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venerdì 14 dicembre 2012

Gianni Vattimo: “La realidad es una hipótesis todavía no desmentida”

El filósofo italiano brindó una conferencia en el Aula Tanque del Campus Miguelete. Participaron autoridades, profesores y estudiantes de la Universidad Nacional de San Martin (UNSAM), Buenos Aires.

“Los hechos no hablan por sí mismos; la realidad es una operación”. Con frases como estas fue que Gianni Vattimo marcó la dirección de la discusión de la que participaron Enrique Corti, decano de la Escuela de Humanidades; Guillermo Schweinheim, de la Escuela de Política y Gobierno; Ricardo Ibarlucía, del Instituto de Investigaciones sobre el Patrimonio Cultural; y Arnold Spitta, del Programa de Estudios Alemanes y Europeos, entre otros.

Con citas y menciones de Aristóteles, Heidegger, Nietzsche, Kant y Lacan, el profesor italiano habló sobre su postura respecto de la realidad, la política, la crisis europea, el comunismo, la iglesia, los vampiros, las brujas y la moral. 
 

martedì 27 novembre 2012

Nuovo realismo o vecchio marketing?

Pubblico qui di seguito, a puro scopo informativo, la replica di Mario De Caro al mio articolo apparso su La Stampa il 22 novembre scorso, nonchè la mia successiva risposta.
GVattimo 


Caro Vattimo, si può filosofare anche sul semaforo


La Stampa, 23 novembre 2012
di Mario De Caro


«Bruto è uomo d’onore» declama ripetutamente il Marcantonio di Shakespeare, nel suo discorso al rumoreggiante popolo romano, attonito per l’uccisione di Cesare e ancora indeciso sul da farsi. Ma in realtà, si sa, con la sua grande prova di eloquenza Marcantonio sta demolendo tutto quanto Bruto ha detto. Le sue lodi sono solo una captatio benevolentiae per i suoi uditori.


Mi dispiace dunque rischiare di apparire un tardo emulatore di Marcantonio se dico che ho sempre ammirato Gianni Vattimo per la chiarezza e la profondità delle sue idee (il suo libro su Heidegger, per esempio, mi è sempre sembrato quanto di meglio mai scritto sul criptico autore di Essere e tempo). Data dunque la mia alta opinione che ho di lui, ho trovato francamente sorprendente l’intervento di Vattimo sulla Stampa di ieri, in cui menzionava la raccolta di saggi Bentornata realtà, che ho appena curato con Maurizio Ferraris per Einaudi.

martedì 17 luglio 2012

È Topolino il filosofo del relativismo

I limiti delle posizioni contrapposte di Ferraris e Vattimo sul pensiero postmoderno
Modellare il reale in forme diverse non è un peccato bensì un dovere della ragione
 
Giulio Giorello, Il Corriere della Sera, 24 giugno 2012
 
Giulio Giorello
Come è morto Ramsete II? Di tubercolosi, dicono gli esperti delle varie discipline che scandagliano il pozzo del passato. Niente affatto, ribatteva il «sociologo della conoscenza» Bruno Latour circa una decina di anni fa: il bacillo responsabile di quella malattia (Mycobacterium tubercolosis) è stato scoperto solo nel 1882 da Robert Koch. Maurizio Ferraris, nel recentissimo Manifesto del nuovo realismo (Laterza), commenta sarcasticamente che «se la nascita della malattia coincidesse con la sua scoperta, si dovrebbero sospendere immediatamente tutte le ricerche mediche, perché di malattie ne abbiamo più che a sufficienza». Ma il bacillo di Koch uccideva prima e può continuare a uccidere anche dopo che è stato individuato, proprio come, indipendentemente dalla consapevolezza dei chimici che l’acqua è un composto di idrogeno e di ossigeno, questa sostanza comunque bagna «e io non potrò asciugarmi — ci dice ancora Ferraris — con il solo pensiero che l’idrogeno e l’ossigeno in quanto tali non sono bagnati».
 
Questa è la tesi del Manifesto: «Non si può fare a meno del reale, del suo starci di fronte. Se c’è il sole, la sua luce è accecante; se la lasciamo troppo sul fuoco, la caffettiera scotta. Non c’è alcuna interpretazione da opporre a questi fatti: le uniche alternative sono gli occhiali da sole e le presine». Insomma, la realtà con cui facciamo i conti, sia nell’impresa tecnico-scientifica sia nell’esistenza quotidiana, è una sorta di «reale che non ha voglia di svaporare in reality».
 
Un grido di dolore non meno accorato si leva da un altro odierno manifesto, Democrazia! (con tanto di punto esclamativo), per la penna di Paolo Flores d’Arcais (Add editore). Solo se manteniamo lo scarto tra cose e parole, possiamo smascherare l’«alchimia» creata dalla propaganda: «La lotta politica per la democrazia e la lotta filologica per il significato della parola sono terreni diversi dello stesso scontro», dichiara Flores, che teme l’arroganza di qualsiasi Grande Fratello. Né vale ribattere che «non ci sono fatti, ma solo interpretazioni», almeno quando si ha a che fare con l’acqua che bagna o con i bacilli che minacciano la nostra salute… Ma che dire quando in gioco sono espressioni come buon governo, virtù politica o democrazia?
 
Per difendere il nostro patrimonio di significati c’è davvero bisogno di un’idea «forte» di verità? Per esempio, occorreva già qualcosa del genere per opporsi ai totalitarismi del Novecento o ce n’è urgenza oggi contro i vari dittatorelli del Medio Oriente, o contro l’ancor più subdolo dispotismo di democrazie in via di avanzata decomposizione? Non basterebbe la tenace volontà di non cedere mai, ovvero la decisione di resistere a qualunque potere che si spaccia per irresistibile?

La questione non è puramente accademica. Un conto sono le verità di «puro buon senso», come direbbe il Kit Carson amico di Tex Willer, o le stesse affermazioni della scienza, un conto la Verità (con la maiuscola), quella invocata, per esempio, da tutti coloro che si sentono assolutamente convinti del «fatto» che Dio starebbe dalla loro parte. Non potrebbero emergere così forme di dominio ancor peggiori di quelle che in nome della fede si vorrebbero abbattere?
Proprio per questo Gianni Vattimo non risparmia le varie manifestazioni di «nevrosi fondamentalista che percorre la società tardo-industriale», tra le quali include il realismo filosofico, che per lui è solo una «possibile ideologia della maggioranza silenziosa», come scrive nel suo Della realtà (Garzanti).
 
 La disputa, non solo italiana, finisce con l’investire i territori elusivi della politica e dell’etica. Per questo essa non si riduce a mere contrapposizioni personali. Il «nuovo realista — precisa Ferraris — non si limita a dire che la realtà esiste», ma insiste sulla tesi che «non è vero che essere e sapere si equivalgono». Il suo avversario potrebbe ricorrere, a questo punto, a Paul Feyerabend (un pensatore che Vattimo ben conosce), piuttosto che ai soliti numi del postmoderno, come Lyotard o Baudrillard, per i quali il reale si sarebbe ormai dissipato come fumo virtuale. Invece, è proprio il realismo che porta acqua alla tesi per cui nell’avventura umana — e non solo nella dinamica della conoscenza scientifica — emergono schemi di pensiero «incommensurabili», in cui cose e parole variano radicalmente di significato. Noi definiamo, infatti, il valore di qualsiasi oggetto dal suo uso, e la portata di un concetto o di un nome dall’impiego linguistico che ne facciamo. Feyerabend l’ha mostrato trattando di come la nuova scienza della natura di Galileo spazzò via l’opposizione degli aristotelici o di come la «sovversiva» fisica quantistica mandò in pezzi la costellazione dei pregiudizi dei fisici più legati alla tradizione. Ma è anche stato estremamente abile nello sfruttare il patrimonio di esperienze e informazioni che ci vengono dal lavoro degli antropologi.
 
