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martedì 5 febbraio 2013

Eco è sempre Eco

31/01/2013, L'Espresso
di Gianni Vattimo

Due fasi nel pensiero del grande intellettuale? No. Leggendo la raccolta degli "Scritti sul pensiero medievale", dice il filosofo, si nota la coerenza del metodo. Tomista.



Dovremo dunque riconoscere che c'è un primo Eco e un secondo Eco, così come si parla comunemente di un primo e secondo Heidegger o di un primo e secondo Wittgenstein? Una questione rilevante, perché è certo che uno degli elementi che tengono viva la ricerca su un autore, e dunque la fortuna delle sue idee, oltre alla mole del suo eventuale "Nachlass" di inediti da scoprire decifrare, pubblicare (Nietzsche, Benjamin come sommi esempi), è anche la questione dell'eventuale evoluzione o trasformazione interna del suo pensiero, con tutti i risvolti biografici e storico-generali (qui soprattutto Heidegger: il secondo Heidegger è nato con la scelta nazista?).


A tutte le ragioni della già stragrande popolarità di Eco se ne aggiunge dunque una che finora non era apparsa, e ciò accade principalmente con la pubblicazione, nella collana Bompiani del Pensiero occidentale diretta da Giovanni Reale, dei suoi "Scritti sul pensiero medievale". Sono 1.332 pagine di testi che, partendo dalla tesi di laurea (uscita nel 1956) su "Il problema estetico in Tommaso d'Aquino" (discussa a Torino sotto la guida di Luigi Pareyson) e fino alla "Intervista (immaginaria) a Tommaso d'Aquino" per il "Corriere della Sera", (2010) includono tutto (o solo probabilmente tutto) l'Eco medievalista, costituendo una sorpresa non solo per i lettori dei suoi scritti più recenti (filosofia, semiotica, romanzi, giornali, enciclopedie e storie della cultura) ma anche per coloro che lo hanno seguito fin dagli inizi della sua carriera di pensatore. (Sia detto tra parentesi, chi scrive fu uno dei primi recensori del libro su San Tommaso e degli studi sull'Estetica medievale negli anni Cinquanta del secolo-millennio scorso. "Quantum mutatus ab illo", dice Enea a Ettore nell'Eneide).

mercoledì 20 giugno 2012

"Il pensiero debole è ancora forte" (Pier Aldo Rovatti)

La Repubblica, 16 giugno 2012

Pier Aldo Rovatti
Non possiamo far finta che non si stia combattendo un sintomatico conflitto di idee. Esso esisteva ancor prima che venisse alla superficie attraverso articoli, saggi e libri. Con il Manifesto del nuovo realismo (Laterza) Maurizio Ferraris ha il merito di averlo fatto emergere e di avere surriscaldato la scena. Umberto Eco, nel suo intervento intitolato Di un realismo negativo (in “alfabeta2”, n. 17, e su questo stesso giornale), ha stemperato i toni. Gianni Vattimo, pubblicando (da Garzanti) Della realtà, cioè quello che ha detto e scritto nell’ultimo decennio, ha documentato la propria dissidenza filosofica con la consueta chiarezza, ed è a partire da questo libro che vorrei esprimere alcune mie considerazioni.
Lascio perdere le punte polemiche (per esempio, Vattimo che pubblica sul manifesto una lettera a Eco, e Ferraris che gli risponde contestualmente, come a dire «se vuoi parlare con me, fallo direttamente»). E vengo subito al conflitto delle idee: in gioco mi pare soprattutto la domanda «dove sta andando la filosofia?» e, più precisamente, «che fine stanno facendo il “sociale” e il “politico” in questa svolta di pensiero? ». Nessuno dei contendenti si sogna di dichiararsi “contro il realismo”: da una parte, però, si propone di salvare il nocciolo “ontologico” della questione sbarazzandosi di tutto quanto è avvenuto dal ’68 a oggi, dall’altra si valuta con preoccupazione quel che si perderebbe procedendo così.
A detta di Vattimo si rinuncerebbe al potenziale di trasformazione che la filosofia può ancora avere e che anzi, proprio adesso, in tempi in cui la crisi tende a comprimere anche gli spazi di pensiero, dovremmo cercare di attivare e valorizzare. Il suo punto di vista è netto: per lui rischiamo di ingabbiarci in un atteggiamento ultraconservativo dal sapore accademico, se togliamo alla filosofia quel mandato sociale e politico costruito in decenni di lavoro ermeneutico e fenomenologico, attraverso la rilettura critica di Nietzsche e di Heidegger, gli apporti mutuati dalla microfisica del potere di Foucault e dal decostruzionismo di Derrida, senza dimenticare il ruolo non marginale giocato da Benjamin. Tutto questo percorso – che ora si vorrebbe devitalizzare (omologandolo in un generico postmodernismo) – conduce secondo Vattimo proprio a una descrizione critica della “realtà”, nella sua complessità ma soprattutto nei suoi dispositivi oggettivanti e che limitano la libertà dei soggetti in quanto cittadini in lotta per i loro diritti.
 
