoli) Maurizio Mascoli (Fiom Campania) Claudio Massari (ispettore editoriale) Loris Mazzetti (giornalista scrittore) Emilio Molinari (Contratto mondiale sull'acqua) Andrea Morniroli (operatore sociale) Salvatore Morra (Rsu Fiom Whirlpool) Enzo Morreale (Comitato Civico di San Giovanni a Teduccio) Walter Palmieri (storico CNR-Istituto di Studi sulle Società del Mediterraneo) Rosario Patalano (economista Università "Federico II" di Napoli) Francesco Percuoco (Rsu Fiom FIAT Pomigliano) Ciro Pesacane (forum ambientalista) Marco Pezzella (filosofo Scuola Normale Superiore di Pisa) Raffaele Porta (biochimico Università "Federico II" di Napoli) Giuliana Quattromini (avvocato lavorista) Giulio Raio (filosofo Università di Napoli l'Orientale) Carla Ravaioli (saggista ambientalista) Diego Risi (Rsu Fiom IBM Napoli) Giorgio Salerno (direttore Istituti di Cultura italiani all'estero) Tommaso Sinigallia (direttore libreria Ubik) Massimo Squillante (matematico Università del Sannio) Carlo Starace (imprenditore) Salvatore Vitagliano (artista).

lunedì 4 aprile 2011

Olbia: Vattimo apre la campagna dell'Italia dei Valori

Olbia: Vattimo apre la campagna dell'Italia dei Valori
La Nuova Sardegna, 3 aprile 2011

Incanta, diverte, trascina. Il filosofo eurodeputato Idv Gianni Vattimo per un’ora eleva la sala dalla banalità della politica. In un confronto continuo tra mondo ideale e mondo reale, tra il migliore dei mondi possibili e quello in cui si galleggia. Ci si immagina l’astrazione del filosofo. Si trova l’uomo immerso nel mondo. «Ho conosciuto la storia di questa coalizione civica - dice -, ha un valore di modello. Forse il futuro dell’Italia passa qua. Sono convinto che serva l’impegno dei cittadini verso la politica. Siamo stanchi del governo di chi fa l’escortiere” mentre il paese collassa». Vattimo descrive un paese decadente post-industriale, in cui non si investe in cultura. In cui la forbice tra i pochi ricchi e i tanti poveri si allarga. Spera in una riscossa che parta dalle periferie. Con lui il padrone di casa Giommaria Uggias che va dritto alla polpa. «Assistiamo alla creazione di un doppio monopolio. Uno dei cieli con Alitalia che si compra Meridiana con i soldi degli italiani e il silenzio del governo. E uno dei mari con l’acquisto di Tirrenia da parte delle compagnie private. Un momento difficile per la città che deve reagire. Per questo la grande coalizione è indispensabile. Perché viviamo una situazione di emergenza. Prima ci siamo dati le regole, poi abbiamo pensato a chi poteva guidare la coalizione. Olbia è l’avanguardia per la costruzione del futuro della nostra nazione. Abbiamo creato un esperimento e ci abbiamo messo alla guida un uomo onesto e capace. Gianni Giovannelli. Vogliamo e dobbiamo essere protagonisti di questo cambiamento». (l.roj)

lunedì 25 ottobre 2010

Intervista a "Lo Specchio"

Una mia intervista (Vasto, 20 settembre, incontro nazionale dell'Italia dei Valori) a "Lo Specchio", blog di informazione politica.


giovedì 18 giugno 2009

''L'Idv a Torino: tanti ragazzi pochi tromboni''. ''Ceto medio, riflessivo, attento per niente leghista di sinistra''


Ecco un'intervista, fattami da Mario Baudino per La Stampa e pubblicata il 9 giugno. Prima di sapere che sarei finito al Parlamento.

''L'Idv a Torino: tanti ragazzi pochi tromboni''. ''Ceto medio, riflessivo, attento per niente leghista di sinistra''
Ho visto soprattutto giovani militanti. Potevano essere miei allievi, ma non solo. Non necessariamente studenti. Nella campagna elettorale ho incontrato molto più gente di base, di quanto mi sarei aspettato». Gianni Vattimo, da Gadamer a Di Pietro, è il quarto per preferenze nell'Idv: dovrebbe farcela grazie al gioco delle rinunce; mette in chiaro subito che ha una gran voglia di andare al Parlamento europeo.
«Me lo sono meritato», dice, «E con tutto il rispetto, sono uno dei pochi indipendenti. E dei pochi di sinistra».
Professore, come ha visto l'Idv?
«Qui in Piemonte attraverso Buquicchio e Porcino. Molto amichevoli, nonostante l'indipendente possa essere accettato con difficoltà. Ho incrociato il partito abbastanza per rendermi conto che è composto da persone di cui non mi devo certo vergognare, e così spero loro di me. Anche se in politica non si sa mai, non si può mai giurare».
E che cosa ha capito?
«Che ci sono moltissimi giovani, ma non solo. Ho scoperto per esempio Giorgio Shultze, col suo ''movimento umanista''. E' un ingegnere, parla sempre di quelle cose lì che non ricordo mai, il fotovoltaico, le pale a vento. Molto preparato, buon oratore. Siamo andati davanti ai cancelli della Fiat e c'erano tanti ragazzi che distribuivano i suoi materiali. Sono contento di aver conosciuto questa gente».
E gli intellettuali? Da Roma a Trieste, hanno scelto Di Pietro in tanti, da Camilleri a Magris. A Torino ha visto qualcosa di simile?
«Credo che a Roma ci sia stato il traino della rivista Micromega. Comunque sia, sugli intellettuali non mi pronuncio. Qualche mio amico mi ha promesso il voto, ma vai a sapere, in genere sono abbastanza rognosi, alla fine scelgono Rifondazione. Per esempio: due storici come Beppe Sergi e Giuseppe Ricuperati mi avranno votato? Chissà. Che io sappia non c'è stata aggregazione».
Le spiace? «Un po' sì. Un'amica aveva organizzato un aperitivo in mio onore con tanti professori. Una buona metà ha continuato a ripetere che avrebbe votato Rifondazione. E allora dico, andate un po' a quel paese».
L'Idv resta popolo?
«Popolo? Sì, forse. Ho girato molti mercati; però avevo più seguito in quelli di Torino centro che non in periferia. Anche questo vorrà dire qualcosa».
Mercati «colti», intende?
«Mercati frequentati da un certo tipo di persone. Ho anche mandato una gran quantità di lettere insieme a Porcino, che è un vero boss, ha un vasto seguito tra i calabresi. Qualche volta mi sono trovato un po' fuori posto».
Per esempio?
«Per il clima, la compattezza regionale. Un po' di folklore».
Qualcuno vi ha presi in giro parlando di un partito «cafone».
«Neanche per sogno. Tutti incravattati, a parte i giovani che si vestono da giovani, cioè da barboni. L'unico che fa il cafone per prendere voti è Di Pietro. Ho trovato ambienti raffinati, per esempio a Luino».
Sul lago. Ma a Torino?
«Ceto medio riflessivo. Niente ''leghismo'' inteso come atteggiamento; starei per dire purtroppo».
Di sinistra?
«Non proprio. Anche se quelli che ho incontrato nelle periferie provenivano dalla sinistra. A Venaria c'è un ragazzo bravissimo, si chiama Donzella. Grande organizzatore. Ma le apparenze contano poco, ormai. Un volontario che mi faceva da autista - è anche mio parente - si e' rivelato fine conoscitore dei migliori vini e dei migliori ristoranti».
L'Idv le e' piaciuta?
«Nel '99 giravo per le sedi del Pds, e incontravo quasi solo funzionarietti. Qui c'è al più una segretaria assunta e pagata per tenere aperta la sede. Qualcosa vorrà dire».