Qui in poche righe non possiamo addentrarci nei dettagli. Ci limitiamo allora all’apologo narrato da Merrill de Maris (sceneggiatura) e Floyd Gottfredson (soggetto e matite) per la Walt Disney, Il selvaggio Giovedì (1940) — che il lettore del «Corriere» ha avuto modo di apprezzare negli allegati «Gli anni d’oro di Topolino» (2010). In breve, i nervi del nostro Topo sono messi a dura prova da Giovedì, capitatogli in casa per sconvolgere l’uso abituale di cose e termini. Così, il preteso «selvaggio» scambia la pelliccia leopardata di una superba dama per l’animale vero e proprio e non esita a colpire con la sua lancia le prosperose natiche della signora. Per non dire che impiega vetri, penne, matite, ciabatte, eccetera in modi nuovi ma a lui perfettamente funzionali.
 
 In questo modo, la lancia di pietra del selvaggio Giovedì non solo mostra quanto convenzionali e fragili siano alcuni dei nostri più consolidati valori, ma manda in pezzi… anche le tesi opposte dei due miei cari amici, Vattimo e Ferraris. Se è vero che essere e sapere non coincidono, che questo scarto è una delle più forti molle per l’innovazione nella scienza e nell’arte e che tutto lascia aperta una via di scampo nel mondo stesso della politica, cercare schemi concettuali «incommensurabili», escogitare usi e dunque significati nuovi, modellare in maniere differenti il reale che pure così ostinatamente ci resiste, non è un peccato bensì un dovere della ragione, una genuina esperienza di libertà, che vale più di qualsiasi imbalsamata «verità».

venerdì 22 giugno 2012

Gianni Vattimo, ''Il rilancio dell'Italia non passa dai tecnici, ma dalla mobilitazione della gente comune''

Il filosofo e parlamentare europeo attraverso il suo libro “Della realtà” analizza e commenta la situazione storica attuale 
Libreriamo, 22 giugno 2012

 MILANO - Basta realismo rassicurante, i problemi della società di oggi si possono superare solo attraverso la mobilitazione comune. E’ quanto ha dichiarato il filosofo Gianni Vattimo in un incontro tenutosi ieri sera presso la Fnac a Milano. Il filosofo noto a livello internazionale ha inoltre parlato del suo ultimo libro “Della realtà”, edito da Garzanti, un saggio filosofico che documenta un percorso di conoscenza e che alla riflessione sul pensiero di Heidegger unisce una costante attenzione alle trasformazioni della società contemporanea. Al richiamo alla realtà, Vattimo contrappone l’ermeneutica, ovvero la costante pratica dell’interpretazione, lo straordinario strumento conoscitivo che secondo il filosofo ci consente di superare la dittatura del presente.
 
DECOSTRUZIONE DELLA VERITA’ - Gianni Vattimo spiega al pubblico come, a suo parere, il discorso sulla pura negatività dell’ontologia sia molto fondato. “Numerosi pensatori del ‘900 hanno concepito una funzione più negativa della filosofia. Essa si presentava molto critica, pensando che l’essere non è, ma diviene, accade.” Nel suo libro, Vattimo decostruisce, contesta, ma non si oppone ad una falsità in nome di una verità assoluta. “Quello che io, come anche Heidegger, pensiamo è che sia impossibile definire l’essere. Questo discorso non è soltanto negativo, ma permette di non identificare gli esseri con gli enti, un errore che Heidegger rimproverava alla metafisica. L’autore di “Essere e tempo”  è vissuto all’inizio del ‘900, un momento di gran positivismo grazie anche allo sviluppo industriale, e la sua insofferenza nei confronti del positivismo è legata al fatto di vederla come la filosofia del mondo dell’organizzazione totale.”
 
BISOGNO DELLA REALTA’ – Secondo Gianni Vattimo, il realismo di oggi nasce dalla necessità di essere rassicurati, e la frenesia ed il bisogno di realtà si manifestano soprattutto all’interno dei quotidiani cosiddetti indipendenti, in realtà a suo avviso reggicoda di Monti e di tutte le banche mondiali. “Il neorealismo che tiene banco sui quotidiani negli ultimi mesi, è l’ideologia del tardo capitalismo cadente, che tenta di salvare le banche tecnicamente.” Il filosofo italiano si rifà a Nietzsche, il quale affermava che i fatti sono interpretazioni, che dipendono dal punto di vista dell’osservatore. “Anche l’economia non è una scienza naturale, ma interpretativa, fatta da un soggetto concreto, portatore di interessi, legittimi ma parziali. Una volta preso atto che non ci sono fatti ma interpretazioni, uno che si propone di avere la verità assoluta è molto pericoloso se non gli si da retta. In realtà si tratta di una realtà convenuta, che quando non va bene può mettere il dubbio in chi lo ascolta. Questa è l’essenza del Marxismo e di Nietzsche, e in parte di Freud.”
 
VERITA’ ATTRAVERSO LO SCONTRO – Gianni Vattimo ritiene che sia più ragionevole pensare alla storia come successione di illuminazioni. “C’è una certa continuità nella storia, ma non vuol dire che ci sia una linea ontologicamente garantita alla Hegel.” Il filosofo italiano illustra quindi la sua visione dialettica della storia. “Non sono d’accordo sul fatto che si possa arrivare alla verità solo attraverso l’accordo tra maggioranza e minoranza. Credo che la verità si costruisca soprattutto attraverso lo scontro, la sostituzione, il cambiamento, la rivoluzione.” Secondo Vattimo la nostra democrazia oggi è purtroppo questa, e la naturale conseguenza è la mancanza di convinzione nell’andare a votare pensando di poter cambiare le cose. “Occorre un po’ più di conflitto: anche il governo tecnico attuale è figlio dell’accordo tra maggioranza e minoranza di governo. Addirittura in passato la destra e la sinistra si rimproveravano di essersi copiati i programmi dell’altro. Una situazione diffusa anche nel resto del mondo.”
 

mercoledì 20 giugno 2012

Vattimo: le risposte della filosofia

ViviMilano, 20 giugno 2012. Di Ida Bozzi

Che cosa sta succedendo nel mondo e nella concezione del mondo? Come il pensiero contemporaneo si confronta con elementi quali la crisi del capitalismo e il cosiddetto ”nuovo ordine mondiale”? L’occasione per capire uno dei fronti di elaborazione in cui si trova il pensiero filosofico, è la presentazione del nuovo saggio del filosofo Gianni Vattimo, ”Della realtà. Fini della filosofia” (Garzanti), nell’incontro di giovedì 21 alla Fnac con il pubblico milanese. 

“Proprio in tempi di crisi – ha illustrato Vattimo a ViviMilano, anticipandoci i temi del libro – come quella che stiamo vivendo, che tutti riconoscono come crisi strutturale, mi sembra importante la filosofia. Che certo non ha suggerimenti immediati da fornire – su come ridurre il debito, come rifinanziare (ancora una volta!) le banche, eccetera – ma ci chiede una riconsiderazione generale del nostro modo di vivere e dei nostri sistemi di valori. Potremmo dire che attraverso questo saggio si ha una panoramica del ”prima” e del ”dopo”, a partire dal ”pensiero debole” della fine del Novecento per arrivare all’oggi, un tempo che il filosofo descrive nel libro come il «ritorno all'ordine che nella cultura, non solo filosofica, si è fatto sentire in questi ultimi anni – effetto forse dell’11 settembre? Della lotta contro il terrorismo internazionale? Della crisi finanziaria che sembra si possa battere solo con un ”nuovo realismo”?».

Insomma, in un saggio che non è di pura divulgazione ma nemmeno solo teoretico, Vattimo prende posizione su quello che sta accadendo nel mondo, non solo del pensiero, con il ritorno al ”realismo” e i richiami al rigore, allo stringere la cinghia e così via. Qual è, in breve, la sua posizione, lo anticipa lo stesso filosofo, che conclude illustrandoci il senso del suo libro: “Richiamando i (miei) lettori a non lasciarsi imporre le pretese ricette ”realiste”, che si fondano sempre su una interpretazione (situata, socialmente e storicamente; e dunque interessata) della realtà e non, come pretendono, sulla conoscenza oggettiva delle cose (la conoscenza che sarebbe propria dei ”tecnici” neutrali), invita a professare la filosofia come progetto attivo di modifica del mondo com’è e non come contemplazione inerte dell’ordine (!) esistente”. La filosofia, insomma, si occupa come non mai delle questioni più scottanti del presente, e il dibattito è aperto e caldissimo.