Umberto Eco
Come è noto, anche se non mi sono mai del tutto identificato filosoficamente con Vattimo (per formazione e scelte specifiche), ne condivido nella sostanza l’impianto (cfr. in Della realtà soprattutto le “Lezioni di Glasgow” del 2010): è una posizione che permette, nell’attuale conflitto di idee, di vedere bene i rischi del disboscamento in atto e soprattutto di illuminare il tratto più sorprendente di questa “pulizia” culturale, e cioè la rimozione della soggettività. Sembra infatti che il realismo ora rilanciato voglia e possa fare a meno della soggettività, quasi fosse inglobata o sottintesa e non una questione aperta e cruciale. Un realismo senza soggetto, per dir così, chiude o comunque squalifica come irrilevanti i problemi che, secondo Vattimo (e secondo me), dovrebbero invece essere considerati vitali per il discorso filosofico: quelli, per esempio, dell’identità e dell’alterità e di cosa può significare oggi socializzazione o legame sociale; oppure quelli della prossimità e della distanza e di cosa, appunto, può voler dire “soggetto” nel momento in cui è chiaro che nessuno può essere più padrone a casa propria e che l’idea di individuo neoliberale sembra ormai andare in frantumi.
Ipotizzo che Vattimo si sia rivolto a Eco (nella lettera che ho sopra ricordato) perché gli attribuisce una sensibilità sull’intera questione, nonostante il fatto che Eco appaia schierato nel campo avverso. Una sensibilità innanzi tutto “storica”: una cautela nel buttar via il bambino con l’acqua sporca, salviamo almeno l’insegnamento in fatto di “ironia” che ci arriva da quella stagione che ora vorremmo frettolosamente cancellare. E poi una sensibilità verso un “realismo minimo”, inteso come un limite «che non ci garantisce che noi possiamo domani possedere la verità».
 
Maurizio Ferraris
Ecco gli ulteriori e imprescindibili fronti della battaglia in corso, molto evidenti nel libro di Vattimo: la storia e la verità. Storia significa provenienza, genealogia, processo sociale attraverso cui si forma la coscienza politica del presente e al di fuori del quale la parola “critica” e anche la stessa parola illuminismo (invocata da Ferraris) rischiano di restare parole senza spessore. “Verità” (con le virgolette!) vuol dire appunto negazione della pretesa di possedere una volta per tutte la verità (senza virgolette). Le due questioni sono ovviamente intrecciate: per combattere le pretese di chi ha creduto o ancora crede di avere in mano la verità, occorre che gli “eventi” vengano ogni volta attraversati dalla storicità e che i soggetti storici ne siano i responsabili effettivi, concreti, politici: tutti i soggetti, non solo quei supposti “funzionari dell’umanità” che chiamiamo filosofi.
Vattimo ha costantemente combattuto questa battaglia e continua a farlo anche in Della realtà. Qualcuno ritiene che sia ormai passato il suo tempo. A me pare lampante che la sostanza del suo programma filosofico sia ancora incisiva, oggi – forse – ancora più di ieri.

venerdì 20 aprile 2012

Da Bush a Monti: fatti o interpretazioni?