venerdì 12 giugno 2009

«Voglio andare in Europa per fare l’agit-prop»

Durante il riposo (ma quale riposo? Tra interviste e televisioni, sembra di stare ancora in campagna... ma bene così), vi lascio qui sul blog qualche frase rubatami dopo le votazioni. Qui sotto quella de Il Giornale, prima di sapere di essere uno dei sette Idv al Parlamento. Ora lo sono, e lo so. E dire che uno dei miei collaboratori mi aveva consigliato, quand'è partita l'avventura, di scrivere da subito una lettera per spiegare che nonostante la sconfitta (che tuttavia, alla fine, non c'è stata!), mi sarei impegnato a continuare la battaglia, ecc. Insomma, un modo per non cadere nelle grinfie della depressione o di un cattivo risultato personale o di partito. Beh, quella lettera non l'ho mai scritta, ma mi sono sempre ricordato di scriverla. E forse è servita, pur non scritta. Il difficile viene adesso...

«Voglio andare in Europa per fare l’agit-prop»
intervista di Luciano Gulli

A mezzogiorno in punto Gianni Vattimo, 73 anni, l’inventore del «pensiero debole» attraversò via Po e venne a sedersi a un tavolino all’aperto del caffè Fiorio, giusto dirimpetto alla sua grande casa nobile e vecchiotta (tre piani a piedi, però). «Scusi, le spiace?» aveva detto amabile, spostando di sedia il mio giacchetto. E si era seduto con le spalle rivolte alla strada, in modo da intercettare con lo sguardo i disillusi, i neghittosi, gli incerti, i ritardatari che transitavano sotto i portici, mesmerizzandoli. «La tecnica è guardare la gente negli occhi, fisso. Uno sguardo, il tuo sguardo che dice: sì, sono io, si ricordi di votare per me», mi aveva spiegato.
Il week end era stato un momento di grande goduria narcisistica e di voluttuosi adescamenti elettorali, per il filosofo che una volta diede del figlio di puttana e della cloaca umana a Cecchi Paone (rimediando una querela che gli costò diecimila euro) e di «picchiatori» ai tirapiedi del comunista Marco Rizzo (altra querela, altri cinquemila). Sabato Vattimo se ne era andato avanti e indietro per via Roma, piazza Castello, piazza Vittorio: quella che i torinesi chiamano «la passeggiata del re» perché sua maestà poteva concedersi ai suoi sudditi senza bagnarsi, in caso di maltempo. Pari avanti tutta, dunque, come un incrociatore da battaglia, avanti e indietro, sempre guardando la gente dritto negli occhi, come vuole la regola del candidato. E a chi lo salutava, riconoscendolo, non aveva mancato di ricordare, civettando: «Ha già fatto il suo dovere?».
In mattinata, prima di tornare a battere il marciapiede (nel senso buono, si capisce) Vattimo aveva fatto la sua visita di dovere al cimitero, dove riposano i due grandi amori della sua vita: Giampiero, morto di Aids a 42 anni, nel ’93, e Sergio, ucciso a 41 anni da un cancro ai polmoni nel 2003. Lui dice che la domenica va a coltivare il suo senso di colpa «per essere sopravvissuto». Poi però, dopo aver elaborato il lutto, il vedovo si è innamorato di nuovo. Prima di un cubista, Stefano, che ha 31 anni, e poi di un immigrato brasiliano, Luiz, un bel morettone che ne ha 28 e abita con lui. Certo, gli dissi: a 73 anni, certi ardori si saranno attenuati... «Be’, è seccante», aveva convenuto, «perché certe cose non si possono più fare, neanche con le iniezioni alla base del pube, come fa uno che so io...» Ma poi, aveva concesso, «in realtà mi accontento di far loro da papà. Mi prendo cura dei loro bisogni, mi fanno compagnia...».
Ecco. L’articolo è stato declinato al passato remoto, fin qui, perché stamani tutto questo, e il di più che andremo a raccontare, parrà una storia del passato. Stamani, la sola cosa che conterà è sapere se Gianni Vattimo tornerà a sedersi su uno scranno a Strasburgo, o se i trentacinquemila euro che ha sperperato correndo il Piemonte, la Lombardia, la Liguria e brandelli di Val d’Aosta, stancandosi come una bestia, saranno stati invano.Ora che le ombre della sera avvolgono la città, e il gran momento si avvicina gli domando: perché si ricandida? Bramosia di denaro? Ansia di visibilità? Voluttà di protagonismo? «L’aspetto esibizionistico certo conta - ammette -. Non ci si mette in politica solo per amore della causa. Quanto al denaro, la volta scorsa prendevo 9 mila euro netti. Ora sarebbero 7.500, più un portaborse pagato dal Parlamento europeo. Tanto che mi sono chiesto: ma ne vale la pena?».
Candidato per l’Italia dei valori di Di Pietro. Un «uomo di quart’ordine. Una barzelletta. La vergogna dell’Italia», per dirla con uno sdegnato Franco Zeffirelli. Vattimo non abbocca. Sorride. «Vado con Di Pietro per offrire un’alternativa, una via di scampo agli elettori di sinistra delusi dal Pd, che è tutto tranne che un partito di sinistra, e dagli altri comunisti, che non hanno spiegato alla gente perché si sono divisi. Se ci sarà una buona affermazione dei candidati di sinistra all’interno dell’Idv lavoreremo per fare del partito il nucleo della nuova opposizione di sinistra».