Pensiero debole ma idee forti

Il nuovo Vattimo


LA VERITÀ vi farà liberi, sta scritto nel Vangelo. Il problema è come trovarla senza subire gli inganni del potere. È uno dei grandi temi di Della realtà (Garzanti), nuovo libro di Gianni Vattimo, filosofo e eurodeputato (Italia dei Valori). Un saggio sulle trasformazioni della società contemporanea firmato da un pensatore, classe 1936, che continua a definirsi "resistente". Prende posizione - dai No Tav ai palestinesi, all'eutanasia -, e dà spazio ai giovani. Giovedì alla Fnac (ore 18) lo presenterà Tommaso Portaluri, studente di 18 anni, appena nominato per meriti scolastici Alfiere della Repubblica. 
 
Professor Vattimo, cos'è "Della realtà"? «Raccoglie i corsi che ho tenuto a Lovanio (1998) e Glasgow (2010) nelle Gifford Lectures, una specie di premio Nobel per la filosofia. Non è un'opera di divulgazione per il grande pubblico, ma nemmeno un documento teoretico per gli addetti ai lavori o i biografi. È un itinerario filosofico sul senso e il risultato di una vita di lavoro». 
 
Di lei dicono tutti: è l' inventore del pensiero debole. Ovvero? «Il pensiero debole è un mix di ermeneutica, l'analisi critica della realtà, e nichilismo. I miei maestri sono Heidegger e Nietzsche. Le teorie di quest'ultimo ruotano attorno alla celebre: 'Non esistono fatti, solo interpretazioni' . Salvo poi aggiungere: 'Anche questa è un' interpretazione' . L'avversario da battere è il ritorno all'ordine nella cultura, non solo filosofica. Effetto dell'11 settembree della lotta contro il terrorismo? della crisi finanziaria?». 
 
Uno dei capitoli di Glasgow si sofferma sull' importanza, sottovalutata dai non filosofi, delle virgolette. «La costante pratica dell'interpretazione ci permette di superare la dittatura del presente, passando dalla "realtà" alla realtà. Chiunque dovrebbe mettersi in discussione, rifiutando la perentorietà dei dati. Se hai un solo televisore, vale come fonte della verità. Se ne hai venti, sei libero come il superuomo di Nietzsche, scegli in chi credere. I miei colleghi sostenitori del "neorealismo" cercano un'oggettività che nessuna scienza o tecnologia potrebbe avere». 
 
Perché la filosofia piace tanto alla gente, occupando classifiche e festival? «Hanno successo i filosofi perbenisti, che coltivano valori mainstream promuovendo i loro libri da Fabio Fazio, non quelli che si ribellano. Il vero filosofo è maledetto, prende le distanze dal sistema, guarda le cose del mondo con scetticismo». 
 
Come si concilia il suo "cattocomunismo" con l'Idv di Antonio Di Pietro? «Sono stato eletto come indipendente nell'unico partito di opposizione. La politica è un impegno morale e non totalmente fallimentare, nonostante i limiti delle rivoluzioni. Sappiamo come sono andate a finire quella sovietica e cinese o i tentativi riformisti della sinistra italiana. L'Unione Europea è un insieme di agenzie burocratico bancarie incapaci di realizzare un socialismo dal volto umano. Il comunismo, la società senza classi, restano l' unico orizzonte contro il dio mercato». 
 
Come passerà l'estate? «Insegnerò in Colombia, a Vilnius e in Austria, dove terrò un seminario su Wittgenstein. Tra un'università e l'altra vorrei rileggere i classici. Ho nostalgia di quando vent'anni fa tornavo dal mare con l'ansia di proseguire Guerra e pace. Merito di Tolstoj, del tramonto di Santorini o, forse, di uno stato d'animo diverso. Anche i filosofi credono nella felicità».

venerdì 20 aprile 2012

Da Bush a Monti: fatti o interpretazioni?


Da Bush a Monti: fatti o interpretazioni?
«Alias-D» dell’1 aprile recensiva il libro di Maurizio Ferraris «Manifesto del nuovo realismo» (Laterza), contro gli effetti ubriacanti del pensiero debole e postmoderno. A Ferraris, che propugna un ritorno filosofico (e politico) al mondo dei «fatti», replica qui Gianni Vattimo, con una «lettera aperta» a Umberto Eco, suo interlocutore ideale. Gli risponde Ferraris.

Il Manifesto, 8 aprile 2012

Il ritorno della realtà come ritorno all’ordine – Gianni Vattimo

Caro Umberto, vorrei entrare subito in medias res (ahi!, le cose stesse!) per discutere il tuo saggio sul «realismo negativo». Due cose preliminari. Primo: davvero qualcuno dei nuovi realisti pensa che un postmoderno utilizzi un cacciavite per pulirsi un orecchio o il tavolo su cui scrive per viaggiare da Milano ad Agognate? Spesso gli esempi paradossali finiscono per essere presi troppo sul serio, e diventano caricature delle quali sarebbe meglio sbarazzarsi. Secondo: ricordi Proudhon? In una estate di molti anni fa, nel deserto di temi con cui riempire i giornali, qualcuno tirò fuori Proudhon del tutto a freddo, aprendo un dibattito inconcludente che si trascinò per un po’ e poi svanì nel nulla. Il nuovo realismo mi sembra un fenomeno del tutto simile, anche se minaccia di durare più a lungo, per ragioni che hanno probabilmente da fare con il generale clima di «ritorno all’ordine» di cui è massima espressione il governo dei «tecnici».

Quali sono le ragioni del «ritorno della realtà» contro la «sbornia post-modernista»? A chi importa «tornare alla realtà» e respingere la tesi di Nietzsche secondo cui «non ci sono fatti, solo interpretazioni, e anche questa è un’interpretazione»? Certo, tu risponderai subito che questa domanda è impropria: è la verità o falsità della tesi che ci deve interessare, non a chi piacciano o dispiacciano. Ma dovresti anche ammettere che così costringi subito Nietzsche ad accettare che ci sia quella famosa verità oggettiva di cui si sta discutendo. Così, verità oggettiva sembra essere, per i nuovi realisti, il «fatto» che «il postmoderno è fallito». Davvero questo fallimento è un fatto e non un’interpretazione? La forza della tesi di Nietzsche, anche e soprattutto per chi non vuole prostrarsi davanti al mondo com’è e identificare senz’altro l’esser-così-delle-cose con il bene e la norma da «rispettare», sta tutta nel domandare, ad ogni enunciazione, «chi lo dice?». Il concetto di ideologia di Marx, ma tutta la cosiddetta scuola del sospetto (Marx, Nietzsche, Freud), dovrebbe averci insegnato qualcosa. Già, dirai, però Marx smascherava l’ideologia proprio in nome della verità oggettiva. Ma questa per lui era il patrimonio del proletariato («chi lo dice?»), non l’essere stesso identificato con ciò di cui non si può assolutamente pensare il contrario, cioè quello che tu chiami «il mondo» con i suoi «fatti». I «fatti» non parlano da sé, anche indicarli semplicemente con un dito è già un atto linguistico. Il realismo (vecchio, credo; perché sarebbe nuovo?) si è sempre fatto forte del «fatto» che ci deve essere qualcosa, il «dato», che limita l’interpretazione, come dici tu, e che non dipende dall’interprete. Neanche il più fanatico postmodernista assume semplicemente che le «cose» siano create da chi le vede. Se piove mi bagno, se sbatto in un muro mi faccio male al naso. E allora? Lo zoccolo duro dell’essere sarebbe questo? Heidegger ha costruito tutta una filosofia a partire dall’insoddisfazione per la «metafisica», cioè per quel pensiero che identifica l’essere con questo zoccolo. E l’insoddisfazione era fondata non sulla scoperta che l’essere non è «zoccolo» ma, poniamo, pantofola o aria; bensì sulla impossibilità di prender sul serio la libertà, in un mondo fatto di durezze e di zoccoli identificati semplicemente con l’essere stesso… 
 