Da Bush a Monti: fatti o interpretazioni?
«Alias-D» dell’1 aprile recensiva il libro di Maurizio Ferraris «Manifesto del nuovo realismo» (Laterza), contro gli effetti ubriacanti del pensiero debole e postmoderno. A Ferraris, che propugna un ritorno filosofico (e politico) al mondo dei «fatti», replica qui Gianni Vattimo, con una «lettera aperta» a Umberto Eco, suo interlocutore ideale. Gli risponde Ferraris.

Il Manifesto, 8 aprile 2012

Il ritorno della realtà come ritorno all’ordine – Gianni Vattimo

Caro Umberto, vorrei entrare subito in medias res (ahi!, le cose stesse!) per discutere il tuo saggio sul «realismo negativo». Due cose preliminari. Primo: davvero qualcuno dei nuovi realisti pensa che un postmoderno utilizzi un cacciavite per pulirsi un orecchio o il tavolo su cui scrive per viaggiare da Milano ad Agognate? Spesso gli esempi paradossali finiscono per essere presi troppo sul serio, e diventano caricature delle quali sarebbe meglio sbarazzarsi. Secondo: ricordi Proudhon? In una estate di molti anni fa, nel deserto di temi con cui riempire i giornali, qualcuno tirò fuori Proudhon del tutto a freddo, aprendo un dibattito inconcludente che si trascinò per un po’ e poi svanì nel nulla. Il nuovo realismo mi sembra un fenomeno del tutto simile, anche se minaccia di durare più a lungo, per ragioni che hanno probabilmente da fare con il generale clima di «ritorno all’ordine» di cui è massima espressione il governo dei «tecnici».

Quali sono le ragioni del «ritorno della realtà» contro la «sbornia post-modernista»? A chi importa «tornare alla realtà» e respingere la tesi di Nietzsche secondo cui «non ci sono fatti, solo interpretazioni, e anche questa è un’interpretazione»? Certo, tu risponderai subito che questa domanda è impropria: è la verità o falsità della tesi che ci deve interessare, non a chi piacciano o dispiacciano. Ma dovresti anche ammettere che così costringi subito Nietzsche ad accettare che ci sia quella famosa verità oggettiva di cui si sta discutendo. Così, verità oggettiva sembra essere, per i nuovi realisti, il «fatto» che «il postmoderno è fallito». Davvero questo fallimento è un fatto e non un’interpretazione? La forza della tesi di Nietzsche, anche e soprattutto per chi non vuole prostrarsi davanti al mondo com’è e identificare senz’altro l’esser-così-delle-cose con il bene e la norma da «rispettare», sta tutta nel domandare, ad ogni enunciazione, «chi lo dice?». Il concetto di ideologia di Marx, ma tutta la cosiddetta scuola del sospetto (Marx, Nietzsche, Freud), dovrebbe averci insegnato qualcosa. Già, dirai, però Marx smascherava l’ideologia proprio in nome della verità oggettiva. Ma questa per lui era il patrimonio del proletariato («chi lo dice?»), non l’essere stesso identificato con ciò di cui non si può assolutamente pensare il contrario, cioè quello che tu chiami «il mondo» con i suoi «fatti». I «fatti» non parlano da sé, anche indicarli semplicemente con un dito è già un atto linguistico. Il realismo (vecchio, credo; perché sarebbe nuovo?) si è sempre fatto forte del «fatto» che ci deve essere qualcosa, il «dato», che limita l’interpretazione, come dici tu, e che non dipende dall’interprete. Neanche il più fanatico postmodernista assume semplicemente che le «cose» siano create da chi le vede. Se piove mi bagno, se sbatto in un muro mi faccio male al naso. E allora? Lo zoccolo duro dell’essere sarebbe questo? Heidegger ha costruito tutta una filosofia a partire dall’insoddisfazione per la «metafisica», cioè per quel pensiero che identifica l’essere con questo zoccolo. E l’insoddisfazione era fondata non sulla scoperta che l’essere non è «zoccolo» ma, poniamo, pantofola o aria; bensì sulla impossibilità di prender sul serio la libertà, in un mondo fatto di durezze e di zoccoli identificati semplicemente con l’essere stesso… 
 