Se perde, pazienza. «Ci leggerò un segno della Provvidenza. Ogni tanto, del resto, mi dico: ma chi me lo fa fare? Chi me lo fa fare ad andare in Tv a discutere con Borghezio, il leghista, e la Santanchè, che è una al di sotto del bene e del male? Faccio la politica per dovere civico. Quand’anche mi paghassero molto, sarebbe sempre troppo poco per le umiliazioni cui mi devo sottoporre. Se mi votano, come Berlusconi potrò dire: sono sceso in politica», e accompagna il termine «sceso» con un gesto della mano che vuol dire: rasoterra. «Se non mi eleggono, pazienza. Peggio per loro».
La domenica del candidato Vattimo non è stata niente di speciale. Il cimitero, l’incontro col giornalista, due vasche in centro, ancora, fra i turisti e i suonatori di fisarmonica e flauto traverso che tendono le loro note ai viandanti in cambio di un obolo, tra lo Sfashion cafè ("bar italiano first in the world", dice l’insegna del locale di Piero Chiambretti) e la lapide, girato l’angolo, in via Carlo Alberto, dove abitò Nietzsche. Chiacchierando di Claudio Magris («il mio candidato al Nobel, visto che a me, troppo radicalmente antisistema non lo daranno») e di Umberto Eco («il monumento di se stesso, un trombone che io ammiro sfrenatamente. Ma pontifica con le sue bustine e i suoi articoli, da gatto prudente che amministra senza coinvolgersi pienamente la sua fama e il suo carisma»).
Nel 2004, reduce dalla clamorosa trombatura alle europee (correva per i Comunisti italiani) Vattimo si era consolato pensando a quale barba in fondo era sfuggito. «Ma che cavolo vado a fare, mi chiedevo ogni tanto. Un posto dove si discuteva dell’altezza dei parafanghi delle auto e della lunghezza dei porri, si figuri». Raccontò, quella volta, che al Parlamento aveva occupato un seggio tra Volcic e Veltroni. «Quando c’erano le votazioni davamo delle gran botte sul tavolo per svegliarci a vicenda», aggiunse. Dunque, perché riprovarci? «Perché voglio andare a fare l’agit prop, puntando a modificare l’istituzione rivendicando il diritto per il Parlamento di eleggere il presidente e i commissari».

sabato 6 giugno 2009

Eccoli



Direte, giustamente, "eccoli chi"?


Anche se non sono saliti alla ribalta della cronaca (almeno fino a questo post), si tratta delle persone che si sono spese per "creare", letteralmente, questa campagna elettorale.

Codazzo, staff, manifesti, furgoncino, manifestazioni, volantini e volantinaggi, viaggi, ufficio stampa, sito, blog e facebook. Sempre con me, obbligandomi (ma non esageriamo) a parlarvi, scrivervi, ecc.

Tutto - o quasi: articoli, risposte su internet, comizi e presentazioni del mio libro sono miei, ma anche qui, quando cause di forza maggiore, di solito i tempi, la Tv e le autostrade, mi hanno impedito di partecipare agli incontri in programma, qualcuno di loro ha dovuto sostituirmi in tutto e per tutto - è opera loro. Almeno so con chi prendermela se non sarò eletto...

Scherzo, ovviamente. Naturalmente non sono i soli: e anzi ringrazio tutte le persone dell'IdV, tutti gli amici, e tutti coloro che mi hanno sostenuto in questi giorni terribili.

Quelli che vedete nelle fotografie qui a fianco sono anche quelli che hanno dovuto sopportare le mie ire nei momenti più difficili, e vi assicuro che non dev'essere facile. In più, si tratta di persone convinte del progetto, con le quali ho discusso quotidianamente, persone insomma con idee, e il coraggio (dato il mio carattere!) di esprimerle, anche in caso di critica.

Nella fotografia in alto (uso l'ordine alfabetico), ecco immediatamente alla mia sinistra, con maglietta rossa (era il pranzo della giornata di manifestazione alla Fiat; con lui Stefano e Glauco, di cui sotto), Emanuele Antonelli, giovane filosofo di Torino, instancabile volantinatore, attacchino, e guidatore del pulmino elettorale.

Nella seconda fotografia, Mario Cedrini, economista, mio assistente a Torino nel mandato 1999-2004. Suggeritore e critico esigente, presentatore di libri (la foto si riferisce all'incontro di Pinerolo), attacchino, adora volantinare ai mercati e perdere tempo sul blog.

Al mio fianco il Primo maggio, ecco Stefano Cuteri (con gli occhiali scuri). Ci ha portato ovunque con la sua automobile, e qualche volta senza che nessuno glielo avesse chiesto (in campagna, si finisce spesso... in campagna, e cioè in luoghi sbagliati. Il navigatore ci ha salvati più di una volta). Instancabile.