John Searle
La domanda «chi lo dice?», ha anche una ovvia portata etico-politica. I nuovi realisti (che sempre mi rinfacciano il nazismo di Heidegger) dovrebbero spiegare perché uno dei loro profeti sia John Searle, onorato da Bush come il massimo filosofo USA. Qualcuno di loro avrà un analogo riconoscimento dal governo Monti-Napolitano? Certo, di fatto (!) i nuovi realisti hanno il massimo ascolto nella opinione pubblica (ossia pubblicata) mainstream, rispondono alla richiesta di restaurare valori «veri» e, in definitiva, disciplina sociale. Anche tu sei preoccupato di trovare «garanzie» per proporre interpretazioni accettabili dagli altri. Appunto, «gli altri». Proprio perché non ci sono fatti, solo interpretazioni, il solo «zoccolo» contro cui urto e di cui devo tener conto, senza garanzie, sono le interpretazioni degli altri. Per convincerli non ho nessun garanzia «oggettiva»: solo certi valori condivisi, certe esperienze comuni, certe letture che abbiamo fatto, persino – ormai ne sono consapevole – certe appartenenze di classe. La pericolosità dell’ermeneutica è tutta qui: insegna che la sola interpretazione sicuramente falsa (limiti dell’interpretazione!) è quella che non riconosce di essere tale, che pretende di parlare dal punto di vista di Dio e dunque rifiuta di negoziare, pensando di possedere la verità vera. Ma anche la verità di una proposizione scientifica è tale solo se gli altri, coloro che ripetono l’esperimento, hanno gli stessi risultati. C’entreranno lo zoccolo e il muro? Ma dove sarebbero, se non in queste interpretazioni?

domenica 18 marzo 2012

¿Seguimos siendo posmodernos?

¿Seguimos siendo posmodernos?

Hace 30 años, Gianni Vattimo acuñó el concepto de “pensamiento débil” como rasgo de la posmodernidad. En diálogo con Maurizio Ferraris, reexamina sus ideas y las actualiza.

POR Maurizio Ferraris Y Gianni Vattimo

27/02/2012,  Ñ, Revista de Cultura: El Clarín, La Repubblica. Traduccion de Cristina Sardoy.

¿Seguimos siendo posmodernos o estamos acaso por convertirnos en “neorrealistas”, volviendo al pensamiento fuerte? El debate filosófico está abierto. Gracias, asimismo, a la conferencia que se llevará a cabo en Bonn, Alemania, el año próximo sobre el “New Realism” en la que participarán, entre otros, Umberto Eco y John Searle.
Maurizio Ferraris. Los últimos años enseñaron, me parece, una amarga verdad. Que la primacía de las interpretaciones sobre los hechos, la superación del mito de la objetividad, no tuvo los resultados de emancipación que imaginaban filósofos posmodernos ilustres como Richard Rorty o vos mismo. No sucedió, por lo tanto, lo que anunciabas hace 35 años en tus excelentes clases sobre Nietzsche y el “devenir fábula” del “mundo verdadero”: la liberación de las restricciones de una realidad demasiado monolítica, compacta, perentoria, una multiplicación y deconstrucción de las perspectivas que parecía reproducir, en el mundo social, la multiplicación y la liberalización radical –creíamos entonces– de los canales televisivos. Ciertamente, el mundo verdadero se transformó en una fábula, es más, se ha convertido en un reality , pero el resultado es el populismo mediático, donde –siempre que se tenga el poder– se puede pretender hacer creer cualquier cosa. Esto, lamentablemente, es un hecho, aunque los dos desearíamos que fuera una interpretación. ¿Me equivoco?
Gianni Vattimo. ¿Cuál es la “realidad” que desmiente las ilusiones posmodernas? Hace once años, mi dorado librito La sociedad transparente tuvo una segunda edición con un capítulo agregado escrito después de la victoria de Berlusconi en las elecciones. Yo ya constataba la “desilusión” a la que te referís; y reconocía que si no se daba esa prescindencia de la perentoriedad de lo real que había prometido el mundo de la comunicación y los medios masivos contra la rigidez de la sociedad tradicional, era sólo a causa de una permanente resistencia de la “realidad”, pero justamente en la forma del dominio de poderes fuertes (económicos, mediáticos, etcétera). Por lo tanto, toda la cuestión de la “desmentida” de las ilusiones posmodernas es sólo una cuestión de poder. La transformación posmoderna alcanzada realistamente por quien consideraba las nuevas posibilidades técnicas no se logró. De este “hecho”, me parece, no debo aprehender que el modernismo es una mentira; sino que estamos a merced de poderes que no quieren que la transformación sea posible. ¿Cómo confiar en la transformación, empero, si los poderes que se le oponen son tan fuertes?
M.F. Tal como lo planteás, el poder, es más, la prepotencia, es lo único real en el mundo, y todo el resto es ilusión. Te propondría una visión menos desesperada: si el poder es mentira y sortilegio (“un millón de puestos de trabajo”, “nunca se meterán las manos en los bolsillos de los italianos”, etc.) el realismo es contrapoder: “El millón de puestos de trabajo no se vio”, “se metieron las manos en los bolsillos de los italianos, y cómo”. Por eso, hace 20 años, cuando lo posmoderno celebraba sus fastos y el populismo se calentaba los músculos al costado de la cancha, maduré mi vuelco hacia el realismo (lo que ahora llamo “New Realism”), posición en ese tiempo totalmente minoritaria. ¿Te acordás que me dijiste: “¿Quién te manda hacer eso?”? Pues bien, simplemente la constatación de un hecho verdadero.
G.V. Si se puede hablar de un nuevo realismo, éste, al menos por mi experiencia de (pseudo) filósofo y (pseudo) político, consiste en constatar que la llamada verdad es una cuestión de poder. Por eso me animé a decir que quien habla de la verdad objetiva es un siervo del capital. Siempre debo preguntar “quién lo dice” y no confiar en la “información” ya sea periodística-televisiva o incluso “clandestina”, ya sea “científica” (nunca existe la ciencia; hay ciencias, y los científicos, que a veces tienen intereses en juego). Pero entonces, ¿en quién confiaré? Para poder vivir decentemente en el mundo debo tratar de construir una red de “compañeros” –sí, lo digo sin pudor– con los cuales comparto proyectos e ideales. ¿Buscándolos dónde? Donde hay resistencia: los anti-IVA, la flotilla de Gaza, los sindicatos anti-Marchionne. Sé que no tengo un programa político verosímil, y ni siquiera una posición filosófica “presentable” en los congresos y las conferencias. Pero ahora soy “emérito”.
M.F. Para ser un resistente, aunque sea emérito, tu tesis de que “la verdad es una cuestión de poder” me parece una afirmación muy resignada. Es como afirmar: “La razón del más fuerte es siempre la mejor”. Personalmente estoy convencido de que justamente la realidad, por ejemplo, el hecho de que es cierto que el lobo está en el monte y el cordero en el valle, por lo tanto no puedo enturbiarles el agua, es la base para restablecer la justicia.
G.V. Yo diría más bien: constatemos el fracaso, práctico, de las esperanzas posmodernas. Pero, ciertamente, no en el sentido de volvernos “realistas” pensando que la verdad certificada (“¿por quién?” nunca un realista se lo pregunta) nos salvará, después de la resaca ideal-hermenéutica-nihilista.
M.F. No se trata de volvernos realistas, sino de serlo de una buena vez. En Italia, el mainstream filosófico siempre fue idealista, como bien lo sabés. En cuanto a la certificación de la verdad, hoy hay un sol ligeramente velado por las nubes y eso lo certifico con mis ojos. El 15 de agosto de 1977 Herbert Kappler, ex coronel de las SS nazis y responsable de la ejecución de las fosas Ardeatinas, huyó del Hospital Militar de Celio. Esto me lo dice Wikipedia. Ahora, supongamos que empezaras a preguntarme: “¿Será cierto? ¿Quién me lo prueba?” Se pondría en marcha un proceso que de la negación de la fuga llegaría a la negación de las ejecuciones, y después de todo lo demás hasta la Shoah. Millones de seres humanos asesinados y yo preguntándome sin parar “¿quién lo certifica?”
G.V. Es obvio (¿verdadero?, bah) que para desmentir una mentira debo tener otra referencia. Pero ¿te preguntaste alguna vez dónde está esa referencia? ¿En lo que “ves con tus propios ojos”? Sí, funcionará para entender si llueve; pero ¿para decir en qué dirección debemos orientar nuestra existencia individual o social?
M.F. Obviamente no. Pero decir que “la llamada verdad es una cuestión de poder” tampoco me dice nada en esa dirección, como mucho, me sugiere no abrir más un libro. Hace falta un doble movimiento. El primero, justamente, es el desenmascaramiento, “el rey está desnudo”; y es verdad que el rey está desnudo, de lo contrario son palabras al viento. El segundo es la salida del hombre de la infancia, la emancipación a través de la crítica y el saber (normalmente el populismo sin exagerar intolerante con respecto a la universidad).
G.V. Quien dice que “existe” la verdad siempre debe indicar una autoridad que la sancione. No creo que te contentes ahora con el tribunal de la Razón, con el que los poderosos de todas las épocas nos engañaron. Y que a veces, lo admito, sirvió también a los débiles para rebelarse, sólo a la espera, empero, de instaurar un nuevo orden donde la Razón volvió a ser instrumento de opresión. En suma, si “existe” algo como lo que llamás “verdad” es sólo o decisión de una auctoritas , o, en los casos mejores, resultado de una negociación. Yo no pretendo tener la verdad verdadera; sé que debo rendir cuenta de mis interpretaciones a quienes están “de mi parte” (que no son un grupo necesariamente cerrado y fanático; solamente no son nunca el “nosotros” del fantasma metafísico). En cuanto al llover o no llover, y también sobre el funcionamiento del motor del avión en el que viajo, puedo incluso estar de acuerdo con Bush; respecto de hacia dónde tratar de dirigir las transformaciones que la posmodernidad hace posibles no nos pondremos de acuerdo y ninguna constatación de los “hechos” nos dará una respuesta exhaustiva.
M.F. Si la ideología de lo posmoderno y del populismo es la confusión entre hechos e interpretaciones, no hay duda de que en el enfrentamiento entre un posmoderno y un populista será muy difícil constatar hechos. Pero es de esperar, muchos signos permiten presagiarlo, que esta estación llegue a su fin. También la experiencia de las guerras perdidas, y luego de esta crisis económica, creo que puede constituir una severa lección. Y con lo que afirmo abiertamente que es una interpretación, espero que la humanidad necesite cada vez menos someterse a las “autoridades”, justamente porque salió de la infancia. Si no es en base a esa esperanza, ¿qué estamos haciendo aquí? Si decimos que “la llamada verdad es una cuestión de poder”, ¿por qué los filósofos hicimos al revés de los magos?
G.V. Decís muy poco acerca de dónde buscar las normas del actuar cuando el modelo de la verdad es siempre el dato objetivo. No tenés ninguna duda sobre “quién lo dice”, siempre la idea de que mágicamente los hechos se presentarán por sí mismos. La cuestión de la auctoritas que sanciona la veritas deberías tomarla más en serio. Tal vez yo me equivoque al hablar de compañeros, pero ¿vos creés realmente que hablás from nowhere ?