John Searle
La domanda «chi lo dice?», ha anche una ovvia portata etico-politica. I nuovi realisti (che sempre mi rinfacciano il nazismo di Heidegger) dovrebbero spiegare perché uno dei loro profeti sia John Searle, onorato da Bush come il massimo filosofo USA. Qualcuno di loro avrà un analogo riconoscimento dal governo Monti-Napolitano? Certo, di fatto (!) i nuovi realisti hanno il massimo ascolto nella opinione pubblica (ossia pubblicata) mainstream, rispondono alla richiesta di restaurare valori «veri» e, in definitiva, disciplina sociale. Anche tu sei preoccupato di trovare «garanzie» per proporre interpretazioni accettabili dagli altri. Appunto, «gli altri». Proprio perché non ci sono fatti, solo interpretazioni, il solo «zoccolo» contro cui urto e di cui devo tener conto, senza garanzie, sono le interpretazioni degli altri. Per convincerli non ho nessun garanzia «oggettiva»: solo certi valori condivisi, certe esperienze comuni, certe letture che abbiamo fatto, persino – ormai ne sono consapevole – certe appartenenze di classe. La pericolosità dell’ermeneutica è tutta qui: insegna che la sola interpretazione sicuramente falsa (limiti dell’interpretazione!) è quella che non riconosce di essere tale, che pretende di parlare dal punto di vista di Dio e dunque rifiuta di negoziare, pensando di possedere la verità vera. Ma anche la verità di una proposizione scientifica è tale solo se gli altri, coloro che ripetono l’esperimento, hanno gli stessi risultati. C’entreranno lo zoccolo e il muro? Ma dove sarebbero, se non in queste interpretazioni?

mercoledì 22 febbraio 2012

Una filosofia debole

Zabala Santiago
Una filosofia debole

Saggi in onore di Gianni Vattimo

Traduzione dall'inglese di Lucio Saviani

510 pagine

€ 45.00
ISBN 978881160054-1


Gianni Vattimo è uno dei filosofi più importanti sulla scena internazionale. Le sue opere sono tradotte in tutto il mondo. Per celebrare il suo percorso filosofico, pensatori come Umberto Eco, Richard Rorty, Charles Taylor e molti altri hanno voluto dibattere i temi da lui affrontati. Muovendo dal decostruzionismo di Derrida e dall'ermeneutica di Ricoeur e sulla base della sua esperienza di uomo politico, Vattimo si è interrogato sulla possibilità di parlare ancora di imperativi morali, di diritti individuali e di libertà politica, e ha proposto la filosofia di un pensiero debole che mostra come i valori morali possano esistere senza essere garantiti da un'autorità esterna. La sua interpretazione secolarizzante scandisce elementi anti-metafisici e pone la filosofia in relazione con la cultura postmoderna.

Nel volume i contributi di Rüdiger Bubner, Paolo Flores d'Arcais, Carmelo Dotolo, Umberto Eco, Manfred Frank, Nancy K. Frankenberry, Jean Grondin, Jeffrey Perl, Giacomo Marramao, Jack Miles, Jean-Luc Nancy, Teresa Oñate, Richard Rorty, Pier Aldo Rovatti, Fernando Savater, Reiner Schrümann, James Risser, Hugh J. Silverman, Charles Taylor, Gianni Vattimo, Wolfgang Welsch, Santiago Zabala.

giovedì 22 settembre 2011

Le insidie del "new realism"

Le insidie nascoste nel "New Realism"
Il Manifesto, 22 settembre 2011
di Guido Traversa