Nella successiva fotografia, ecco Mario mentre attacca manifesti davanti all'Olivetti a Ivrea (so bene che il posto del manifesto non è quello giusto: nessuno ci quereli, è stato subito tolto e piazzato nel posto giusto. Ma la foto con il manifesto giusto è mossa), insieme a Peppino Iannantuono, mio assistente a Bruxelles durante il precedente mandato. Costretto dal lavoro a partecipare solo ad avventura iniziata, ha girato l'intera provincia di Torino sul veicolo con i miei faccioni.

Nello scatto del corteo, ecco Alberto Martinengo, alla mia destra. Anch'egli filosofo, ha fatto un po' di tutto. Sempre col sorriso sulle labbra, nonostante il compito (gravoso? Forse non è abbastanza) di coordinare, insieme a Mario, l'intero progetto.

E ancora, ecco Emiliano Morrone, l'agente di Roma. Nel senso che si è occupato delle altre due circoscrizioni nelle quali sono candidato, Centro e Sud. La Voce di Fiore, nel vero senso della parola.

Infine, Glauco Tiengo, filosofo e cantante, l'uomo-ufficio stampa, presentatore e diffusore del mio programma. Sempre presente, ha portato carichi (di volantini) persino superiori alle sue possibilità.


Ecco, ora sapete con chi avete avuto a che fare ai mercati, negli
incontri in giro per la circoscrizione, sulle autostrade, al telefono.

Per qualsiasi rimostranza, vi fornirò i recapiti...

Ormai sembrano pronti ad affrontare qualsiasi campagna elettorale si presenti: potrei fornirli davvero, i loro recapiti, ma non lo farò. Almeno per ora: sanno troppo.


Al di fuori degli scherzi e della retorica, tenuto conto delle condizioni di partenza, mi pare abbiano davvero dato vita a una squadra.
Spero vincente!


I più sentiti ringraziamenti, è ovvio ma non scontato, a tutti loro.




venerdì 5 giugno 2009

(Quasi) finita


Cari amici,

La campagna volge al termine. Dopo le ultime presentazioni del mio libro, a Torino e Milano, dopo gli ultimi appuntamenti, dopo gli ultimi mercati, sarò oggi a Milano (piazza Liberty, ore 17) per la chiusura della campagna, insieme ai candidati dell'Italia dei Valori della Circoscrizione Nord-Ovest.
Risponderò agli ultimi post di questo blog nelle prossime ore, per intanto ringrazio tutti voi per avermi scritto, letto, ecc. E ringrazio tutti coloro che hanno condiviso questo progetto, a partire dai miei collaboratori, per continuare con tutte le persone che ho incontrato in questi due, intensi, mesi. Continuate a scrivere anche in questi due giorni di voto e di tendenziale silenzio pubblico. E - mi raccomando - votate!
Un saluto a tutti voi,
Gianni

domenica 31 maggio 2009

L’Europa che ci attende

Lo so, è un post un po’ lungo. Ma di Europa, in campagna elettorale, si parla poco. E allora approfitto delle possibilità offerte dal blog per proporre qualche spunto di riflessione sul senso delle prossime elezioni. Chi ha più sentito parlare di Europa, negli ultimi cinque anni? Certo, tutti ricordiamo l’allargamento a 25 stati e le alterne vicende del trattato di Lisbona, nuovo accordo tra gli stati dell’Unione che anziché sostituire, integrando e comprendendo, il Trattato di Maastricht (che istituì l’Unione, nel 1992), quello di Roma (che istituì la Cee, nel lontano 1957) e la Carta europea dei diritti fondamentali (la Carta di Nizza, del 2000), si affianca ai predecessori complicando ulteriormente la struttura costituzionale europea. Una tappa storica, di quelle che verranno ricordate dagli studenti dei corsi di relazioni internazionali e integrazione europea, come l’Atto Unico del 1987, il completamento del mercato unico nel 1992, e i trattati appena ricordati qui sopra. Con le nuove elezioni del Parlamento europeo, ecco le solite discussioni sulla scarsa presenza dei temi europei nella campagna elettorale, sullo stipendio dei parlamentari, sull’assenteismo dei nostri rappresentanti. Oltre, come sempre, non si va. Ed è un peccato, alla luce della continua, allarmante riduzione del dibattito democratico nel nostro parlamento nazionale – prova ne è il continuo, vergognoso attacco portato da Berlusconi, che naturalmente, e purtroppo, raccoglie consenso tra gli Italiani esausti dei costi della politica. Che il Parlamento italiano sia divenuto, volente o nolente, poco più di una cassa di risonanza del premier, aiutato in ciò dai media televisivi, è appunto un’occasione formidabile per il Parlamento europeo, chiamato ora più che mai ad aiutare l’Italia a riprendersi dal torpore tendenzialmente autoritario nel quale versiamo.