domenica 19 febbraio 2012

E Vattimo sbeffeggiò l'Essere: "è come un mobile con le tarme"

Edoardo Camurri recensisce «Della realtà. Fini della filosofia», edito da Garzanti (pp. 220, euro 18), in uscita il 23 febbraio 2012.

E Vattimo sbeffeggiò l'Essere: "è come un mobile con le tarme"
Il pensatore critica le posizioni del "nuovo realismo" 
Corriere della sera, 17 febbraio 2012. Di Edoardo Camurri 
 
«Non ci sono fatti, solo interpretazioni. Anche questa è un'interpretazione» tuonava più di un secolo fa quella bestia bionda di Friedrich Nietzsche, e oggi Vattimo continua a ripeterlo con una certa acribia anche se (a eccezione forse di qualche bramino) in molti si ostinano (loro malgrado) a sperimentare quanto la realtà sia dura a morire. Se si legge il suo ultimo libro, Della realtà. Fini della filosofia (Garzanti), la volontà di Vattimo di dissolvere la realtà è così radicale che finisce con il dissolvere perfino la realtà di un suo ex allievo, e ora durissimo rivale, come Maurizio Ferraris sostenitore del cosiddetto «nuovo realismo». Insomma, Vattimo non lo cita mai, per quanto sia evidente che uno dei principali obiettivi polemici del libro sia proprio l'esistenza di Maurizio Ferraris in quanto tale. Si potrebbe obiettare: ma questa forma di gossip teoretico cosa c'entra con un testo e con la sua analisi critica? In teoria nulla, se non fosse che è lo stesso Vattimo a giustificare una lettura sospettosa delle diatribe filosofiche: «Persino il richiamo all'oggettività delle cose come sono in sé stesse pesa solo in quanto è una tesi di qualcuno contro qualcun altro, e cioè in quanto è una interpretazione motivata da progetti, insofferenze, interessi anche nel senso migliore della parola» (p. 95).
Chi, come chi scrive, ha frequentato a lungo le lezioni di Vattimo, si divertiva molto a sentire il maestro riassumere la sua posizione con l'affermazione: «L'Essere è camolato», un modo piemontese per dire che l'Essere ha le tarme. Con Heidegger, Vattimo sostiene: la conoscenza non è adeguazione di un soggetto all'oggetto, l'Essere della filosofia non va pensato come un ente o come un dio presente che sta dinanzi a noi (o più spesso sopra di noi in posizione di dominio).
L'Essere è un progetto dentro il quale l'uomo è da sempre gettato. Esempio: se scrivessimo che esistono gli ippogrifi, ci prendereste per scemi non perché avete esplorato in lungo e in largo e nel tempo e nello spazio l'universo al punto da escludere radicalmente l'esistenza di questi animali metà cavalli e metà grifoni, ma perché viviamo in un mondo nel quale si sa già, in partenza, e sulla base di qualche confortevole pregiudizio, che gli ippogrifi non esistono. Quando si nasce si ereditano un linguaggio, delle credenze e dei significati che consentono all'uomo di articolare un discorso all'interno del quale (e questo è un interessante paradosso su cui Vattimo spesso si concentra nel suo libro) ci si può perfino illudere di essere realisti. Scrive Vattimo in Della realtà. Fini della filosofia (p. 46): «In quanto esistenti, dunque, noi siamo sempre bestimmt, intonati, orientati secondo preferenze e repulsioni, mai semplicemente-presenti ( vorhanden ) in mezzo agli oggetti (...). Questa è l'idea di esistenza come "progetto"».
Non stupirebbe, a questo punto del discorso, intravedere però qualche manina alzata pronta a obiettare: quello che sostiene Vattimo è un fatto, non un'interpretazione; si sta contraddicendo, anche lui finisce col descrivere obiettivamente la struttura dell'Essere. Ed è questa osservazione, una variante dell'obiezione antica contro lo scetticismo (affermare l'impossibilità della verità è una verità), a rendere conturbante Della realtà. Fini della filosofia. Perché Vattimo risponde innanzitutto rivendicando, con Nietzsche, il carattere interpretativo della sua posizione per poi chiedersi un po' stupito (p. 85): «L'argomento logico contro lo scetticismo ha mai convinto qualcuno ad abbandonare le sue "convinzioni" scettiche?». Non siamo all'anything goes, all'idea che tutto vada bene, ma all'insistenza che un «banale errore logico» non possa liquidare l'approdo nichilista a cui è giunta la storia della filosofia, il destino dentro il quale l'uomo è gettato e dove tenta di progettare la realtà che più desidera. Nulla di nuovo. Ma forse qualcosa di noioso e di inquietante. Noioso perché, come scriveva il grande poeta polacco Czeslaw Milosz, il nichilismo è ormai diventato una prerogativa della cultura di massa, nonché il segno di riconoscimento delle menti ordinarie; e inquietante perché grazie a idee come queste, e stranamente in nome di un'istanza di libertà comune alle avanguardie dei primi del Novecento, Heidegger divenne nazista e Vattimo, che lo difende dicendo che si autofraintese, oggi invita a boicottare Israele, abbraccia Fidel Castro («Gli ho preso il viso tra le mani - raccontò - con qualche lacrima agli occhi»), sostiene che con l'11 settembre: «Gli americani hanno fatto esperimenti sul proprio popolo»; eccetera.
Se si rigetta la possibilità di una teoria vera e propria, il rischio è concepire il pensiero come sostanzialmente asservito e dipendente dalla vita o dalla storia e, senza voler fare una reductio ad Hitlerum (una teoria non è confutata dal fatto che le è capitato di essere condivisa da Hitler), sembra che la posizione di Vattimo, ragionevole in teoria (l'Essere è camolato), in pratica corra il rischio di dimenticarsi dell'Essere per assolutizzare le camole e i rosicchiatori della realtà. Non è una situazione tanto allegra anche perché l'alternativa (classica e platonica) per sfuggire a questo pericolo non è più allettante: non divulghiamo nel dettaglio come stanno le cose, il nichilismo, eccetera, perché questa visione è incompatibile con la vita e al suo posto edifichiamo miti e nobili menzogne dentro i quali costruire un mondo decente ma falso. Entrambe le posizioni sono insieme conservatrici e rivoluzionarie. Scrive ancora Vattimo in Della realtà. Fini della filosofia (p. 109): «Proporre un diverso ordine storico-sociale, anche a partire dall'insoddisfazione per alcuni aspetti del paradigma vigente, è possibile non certo con argomenti "cogenti" di tipo ostensivo - "ti mostro che" - ma solo con discorsi edificanti - "non ti pare che sarebbe meglio se"».
Tutto finisce quindi col dipendere da una decisione. E la decisione può essere più o meno efficace a seconda di quanto siamo spregiudicati o di quanto siamo capaci di porci in ascolto dell'essere e dei progetti che l'essere ha in serbo per noi. Liberati dalla realtà, finiamo così con il diventare vittime della propaganda.