IDEOLOGIA ITALIANA Nel 2009 esce per Meltemi l'ultimo libro di Gianni Vattimo, Addio alla verità. Nel numero dello scorso luglio «Micromega» pubblica un'intervista a Vattimo nella quale il filosofo italiano rinnova il suo «addio»; Maurizio Ferraris difende la verità e il realismo, temendo che il testo del suo «una volta» maestro possa cadere nelle mani di Niccolò Ghedini e rendere possibile una epistemologia ad personam; e Flores d'Arcais ci richiama politicamente a non rinunciare «alle modeste verità di fatto (v minuscola)» per «smascherare chi si appella abusivamente alla Verità».
L'8 Agosto 2011 su «la Repubblica» Ferraris pubblica un articolo che apre con un «atto» preso dalle scene di metà Ottocento: «uno spettro si aggira per l'Europa». È lo spettro di ciò che propone «di chiamare 'New Realism'» e che darà tema e titolo ad un convegno che si terrà a Bonn nel 2012. La stessa democrazia verrà salvata dalle tre parole chiave del «New Realism»: Ontologia, Critica e Illuminismo.
Il 19 Agosto la questione, non solo lo "spettro" evocato undici giorni prima, prosegue con la discussione (prevedibile?) tra Vattimo e Ferraris; l'articolo ha scenograficamente come sfondo una enorme quercia che, un po' come un albero di Natale, ha appesi tanti riquadri delle facce dei filosofi direttamente o indirettamente chiamati in causa con nome e cognome, titoli dei libri principali, tutti divisi tra amici e nemici, fondatori, antagonisti e precursori del postmoderno. E l'intera tematica non si sviluppa solo sul piano teoretico ma anche e in molti punti su quello della maggiore o minore compatibilità dell'ermeneutica, che abbandonerebbe verità e fatti, con il realismo «new» che salverebbe entrambi, con l'etica e la politica della democrazia.
Certo chi ha preso parte in prima persona al dibattito filosofico e politico degli anni Ottanta e Movanta del secolo scorso (il riferimento è all'iniziativa editoriale I Libri di Montag apparsi tra il 1997 e il 2005 prima con Fahrenheit 451 e poi con Il Manifesto Libri) sa di quale ermeneutica si sta parlando; si tratta di quella strana ma coerente in sé linea che parte da due scuole inizialmente incompossibili: diciamo per comodità il Circolo di Vienna, con i suoi «fatti» e non «cose», con il suo criterio di significato come verificazione, e l'ermeneutica heideggeriana ancora legata negli anni Venti all'Essere. Queste due posizioni già negli anni '50 risultano profondamente unite nel ruolo primario dato al linguaggio (il secondo Wittgenstein e Quine da una parte, Gadamer dall'altra), tanto che Rihard Rorty e Jacques Derridda potevano sostenere tesi tra loro molto simili anche se con costruzioni linguistiche diverse: i «continentali» e gli «analitici» erano con lingue diverse entrambi relativisti.
Una medaglia bifronte
Meno certo è sapere a quale realismo si richiama il «New Realism». Già dalla fine degli anni Novanta un fenomeno di «pentitismo» attraversava le fila della «svolta linguistica» comune all'olismo, al decostruzionismo, all'ermeneutica; quindi l'esigenza di realismo non sembra poi tanto nuova. Pentitismo che si veniva maturando ed esprimendo non in un realismo in quanto tale - forse solo Umberto Eco in Kant e l'ornitorinco parlava dello zoccolo duro dell'essere (peraltro proprio lui disse, in una delle sue pochissime apparizioni in televisione, che era necessario bacchettare le mani dei suoi allievi eccessivi che riducevano tutto alle infinite interpretazioni, «bacchettatura» già iniziata con i Limiti dell'interpretazione) - ma in quel realismo di tipo riduzionista delle cognitive sciences e della philosophy of mind. Erano gli anni in cui, sempre in chiave antiermeneutica, si parlava spesso della «ontologia applicata» e dell'«etica applicata»; anche qui il realismo emergeva di contro al solo interpretare, ma era un realismo diverso da quello delle scienze cognitive o del mind-body problem: la realtà era costituita dalle «nuove realtà» costruite dal e nel sociale.
Jürgen Habermas