Già, ma è risaputo – forse – che il Parlamento europeo “conta” poco, tutto sembra in mano alla Commissione (l’artefice del mercato unico) e al Consiglio, composto dai governi degli stati nazionali). Anche se in Europa la suddivisione dei tre poteri è meno netta, rispetto alla situazione degli stati nazionali (la Commissione è il potere esecutivo, ma possiede poteri di iniziativa legislativa; il Consiglio e il Parlamento, dunque non solo quest’ultimo, sono il potere legislativo), è chiaro che il Parlamento è l’anello debole della catena legislativa europea. E allora forse si spiega almeno in parte perché del Parlamento europeo si parli così poco, sui giornali e nei programmi televisivi italiani. Eppure quando sono stato parlamentare europeo, tra il 1999 e il 2004, di Europa si parlava eccome. Forse perché eravamo ancora prede della sbornia seguita alla costituzione dell’Unione Europea, all’ingresso faticoso dell’Italia nell’Europa di Maastricht, poi all’entrata in vigore dell’euro e alla creazione di una convenzione, quella che poi avrebbe scritto l’avveniristica (almeno inizialmente) Carta europea dei diritti fondamentali, che sembrava rappresentare le migliori speranze del continente. In negativo, l’Europa faceva capolino sui media italiani all’epoca del semestre di presidenza italiana con lo scontro tra Berlusconi e Schulz e la consegna ai parlamentari europei, da parte mia, di un opuscolo a firma di Marco Travaglio, tradotto in cinque lingue, illustrativo della figura del nostro presidente del consiglio. E ancora, con la scoperta del sistema Echelon (ho fatto parte della commissione d’inchiesta), una vera e propria struttura di spionaggio messa in atto dagli Stati Uniti e dalla stessa Inghilterra, con Canada, Australia e Nuova Zelanda; e con il dibattito sulle radici cristiane dell’Europa. Ma il clima, in generale, pareva diverso: per continuare con gli esempi legati alla mia persona, il 31 maggio 2003 (finivano in quei giorni i lavori della Convenzione) avevo promosso un’iniziativa che coinvolgeva alcuni intellettuali europei (Habermas, Derrida, Eco, Savater, Muschg e Rorty), tutti disposti a pubblicare – io scrissi su La Stampa un articolo dal titolo “Casa Europa” – un saggio sul futuro dell’integrazione europea, ciascuno su un importante quotidiano nazionale europeo.
Per quali motivi, oltre a quelli appena ricordati, negli ultimi cinque anni l’Europa, e con essa il suo parlamento, si sono allontanati dall’opinione pubblica italiana? Credo che una delle ragioni, non l’ultima, abbia a che fare con la qualità, per così dire, dei nostri rappresentanti. Prendiamo la squadra dei DS ai tempi del mio mandato, e lasciamo perdere la mia persona – anche se, dato che si trattava del mio primo impegno politico “istituzionale”, la mia candidatura era effettivamente espressione della cosiddetta società civile, che non a caso ritorna nelle parole usate da Di Pietro in questa campagna –: in quella squadra comparivano Giorgio Ruffolo, padre della programmazione economica italiana nel dopoguerra e fine intellettuale libero dai pregiudizi del pensiero unico economicistico, presidente della commissione Cultura al Parlamento europeo; Elena Paciotti, in precedenza presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, componente, come me, della commissione Giustizia e Affari Interni al Parlamento europeo; Giorgio Napolitano, presidente dell’importante commissione Affari Costituzionali del Parlamento. Persone che certo non possono essere chiamate in causa quando si parla del Parlamento europeo come pensionato dei politici italiani o raccoglitore dei nani e delle ballerine che affollano la società mediatica del nostro paese. Persone, soprattutto, con le quali ho condiviso un itinerario in Europa, e dalle quali ho imparato quasi tutto quello che so in merito ai compiti di un parlamentare europeo. Persone, infine, il cui lascito non è stato raccolto, penso, dai loro successori nei cinque anni seguenti. Gli stessi incarichi ricoperti dai miei compagni di avventura in quei cinque anni segnalano la presenza di un vero e proprio progetto politico, culturale e sociale.
Credo si possa affermare che proprio questa dimensione progettuale sia venuta meno (non solo mediaticamente) nel corso degli anni, e che al contrario chi si candida oggi al Parlamento debba incaricarsi di recuperarla, per il bene dell’Europa e dell’Italia con essa. Alla domanda di un conduttore televisivo, “Qual è l’Europa dei sogni di Gianni Vattimo?”, ho risposto, senza troppe esitazioni, “Un’Europa che non debba vergognarsi dell’Italia”. Ma come, mi si obietterà: non si tratta della solita svalutazione dei temi europei a vantaggio dell’interesse nazionale? Proverò ad argomentare che non è questa l’interpretazione corretta, e che anzi in quella frase si cela appunto quella dimensione progettuale di cui ho appena scritto. Un’Europa che non debba vergognarsi dell’Italia è un’Europa che aiuta l’Italia a tornare (non si può più dire “rimanere”, purtroppo) in essa. È cioè un’Europa che sprona – al limite costringe – l’Italia ad adottare una legge seria sul conflitto d’interessi, una legge equa e solidaristica sull’immigrazione, una legislazione “europea”, appunto, in tema di giustizia (processi più rapidi, certezza della pena, depenalizzazione dei reati che reati non sono – penso all’uso di determinate sostanze stupefacenti, ad esempio, o allo stesso, barbaro, reato di clandestinità – e al contrario severità nei confronti di coloro che alimentano conflitti sociali per fini di profitto – le mafie che controllano il mercato della droga, per continuare con gli stessi esempi, e quello della stessa immigrazione clandestina), una legislazione sociale al passo coi tempi e soprattutto con i più deboli (precari, disoccupati, morti sul lavoro), una legislazione libertaria in materia di diritti civili (io stesso sono uno dei 9 – ! – candidati Glbt alle elezioni europee), una legislazione meno (o non) vaticanesca in tema di ricerca scientifica, una politica universitaria che sconfessi in tutto e per tutto la sciagurata riforma del nostro governo, una politica ambientale contraria a quella seguita dall’esecutivo italiano, difensore dei soli interessi industriali (non tutti, solo quelli amici), ecc. Potrei continuare per quasi tutte le materie di dominio ancora riservato, purtroppo, degli stati nazionali, che nel nostro caso è un dominio riservato a una sola persona.
In fondo, se ci si stupisce del fatto che una percentuale sempre crescente (e maggioritaria) della legislazione italiana proviene dall’Europa, è perché, fortunatamente per noi, l’Europa si basa sul principio delle migliori prassi, che va interamente a nostro vantaggio. I problemi rimangono dal lato della traduzione delle direttive europee in linguaggio legislativo italiano e della loro applicazione, nonché nella possibilità che il nostro governo conserva di eludere quegli stessi principi in molte delle materie che non fanno parte della costruzione economica dell’Europa. Quando mi chiedono “perché con Di Pietro”, rispondo osservando che il programma della lista nella quale sono candidato è ispirato a un principio di base: il rispetto e la difesa della costituzione. Aggiungo che se davvero riuscissimo a impegnarci in tal senso, suscitando il consenso degli Italiani su questo programma, ci trasformeremmo in una repubblica di stampo (ideale) socialista: Berlusconi ricorda che la Costituzione è stata scritta dai comunisti e dai cattolici di sinistra, cui vanno però affiancati i liberali (ma Berlusconi non lo ricorderà mai), gli azionisti, e così via, le parti migliori della società italiana finalmente libera dal fascismo. Calamandrei ha sempre sostenuto che si tratta di una costituzione decisamente avanzata, forse la più progressista tra quelle del continente europeo. Una costituzione calpestata, soprattutto nella sua ispirazione di fondo, da un’evoluzione politica inimmaginabile, fino a pochi anni fa. Un’Europa che non si vergogni dell’Italia è ovviamente un’Europa contenta di averci con sé; di osservare che abbiamo tenuto fede agli ideali di cui erano portatori quei militanti federalisti (Spinelli in primis) che scrissero, in quegli stessi tempi nei quali l’Italia migliore cominciava a immaginare un futuro antifascista, un programma di pace e integrazione che faremmo bene a rileggere oggi. Un’Europa, potremmo spingerci a dire, che guarda all’Italia come a una sua avanguardia – ciò che nel passato è stata, al contrario di oggi, almeno in alcuni periodi.