lunedì 26 dicembre 2011

Intervista sul realismo

«È la dittatura del mainstream mascherato da tecnica»  

Liberazione, 23 dicembre 2011. Di Tonino Bucci


Sono passati più di vent’anni da quando Gianni Vattimo, il teorico del pensiero debole, scrisse La società trasparente, un saggio, poi ripubblicato nel 2000, nel quale riservava ai mass media un ruolo tutto sommato positivo. L’idea era che i mezzi di comunicazione avrebbero decretato la fine dei pensieri “forti” e del dogmatismo – del pensiero unico, diremmo oggi – e contribuito alla proliferazione di tante immagini del mondo. «Ciò che intendo sostenere è: che nella nascita di una società postmoderna un ruolo determinante è esercitato dai mass media; che essi caratterizzano questa società non come una società più “trasparente”, più consapevole di sé, più “illuminata”, ma come una società più complessa, persino caotica; e infine che proprio in questo relativo “caos” risiedono le nostre speranze di emancipazione». Ai media sarebbe dovuto spettare il compito di annullare il senso di «realtà», nel senso della credenza in un ordine immutabile e gerarchico delle cose, nel quale a ognuno compete un ruolo immodificabile – credenza alla quale tutte le metafisiche si sono appoggiate. Vale ancora questo discorso? Il legame tra mezzi di comunicazione e poteri forti non finisce per impedire la proliferazione di tante immagini del mondo e favorire, invece, il rafforzamento di un pensiero unico? Lo chiediamo allo stesso Gianni Vattimo.

Viviamo nella società della comunicazione generalizzata. In teoria i mass media dovrebbero garantire una situazione antidogmatica e concorrere a formare non una, ma tante immagini del mondo. Ma che ne è di questa funzione se oggi a fare informazione rimangono solo i potentati economici?
Sono persino più pessimista. Vedo un futuro di integrazione e di controllo esteso a tutta la società. Il controllo si estende a tutta l’informazione. I giornali che circolano sono quelli del mainstream e il mainstream ricalca il punto di vista dominante del capitale. E’ giusto difendere gli spazi democratici che ci sono e battersi fino all’ultimo per il pluralismo dell’informazione. Non è che finché non c’è la rivoluzione si deve rinunciare a fare qualsiasi cosa. Anche se riusciamo a difendere lo statuto dei lavoratori sarebbe già qualcosa vista l’aria che tira. Oggi provano a revocare tutte le conquiste ottenute in passato. Sono terrorizzato e pessimista. Non vedo alternative se non impegnarsi in un microconflitto continuo. Per quel che riguarda l’informazione, si può provare a usare internet. Credo che sono più letto sul mio blog che non quando scrivevo sulla Stampa. Da tempo non scrivo più sui giornali, potrei solo tentare di tenere una rubrica dal titolo “il coglione sinistro”, ma nessuno me la fa fare.

Mai mettere limiti alla provvidenza. Se Liberazione dovesse farcela, perché no?
D’accordo.

Nella scorsa estate c’è stato un dibattito sulla crisi del pensiero debole. C’è chi, Maurizio Ferraris in prima fila, sostiene il ritorno ai fatti e al realismo filosofico. Ma si commette un errore di ingenuità nel presupporre fatti neutri in una società che vive immersa nel simulacro della comunicazione?
Dirò di più, io non posso rivendicare una verità esterna contro questa informazione. Io rivendico un programma di classe. Io mi fido solo delle informazioni che vengono da una parte, da una certa zona. Non ho mai creduto nell’informazione oggettiva, figuriamoci se ci credo adesso. Il realismo, oggi, è il realismo delle banche, delle multinazionali, il realismo di Monti. Anche dal punto di vista filosofico tutti questi realismi sono figli di buona donna.

John R. Searle
John R. Searle Anche l’informazione risente di questa tecnocrazia installata al governo della società, che pretende di imporre il proprio punto di vista come unico, oggettivo, neutrale e incontrovertibile. E’ la dittatura della tecnica, non crede?
Uno dei riferimenti di questi realisti italiani è John Searle, un filosofo americano premiato, non a caso, da Bush con la medaglia del presidente. Una cosa al di là del bene e del male. Non se ne parla nemmeno. L’unico realismo vero, a mio parere, è rendersi conto dei giochi di stanno alla base dell’informazione e dei rapporti di proprietà. Il guaio del pensiero del realismo è che non puoi neppure fare proposte alternativa. E’ come la manovra di Monti. Se vuoi proporre qualche miglioramento devi essere d’accordo, altrimenti non ti ascoltano neanche. Fai parte di una minoranza poco raccomandabile, sei relegato in un angolo. Io faccio il deputato europeo ma questa è la mia impressione. Cerco di limitare i danni. Punto. Purtroppo voi di Liberazione cadete male.
Non starà dicendo che dobbiamo rassegnarci al pensiero unico? La maggior parte dei giornali ricalca lo stile cortese ma in fondo in fondo autoritario e gerarchico dei tecnocrati. Zitti, che ora ve la spieghiamo noi…
Perfettamente d’accordo. La penso anch’io così. E che siamo in due è già qualcosa. Sottoscrivo qualunque cosa che vada contro questa struttura.

giovedì 22 dicembre 2011

Inattualità del pensiero debole, la risposta di Rovatti a Ferraris

Riporto qui fedelmente la pagina dell'editore Forum dedicata a Inattualità del pensiero debole, il nuovo libro di Pier Aldo Rovatti.