Reale e sempre antipostmoderno era il realismo della «comunicazione critica», dell'«agire comunicativo» (Jürgen Habermas) dove l'unità della ragione si esprimeva nella molteplicità delle sue voci. E forse l'elenco delle forme di realismo apparse sulla scena del dibattito filosofico potrebbe continuare.
Insomma, sarebbe opportuno sapere qualcosa di più sul tipo di realismo pensato nel «New Realism». Inoltre ci sarebbe da sapere se esso intende contrapporsi all'ermeneutica come suo semplice «opposto», al ché verrebbe il dubbio che si tratti delle due facce della medesima medaglia, e soprattutto (e la cosa è importante come la prima) se è ben chiara ai suoi sostenitori la causa storica della genesi dell'ermeneutica, di quella che personalmente definisco una «illusione trascendentale» da cui ci si può liberare solo dando una risposta adeguata alle giuste esigenze che la hanno fatta sorgere. L'ermeneutica è nata come ben motivata critica ad una metafisica essenzialista che cancellava la molteplicità varia dell'esistente in una essenza univoca, ma a questa esigenza si poteva e ancora oggi si può rispondere con una posizione non linguistico-relativistica. Per far ciò non basta appellarsi al realismo in quanto tale, ma bisogna dire anche a quale forma.
Un giro di vite
Realismo si dice in tanti modi e l'etica e la politica, così tante volte chiamate in causa dallo scorso luglio, non possono non farsi abili nel «dirne» le differenze e scegliere di conseguenza la via realistica da seguire.
La questione si fa interessante. Varrà la pena di andare a Bonn.
Nel frattempo, la discussione continua sulle pagine della cultura di «la Repubblica»: si tratta di un turn of screw, il titolo dell'articolo che raccoglie quattro interventi è: a che punto è il pensiero, debole, forte o esistenziale? Legrenzi, neuro psicologo, ci dice che il vento è cambiato rispetto ai tempi della psichiatria sociale, l'evoluzione e lo studio del cervello riportano l'uomo nella realtà biologica; Bojanic, allievo di Derrida, accetta il confrontarsi sulle cose senza chiedersi solo «da dove parli?»; Rovatti ricorda tutta la complessità filosofica e politica del pensiero debole, e ne difende la ancora forte capacità di porre la questione del potere; da ultimo FloresD'Arcais, proseguendo il suo dire su Micromega chiama in causa contro il debolismo Nicola Abbagnano, Norberto Bobbio e Ludovico Geymonat.
La comunicazione imposta
Questi ulteriori interventi incominciano a dare una voce alla genesi dell'ermenuetica, il che potrebbe metterci nella condizione di non perderne ciò che c'è di vivo e necessario per il nostro presente, e si vede qualche tassello in più sulla fisionomia del «realismo» da proporre.
La realtà andrebbe sottratta tanto al realismo riduzionista, quanto all'ermeneutica autoreferenziale. La realtà, soprattutto quella umana, etica, sociale, politica e storica ha così tante e varie componenti che impone a chi la voglia capire l'arte del cogliere le somiglianze e le dissomiglianze. Questo pensiero analogico salva la verità e la realtà sia dall'essere dittatorialmente dissolte in ciò che qualcuno vuole che siano (il potere della comunicazione imposta), sia dall'essere ridotte in uno solo dei loro reali elementi (il potere di ridurre la complessità sociale, per esempio, alla sola biologia e/o al solo cervello)

martedì 13 settembre 2011

A 20 anni dalla morte di Luigi Pareyson

Luigi Pareyson (1918-1991) è stato uno dei grandi maestri della scuola filosofica di Torino, assieme a intellettuali come Norberto Bobbio e Nicola Abbagnano. Ma Pareyson è stato anche il mio maestro, per i lunghi anni in cui ho avuto occasione di studiare e poi di lavorare con lui.
L'8 settembre scorso abbiamo ricordato il ventennale della sua scomparsa. Lo hanno fatto anche Francesco Tomatis su Avvenire (potete leggere il suo articolo qui) e Armando Torno sul Corriere della Sera (ecco il suo intervento). Come spiega Tomatis, il Centro Studi filosofico-religiosi "Luigi Pareyson" sta organizzando un convegno, che si svolgerà a Torino il 5 e 6 dicembre prossimi, e al quale parteciperò assieme a Umberto Eco (anche lui suo allievo e mio "fratello maggiore" negli studi di filosofia a Torino), Sergio Givone, Massimo Cacciari e Carlo Ossola.