Ma l’Europa ci aiuterà a conseguire questo risultato? Dipende dal contributo che l’Italia saprà dare in tal senso. L’Europa non è un paradiso, non è una panacea. L’Italia e l’Europa hanno in fondo un destino comune: indietreggiano e avanzano insieme (si ricordi la presidenza Malfatti, o il semestre italiano del 2003). Né la prima (come potremmo sostenerlo?) né la seconda (per ora) sono “un modello per il mondo” – come invece sosteneva, con riferimento all’Europa, la parlamentare europea che mi è succeduta. Legittimamente, l’Europa è indicata come esempio di modello sociale di successo, ancora fortunatamente lontano dall’American way of life applicato alle relazioni sociali. Concertazione, attenzione per le esigenze del mondo del lavoro oltre che dei datori di lavoro, sensibilità per la responsabilità sociale delle imprese, e via discorrendo. Tutto bene; ma invocare il modello sociale europeo come modello per il mondo diverrà sempre più difficile se:

- continueremo a spingere, contro la nostra stessa tradizione, per politiche dell’offerta (imprenditoriale) anziché della domanda (o keynesiane, se volete), se cioè nel seguire la Germania comprimeremo sempre più costi e salari a vantaggio delle industrie esportatrici e a danno della domanda interna;

- se continueremo ad accordare un vantaggio competitivo, per così dire, ai grandi gruppi di pressione industriali (primo fra tutti la European Round Table of Industrialists, ERT, che comprende una cinquantina tra le maggiori corporations che operano in Europa come Fiat e Pirelli, Nokia e Samsung, Nestlé, e via dicendo, e cioè i principali sponsor del completamento del mercato unico europeo nei primi anni Novanta), sui gruppi portatori di interessi non direttamente connessi con la produzione di ricchezza: tra questi i sindacati, il cui potere è di fatto consultivo (contro un potere tacito d’iniziativa legislativa concesso all’ERT), e tutte quelle associazioni (sociali, ambientalistiche, ecc.) che di solito l’Europa nomina per veicolare l’immagine di un pluralismo nella rappresentazione degli interessi;

- se rifiuteremo di prendere coscienza del fatto che il mondo è cambiato, e che la presenza sulla scena globale di attori nuovi, dalla Cina all’India, al Brasile e la Russia, dal Sud Est Asiatico ad alcuni paesi africani, comporta cambiamenti anche nella percezione del nostro modello sociale. È davvero ancora possibile parlare di modello sociale europeo se poi (lo stesso dicasi per le politiche d’immigrazione degli stati membri) nel mondo, il nostro modello di relazioni internazionali ha un’impostazione simile a quella americana? Dov’è finita la nostra solidarietà nei confronti dei paesi un tempo colonizzati (i paesi ACP, Africa-Caraibi-Pacifico)? Nel perseguire altre strade rispetto a quelle tradizionalmente battute dagli Stati Uniti, l’America Latina è oggi anch’essa un nuovo “modello” di convivenza solidaristica, (pur con una serie di limiti) che occorrerebbe studiare seriamente, e al quale un’Europa progressista potrebbe guardare senza lo sguardo economistico che spesso utilizza al di fuori dei suoi confini.

- se continueremo ad adottare politiche tipiche dei paesi in via di sviluppo, che hanno molte più ragioni di noi di comportarsi in tal modo, in un mondo nel quale i paesi in via di sviluppo esistono eccome, e lottano per integrarsi nell’economia globale. Gli squilibri internazionali, con tutto ciò che ne consegue per un mondo colpito dalla crisi finanziaria americana, non si devono esclusivamente all’equilibrio del terrore Usa-Cina, o alla difficile tenuta di un sistema nel quale gli Stati Uniti scambiano il proprio sovraconsumo con la possibilità offerta al Sud Est Asiatico di crescere per tramite delle esportazioni verso i mercati americani. L’Europa ha delle responsabilità, quelle appunto di non essersi fatta carico, insieme agli Stati Uniti, di una parte della domanda mondiale, e di essere ancorata a principi economici di dubbia utilità, quali quelli monetaristi, in un’epoca di recessione.
- se non ci daremo da fare, per primi o con i primi, per una svolta decisa del nostro modello economico in favore delle energie rinnovabili e contro la privatizzazione dei beni essenziali; se continueremo a guardare con occhi nazionali l’evoluzione del sistema Fiat senza cogliere le tendenze in atto (i processi di razionalizzazione, nel sistema capitalistico, avvengono necessariamente per tramite della compressione dei costi e dunque dell’occupazione; tanto più in un mondo nel quale la capacità produttiva di automobili è già superiore alla domanda potenziale globale). Se, in termini più generali, non concederemo ai paesi in via di sviluppo la possibilità di sfruttare i vantaggi competitivi di cui godrebbero nei settori dell’agricoltura e delle costruzioni, per non citare che i maggiori, qualora l’Europa smettesse di appoggiare il protezionismo nascosto degli Stati Uniti.

- se, infine, prevarranno le vecchie logiche, quelle che in positivo ci hanno condotto al completamento del mercato unico, e che in negativo perdurano tuttora, conducendo le politiche europee all’ossequio (unico) verso il criterio della competitività e dell’interesse finanziario – degli azionisti delle imprese – anziché reale, di creazione di ricchezza effettiva. Se cioè prevarrà il benchmarking, anziché le migliori prassi.