E’ da pochi giorni in libreria, per il momento solo a Udine, “Inattualità del pensiero debole” di Pier Aldo Rovatti, nuovo titolo della collana vicino/lontano, edita da Forum. Il volume entra a caldo nella recente polemica nei confronti del pensiero debole – polemica sollevata lo scorso agosto sulle pagine di “Repubblica” da Maurizio Ferraris - e di fatto costituisce una replica alla sua presa di posizione. Verrà presentato domenica 11 dicembre a Roma (alle 14, nella Sala Turchese del Palazzo dei Congressi dell’EUR) in occasione della Fiera della piccola e media editoria. Introdotti da Norma Zamparo, direttore editoriale di Forum, ne discuteranno l’autore, Pier Aldo Rovatti, docente di Filosofia teoretica e contemporanea all’Università di Trieste, e il giornalista Marco Pacini, direttore della collana, nonché ideatore del progetto vicino/lontano. Nel volume Pier Aldo Rovatti, dialogando con lo studioso steineriano triestino Alessandro Di Grazia, risponde alle obiezioni di Maurizio Ferraris, di Umberto Eco e di altri esponenti del “nuovo realismo”, fautori di una “piccola crociata” verso un’intera stagione culturale. Il volume si apre con un necessario preambolo, per fornire al lettore le coordinate per orientarsi nel contesto specifico della polemica. Vengono ripubblicati due articoli, comparsi questa estate su “Repubblica” e “il Piccolo” a firma di Rovatti – con Gianni Vattimo padre del pensiero debole – che costituiscono una prima replica a Ferraris e, al contempo, un’introduzione ai temi portanti della filosofia del pensiero debole. Dopo trent’anni, Rovatti conferma la particolare consonanza con il pensiero critico di Michel Foucault, rivendicando il valore che conserva ancora oggi il suo pensiero come bussola di orientamento. In una cultura spettacolarizzata e al tempo stesso accademizzata, in contrapposizione alla visione concreta e fattuale della verità sostenuta dai nuovi realisti, Rovatti sostiene la necessità di una critica radicale al concetto di ‘verità’, al fine di rimettere al centro del discorso i temi del potere e del soggetto. Attraverso una visione della storia e dell’attualità caratterizzata dalla pietas e dall’assenza di dogmi ontologici, lo sviluppo del ‘pensiero debole’ diventa lo strumento critico che può consentire alla società contemporanea di risollevarsi culturalmente e tentare di affrontare la ricerca della verità “senza menare colpi d’ascia a vuoto”. Tuttavia è proprio la situazione sociale contemporanea, i fallimenti culturali e valoriali che hanno caratterizzato gli ultimi vent’anni e i cui effetti influenzeranno la nostra quotidianità per molto tempo, a portare l’autore alla conclusione che, oggi, il ‘pensiero debole’ è inattuale. Il ‘pensiero debole’ è uno strumento critico che non siamo in grado di utilizzare, ma potremmo esserlo in futuro. Con le parole dell’autore “Il pensiero debole […] è un ‘pensiero positivo’ che propone la pratica di un’etica minima: una linea di resistenza contro ogni genere di nuova barbarie, sulla quale attestarsi per non cedere sul diritto di essere cittadini. Una soglia di civiltà – direi – da difendere strenuamente e rispetto a cui non indietreggiare. Da qui discendono uno stile di vita e un impegno nella società. L’indignazione diffusa, il ‘se non ora quando’ che non vale solo per il movimento delle donne, l’esigenza inderogabile di reagire alle condizioni di precarietà, l’urgenza di una scuola che funzioni, indicano con evidenza quali siano i ‘soggetti’ interessati a sottrarsi alla gelatina populistica che ormai ci avvolge. Quasi tutti. Ed è a loro che il pensiero debole si rivolge chiedendo che ciascuno si faccia carico della propria supposta ‘impotenza’, non affidandosi alle ideologie ma praticando, giorno per giorno, una valorizzazione e una socializzazione dei propri bisogni.”
Pier Aldo Rovatti insegna Filosofia teoretica e Filosofia contemporanea all’Università di Trieste. Ha studiato fenomenologia a Milano con Enzo Paci iniziando fin dagli anni Sessanta a collaborare con la rivista di filosofia e cultura «aut aut», di cui è direttore dal 1976. Collabora con i quotidiani “Il Piccolo” e “la Repubblica”. Coordina il Laboratorio di filosofia contemporanea e l’Osservatorio sulle pratiche filosofiche a Trieste. È membro del comitato scientifico di vicino/lontano. Tra le sue ultime pubblicazioni: Possiamo addomesticare l’altro? La condizione globale (2007); Etica minima. Scritti quasi corsari sull’anomalia italiana (2010); Noi i barbari. La sottocultura dominante (2011). Nel 2010 è uscito il primo volume a lui interamente dedicato (René Scheu, Il soggetto debole. Sul pensiero di Pier Aldo Rovatti, Milano: Mimesis, 2010) che contiene anche la prima storia dettagliata della ricezione del pensiero debole.
La collana ‘vicino lontano’ è edita da Forum ed è diretta da Marco Pacini con la consulenza scientifica di Stefano Allievi, Giovanni Leghissa, Giangiorgio Pasqualotto, Pier Aldo Rovatti e Davide Zoletto. Si propone di forzare il linguaggio e i confini della comunicazione accademica e specialistica per raggiungere anche il grande pubblico, con contributi rigorosi e allo stesso tempo facilmente fruibili, per rompere le barriere dei luoghi comuni, degli stereotipi e delle semplificazioni mediatiche che ostacolano una vera comprensione del reale.
In catalogo vi sono 11 titoli. Tra gli autori Carlo Galli, Slavoj Žižek, Renzo Guolo, Marco Cicala. “Inattualità del pensiero debole” sarà nelle librerie di tutta Italia a partire dalla fine di gennaio. E’ invece già in vendita a Udine presso le librerie Friuli, Moderna, Tarantola, Cluf, Friullibris

domenica 4 dicembre 2011

Corrado Ocone e la filosofia classica tedesca

Restituiteci la filosofia classica tedesca, please

Il vero rimosso della polemica tra neorealisti e postmoderni, è la dialettica che ci insegna a tenere aperto uno spazio di comunicazione fra prospettive e idee diverse, ad avere consapevolezza che anche chi consideriamo in “errore” può essere portatore di qualche elemento di “verità”.

di Corrado Ocone. Il Riformista, 3 dicembre 2011

L'intervento di Filippo La Porta su Ragioni di domenica scorsa, nonostante il suggestivo accostamento di democrazia e verità, si presta ad alcune obiezioni di fondo. Più in generale, è proprio il dibattito attuale fra neorealisti e postmodernisti che lascia profondamente insoddisfatti. A ben vedere, in entrambi gli schieramenti c’è un rimosso, un macigno che ostruisce la strada e che non può semplicemente essere scansato deviando. Il rischio è che ci si perda per davvero. Per chiarirmi io stesso e per chiarire a voi il senso di questa insoddisfazione e anche la natura del grande rimosso, propongo in questa sede un itinerario in tre tappe, che vanno a ritroso nel tempo, e una conclusione.
Prima tappa: estate 2011. Che un’epoca della storia delle idee fosse finita lo avevamo capito da un po’. Quest’estate però la conferma ci è arrivata dal mensile inglese Prospect che ha pubblicato un lungo e persuasivo articolo del critico letterario Edward Docx con un titolo che era una campana a morto: «Il postmodernismo è finito». Lo spunto era una esposizione che è tuttora in corso al Royal and Albert Museum di Londra e che permette di storicizzare un’epoca, gli ultimi trent’anni approssimativamente, in cui non solo le arti, ma anche la filosofia, i comportamenti, gli stili di vita hanno assunto un tono ben determinato.
Jean-François Lyotard

Del postmoderno anzi, a ben vedere, si può addirittura fissare una data di nascita, un momento in cui giunge a consapevolezza. È il 1979, l’anno in cui cioè il sociologo Jean Francois Lyotard pubblica con il titolo La condition postmoderne un agile rapporto sullo stato del sapere nel mondo contemporaneo che gli è stato commissionato dall’Unesco
In esso egli parla di fine delle metanarrazioni, cioè della crisi irreversibile di quelle dottrine che avevano fino allora preteso di dare un senso unitario alla realtà: l’illuminismo, l’idealismo, il marxismo. Al loro posto, Lyotard vede all’opera una positiva pluralità di linguaggi e di saperi, una frammentazione e una dispersione del senso che, a suo dire, può coincidere con l’emancipazione umana, con la libertà da ogni costrizione di vita e di pensiero. È l’immagine gioiosa di Zarathustra che danza. E comunque un richiamo a quel prospettivismo che aveva portato Nietzsche a dire che «non ci sono fatti ma solo interpretazioni».
Come sia andata a finire, è dato sapere. Come ammette lo stesso Vattimo, che con il filosofo americano Richard Rorty e altri tentò di dare una base filosofica al nuovo “spirito dei tempo”, non fu previsto che, nel deserto delle ideologie, una sarebbe tuttavia sopravvissuta e avrebbe soppiantato ogni altra. Più pericolosa delle altre, perché si sarebbe presentata come una non ideologia. Non è un caso che il trentennio del postmoderno abbia coinciso con quello del neoliberismo, cioè con il tracimare in una mistica dell’idea di Mercato. E non è un caso che oggi anch’essa sembra finita, almeno da un punto di vista teorico: la crisi finanziaria del 2008, che ancora tutti ci avvolge, ne ha mostrato fin troppo bene i vizi e i limiti.