Certo, l’Europa è in molti sensi un’avanguardia, rispetto ai suoi stati membri; anche laddove – negli altri stati – questa caratteristica non le deriva principalmente dal retrocedere delle garanzie democratiche nazionali. Lo slogan del Gay Pride, “in Europa è diverso”, è illuminante. L’ultima ruota del carro europeo, e cioè il Parlamento, è un modello pressoché irraggiungibile dal suo omologo italiano: questo l’effetto del regime berlusconiano, ostacolato con debolezza dal principale partito di opposizione, il Pd. I tempi dei girotondi appaiono lontani e attuali al tempo stesso. Le tendenze autoritarie di stati nazionali come il nostro compaiono tra i motivi più rilevanti che spiegano lo stallo europeo. In sostanza, è un circolo vizioso: l’Europa non riesce, per ora, a salvare l’Italia, e l’Italia non contribuisce al progresso europeo. Perché l’Europa riesca a redimerci, è necessario ampliare la dotazione di risorse a disposizione delle autorità sovranazionali – l’annosa, e vergognosa, questione di un bilancio comunitario al quale gli stati membri rifiutano contributi di peso – e velocizzare il processo di democratizzazione delle istituzioni. Ma allora il salvataggio dell’Italia è anche tra i fattori che possono contribuire al rilancio europeo: è per tramite di un’Europa più “pesante”, in termini di potere decisionale e capacità di farsi sentire sui cittadini degli stati membri (tra gli esempi più e meno banali al contempo, il programma Erasmus) che l’Europa salverà l’Italia, e potrà al contempo, e finalmente, realizzare i sogni dei primi federalisti. Di qui l’importanza del Parlamento europeo, oltre che dell’Europa tutta.

Un candidato al Parlamento europeo potrebbe elencare una serie di provvedimenti che, se eletto, si sforzerà di far passare. Ma sarebbe inutile. Il potere di iniziativa legislativa, come detto (e nonostante i passi avanti compiuti sulla strada della codecisione), è di fatto concesso alla Commissione e al Consiglio. Per questo, e per le traiettorie storiche compiute dal Parlamento europeo (che nei primi anni di elezione democratica, dal 1979 in avanti, non si divideva tra destra e sinistra ma tra europeisti e non), è necessario che i candidati si facciano portatori di un progetto, la cui realizzazione dipenda certo, ma non in modo esclusivo, dai singoli rapporti che ciascuno di essi sarà chiamato a redigere sulla base delle proposte della Commissione. Vent’anni fa, un discorso di questo tipo non sarebbe stato ascoltato da nessuno, perché dato ampiamente per scontato. Oggi, l’Europa è invece vista come terreno di scontro tra interessi nazionali, e tra interessi subnazionali, e il compito dei parlamentari europei consisterebbe esclusivamente nella difesa degli uni o degli altri. Io la penso diversamente. In Europa è diverso, si può (deve) elaborare una dimensione progettuale.

L’Europa che ci attende è un’Europa in balia degli eventi internazionali. Un’Europa impreparata, che segue, ma non partecipa. Non partecipa alla correzione degli squilibri globali, alle istanze di rinnovamento provenienti dagli Stati Uniti, a quelle di cambiamento provenienti dall’America Latina. Non sembra in grado di partecipare, più in generale, all’eventuale costituzione di un nuovo ordine globale, imperniato sul criterio di libertà anziché sulla disciplina. Un ordine cioè più vicino al compianto sistema di Bretton Woods che all’insensato suo successore, il “nonsistema” nato negli anni Settanta, poi attraversato dalla parabola del Washington Consensus per finire nella crisi attuale, che giunge paradossalmente al culmine di un processo di crescita sostenuto da quegli stessi squilibri di cui ora ci lamentiamo. Un nonsistema fondato sulla teoria dei mercati efficienti, sull’ennesima legge presuntamente naturale del mercato, che solo un uomo filosoficamente impoverito può porre alla base del suo agire, come se fosse venuto al mondo per rispettare ordini “naturali” anziché per realizzare forme di convivenza via via più sostenibili. Sarà difficile, spero impossibile, continuare a ragionare sulle politiche europee senza porsi il problema di definire un nuovo ordine, che ripudi la disciplina (politica ed economica) degli anni Novanta – le disastrose condizionalità del Fondo Monetario Internazionale – e dei primi anni del nuovo secolo – la campagna irachena del presidente americano e dei suoi seguaci –, e ponga nuovamente la libertà di scelta di ciascun paese del mondo di definire la propria via allo sviluppo come sua regola di fondo. L’Europa che ci attende è allora anche, e soprattutto, un’Europa che trasferisce sul piano delle relazioni internazionali i criteri solidaristici che ha introdotto al suo interno. Senza un nuovo ordine economico internazionale, l’Europa continuerà a giocare il gioco a somma zero che ha praticato negli ultimi anni, con buona pace, per altro, dei propositi ambientalisti, sacrificati sull’altare di una competitività internazionale ottenuta riducendo i costi di produzione.