Seconda tappa: ottobre 2010. Fra i critici più eminenti del postmoderno in Italia si segnala Maurizio Ferraris, con le cui posizioni La Porta si mostra particolarmente simpatetico. Allievo di Vattimo, autore di una importante Storia dell’ermeneutica (1988) tradotta in più lingue, Ferraris, a partire dall’inizio degli anni Novanta, matura una svolta radicale del suo pensiero: uccide metaforicamente il proprio Padre-Maestro e va elaborando una sua autonoma prospettiva realista o neo-realista.

Richard Rorty

Un anno fa ho avuto l’onore di essere invitato a Napoli da Ferraris ad un seminario in cui ha presentato a un ristretto numero di studiosi la sua critica del postmoderno. L’ho trovato molto persuasiva. In modo inconsueto per un filosofo, Ferraris ha proiettato delle diapositive illustrative. In una c’era una foto di Rorty accompagnata da tre icastiche affermazioni, che cito a mente: 1) la verità e la realtà sono concetti violenti, dispotici, vanno eliminati; 2) bisogna essere “teorici ironici”, cioè non prendersi sul serio e non credere fino in fondo a se stessi e a quanto si dice; 3) bisogna promuovere una “rivoluzione desiderante”. Dopo aver commentato, Ferraris ha cambiato diapositiva: nella successiva le tre frasi restavano le stesse, ma al posto di Rorty compariva la foto di Berlusconi. Più chiaro di così?
Terza tappa: 2009. I problemi per me sorgono quando Ferraris illustra la pars construens del suo pensiero, quando spiega in che senso e in che modo egli vuole ristabilire l’idea di realtà e il concetto della verità. Qui il riferimento d’obbligo è al suo libro di maggior impegno fra gli ultimi pubblicati, quello con intento sistematico: Documentalità, uscito da Laterza nel 2009. In esso Ferraris ci offre un “catalogo del mondo”, che per lui è un mondo di oggetti, fatti bruti, tutti ben distinti e separati: oggetti naturali, ideali, sociali, secondo la sua classificazione. Il rapporto fra oggetti e mondo è quello fra contenuto e contenitore. Con un gusto oserei dire quasi snobistico, egli butta al mare tutto il pensiero moderno successivo a Kant, recuperando un concetto di “natura” alquanto astratto: fra i razionalisti cartesiani da una parte e i teorici della decostruzione e del postmoderno dall’altra è come se, per lui, non ci fosse proprio nulla. La sua prospettiva è quella che in linguaggio tecnico si chiama “realismo ingenuo” in quanto non tiene conto della svolta che la filosofia ha subìto con la “rivoluzione copernicana” di Kant: quella “svolta trascendentale” che ci porta ad affermare che non esiste o non ci è dato attingere una “realtà in sé” con la ragione, perché la realtà è sempre mediata nella conoscenza dai nostri schemi concettuali. In questo senso si parla di “presupposto oggettivante” come di un pre-giudizio che non regge ad una attenta riflessione.
Immediate conseguenze del modo di pensare di Ferraris sono due: la logica può essere solo quella formale delle scienze; la verità non è altro che la vecchia adaequatio rei et intellecctus, quella “corrispondenza” perfetta che in San Tommaso aveva correttamente un garante di ultima istanza nel Padreterno.
Ricapitolando: per Ferraris la realtà e la verità esistono, ma come mondo di oggetti già dato e come “esattezza” di tipo matematico del discorso. Non come storia e come articolazione razionale di un discorso su di essa. Ulteriore e non inessenziale conseguenza: il mondo dei sentimenti, delle passioni, dell’immaginazione, dell’intuizione, non può avere nessuna virtù conoscitiva.

Maurizio Ferraris

Una conclusione. Ecco allora chiarito il motivo della mia insoddisfazione. Il dibattito fra neorealisti e postmoderni tiene fuori tutta la filosofia classica tedesca. E tiene in conseguenza fuori anche la tradizione italiana che in modo sempre critico e autonomo su quelle basi si era fondata. È un problema solo teorico? Non credo. Come Ferraris ci ha mostrato con il gioco delle diapositive, ogni scelta teorica ha un correlato pratico. Il pensiero non è mai innocente.
L’autore che non è assolutamente tenuto presente o quanto meno non è preso sul serio in tutta la sua forza e vigore speculativo è Hegel, il pensatore che ci ha mostrato come la realtà e la verità esistono, ma anche come non siano delle cose pallide ed esangui, degli oggetti separati che stanno lì fuori ad aspettare che noi li incrociamo e “rispecchiamo”. Prima di tutto la realtà è un processo e non un risultato. Poi è un insieme interrelato di forze concrete, reali, storiche, in tensione dialettica tra loro. “Il vero è l’intero” e questo intero è “totalità organica”: non un semplice aggregato di oggetti, ma un insieme di elementi storici in progresso e interdipendenti. Confacente alla realtà è una logica che non si limiti a separare astrattamente gli elementi, ma sappia vederne anche le intercorrelazioni reciproche: che sia confacente nel pensiero al movimento dialettico o storico del reale. In definitiva, è la dialettica il vero rimosso di questa polemica e anche del pensiero italiano degli ultimi anni. È come se, a un certo punto, si sia voluto buttare via con l’acqua sporca dell’utopismo marxista anche il bambino del suo canone di interpretazione storica.

Benedetto Croce

Ovviamente da integrare con altri canoni, come ci ha insegnato Croce, ma comunque assolutamente da non ignorare. Anche perché la dialettica ci insegna a tenere aperto uno spazio di comunicazione fra prospettive e idee diverse, ad avere consapevolezza che anche chi consideriamo in “errore” può essere portatore di qualche elemento di “verità”, a non opporci in modo astratto a chi la pensa diversamente da noi ma a cercare di mediare e integrare le loro posizioni nelle nostre perché la verità esiste ma non è monopolio di nessuno.
Lo stesso Croce, il punto più alto della nostra tradizione filosofica e storicistica, mostrò come sia in Hegel sia in Marx ci fosse un momento in cui la dialettica si contraddiceva e si chiudeva: lo Spirito assoluto nel primo, la futura società comunista nel secondo. Ma le contraddizioni dei grandi dovrebbero essere smascherate, non dovrebbero servire per occultare le loro conquiste.
E come dimenticare che ci fu anche chi come Guido De Ruggiero, a mio avviso non a torto, individuò in Hegel, nella sua idea di conflittualità produttiva emergente dall’analisi del rapporto servo-padrone, addirittura un padre del liberalismo? E finì per dedicargli un capitolo centrale della sua Storia del liberalismo europeo, un volume che, a dimostrazione del carattere cosmopolita di quella nostra cultura, fu subito tradotto dal grande “crociano” di Oxford Collingwood per i tipi della Cambridge University Press, avendo una diffusione enorme e comparendo per molto tempo nelle bibliografie sul tema. Lo stesso marxismo italiano, pur con tutti i suoi limiti, grazie soprattutto a Gramsci, si era costruito su una solida base storicistica, in una linea di continuità di pensiero che da Machiavelli e De Sanctis giungeva a Labriola e Croce.

Siamo sicuri che tutto questo sia un passato da dimenticare? Come non vederne la solidità e il rigore di pensiero e azione? A mio modo di vedere non si può cambiare, né andare incontro al futuro, se non ci si confronta con questa nostra identità, se non si ha il coraggio di superarla anche ma comunque restando alla sua altezza.