Ho invocato più volte, in passato, i parametri di Maastricht per proporre una loro applicazione in altri ambiti, quali ad esempio quello dei diritti civili (stabilire cioè dei criteri minimi, e possibilmente più che minimi, per essere stati europei: unioni civili, parità completa, e così via) e della ricerca scientifica (veri e propri parametri per stabilire se le diverse università europee rispettano criteri di merito, di pubblica utilità, di valore della formazione offerta). Certo, mi si può obiettare che il modello di Maastricht è un modello disciplinare: se i paesi non rispettano le regole del rapporto debito/PIL e deficit/PIL, saranno raggiunti da un “early warning” della Commissione, che alla lunga si trasformerà in vere e proprie sanzioni. Ma il limite del modello di Maastricht esistente – il Patto di crescita e stabilità si fonda su quei parametri – risiede non tanto nel suo essere statico anziché dinamico, quanto nello scarso contenuto di libertà (troppa stabilità e poca crescita) previsto. Se alla disciplina di Maastricht, necessaria ad armonizzare le politiche economiche europee, si affiancassero strumenti europei, appunto (ripetiamolo, il bilancio comunitario), per dotare il continente di strategie di crescita, di uscita dalla crisi, di crescita sostenibile, ecc., quei parametri godrebbero di stima diversa. Una Maastricht dei diritti, che presti ascolto al frutto più maturo e migliore del messaggio cristiano, quella della laicità, diverrebbe di per sé uno strumento di libertà, poiché sanzionerebbe le violazioni delle libertà dei cittadini degli stati membri, limitate da politiche reazionarie come quelle purtroppo seguite in Italia in merito ai temi della ricerca scientifica, degli orientamenti sessuali, della libertà (appunto) d’informazione, ecc. Una regolamentazione intelligente non si fonda sulle sanzioni disciplinari, quanto sulla libertà che per tramite di quella regola è possibile assicurare ai suoi destinatari.
Qualche anno fa, in un articolo che ha poi dato il titolo a un volume sull’Europa, argomentavo in favore di un processo d’integrazione continentale che recuperasse una visione della politica come grande impresa etica di promozione umana. Continuo a pensarla così: l’Europa è fortunatamente un ordine artificiale, con tutto il positivo che ne consegue (nasce non con la guerra ma con la pace, progredisce promuovendo le migliori prassi, ecc.); un ordine antinaturale, per così dire. È un modello di discussione libera ed argomentata, che ha lo scopo non di raggiungere una dimostrazione definitivamente fondata, ma di stabilire un accordo rivedibile, certo, che però impegna i contraenti (gli stati nazionali, noi cittadini) in modo ben più serio di quanto farebbero le leggi “naturali”. Ancora oggi, come allora (scrivevo nel 2002), un programma di sinistra può e deve identificarsi come programma dell’integrazione europea. Le condizioni indispensabili della libertà – sicurezza, giustizia e sua efficacia, qualità della vita sociale, sostenibilità ambientale – si possono dare, in Europa, solo all’interno di un’integrazione più decisa. Parlando di relazioni internazionali, quelle stesse condizioni di libertà saranno difese solo da un’Europa che sappia immaginare un programma di riduzione delle proprie pretese (protezionismo contro i paesi emergenti, ad esempio) a vantaggio di un futuro più pacifico, e dunque delle proprie condizioni economiche e sociali di sopravvivenza.

Concludo: l’Europa che ci attende è, in tutti i sensi, un’Europa che non ci attende. Non aspetterà che il regime italiano si “normalizzi”, trasformandosi definitivamente nel dominio esclusivo del premier per poi aiutare il nostro paese a risalire dopo aver toccato il fondo. Dobbiamo muoverci subito, proponendo all’Europa quello scatto in avanti nel processo d’integrazione che costituisce il nostro unico strumento di salvezza, strumento del quale in Italia non riusciamo a trovare un sostituto. Mai come ora, abbiamo bisogno dell’Unione europea, nella speranza che ciò che riusciremo a fare, a Strasburgo, per approfondire la democrazia europea, divenga per l’Italia quel tanto di “sovversivismo democratico” che in patria fatichiamo a stimolare.

Risposta giovane all’astensionismo

In questi giorni di giri per mercati, mi accorgo che l’astensionismo è probabilmente persino più elevato di quanto non vogliano farci credere sondaggi, statistiche e conta stessa dei voti. Che ci si presenti con le tipiche frasi, “Sono Gianni Vattimo, candidato per l’Italia dei Valori al Parlamento europeo”, o che s’interpelli il potenziale elettore con il più aggressivo: “Vogliamo cacciare Berlusconi dall’Italia e dall’Europa?”, la reazione è spesso di totale indifferenza, quando non di fastidio. In quest’ultimo caso, l’elettore spiega di non poterne più, di quei soliti politici che promettono ma non fanno nulla, che sono lì solo per intascare, che sono tutti uguali; quei politici che “ho votato per trent’anni, e nulla è cambiato”. Certo, è vero che nel tentare di passare oltre e non essere disturbati, gli elettori spesso finiscono comunque per guardare il santino, e vedono il simbolo dell’Italia dei Valori. Un barlume di speranza improvvisamente s’accende e l’elettore si ferma, per prendere il santino e magari spendere qualche parola col candidato. Come se Di Pietro facesse breccia – e ciò è un bene di per sé, al di là della preferenza per quel partito – tra elettori stanchi e delusi.
Ma la sensazione di sconforto resta. E allora cosa? Quando osservo i giovani che distribuiscono la mia faccia ai mercati insieme a me, mi capita di pensare che in fondo una risposta all’astensionismo c’è, seppure debole (ma fino a che punto? Forse è meno debole di quanto si pensi). L’elettore, come detto, urla la sua protesta: li ho votati per trent’anni, e non è successo nulla. Già, ma i giovani possono rispondere: “E io?”. Loro non possono dire altrettanto. Non hanno votato “inutilmente” per trent’anni: devono necessariamente trovare una risposta diversa. Quando i giovani rispondono “e io?”, l’elettore si ferma forse imbarazzato, giustificando la rassegnazione: “ne ho viste più di te”, ecc. Ma il giovane non può che ribattere, “io ci sto provando. In gioco c’è il mio futuro, oltre al vostro”. L’elettore tenta allora di spostare l’oggetto: “infatti, siete voi che dovete cambiare le cose”. Sì, risponde il giovane, ma se non riesco a coinvolgere le persone che votano da trent’anni, non potrò mai cambiare nulla, né spingere i giovani astensionisti a ripensare all’occasione perduta: molti di loro, lo dico per esperienza personale (avendo osservato come i ragazzi che sostengono la mia candidatura tentino di persuadere i loro coetanei astensionisti a votare), non attendono altro che un altro giovane disposto a discutere, faccia contro faccia, le ragioni della sua passione politica. I “vecchi” elettori tornano allora con la mente a quando stavano dall’altra parte. E magari ripensano a quanto appena detto. Se anche non è cambiato nulla per loro (ma è poi vero?), questo non è un buon motivo per spegnere le speranze dei giovani.