Restituiteci la filosofia classica tedesca, please
Il vero rimosso della polemica tra neorealisti e postmoderni, è la dialettica che ci insegna a tenere aperto uno spazio di comunicazione fra prospettive e idee diverse, ad avere consapevolezza che anche chi consideriamo in “errore” può essere portatore di qualche elemento di “verità”.
di Corrado Ocone. Il Riformista, 3 dicembre 2011
L'intervento di Filippo La Porta su Ragioni di domenica scorsa,
nonostante il suggestivo accostamento di democrazia e verità, si presta
ad alcune obiezioni di fondo. Più in generale, è proprio il dibattito
attuale fra neorealisti e postmodernisti che lascia profondamente
insoddisfatti. A ben vedere, in entrambi gli schieramenti c’è un
rimosso, un macigno che ostruisce la strada e che non può semplicemente
essere scansato deviando. Il rischio è che ci si perda per davvero. Per
chiarirmi io stesso e per chiarire a voi il senso di questa
insoddisfazione e anche la natura del grande rimosso, propongo in questa
sede un itinerario in tre tappe, che vanno a ritroso nel tempo, e una
conclusione.
Prima tappa: estate 2011. Che un’epoca della storia
delle idee fosse finita lo avevamo capito da un po’. Quest’estate però
la conferma ci è arrivata dal mensile inglese Prospect che ha pubblicato
un lungo e persuasivo articolo del critico letterario Edward Docx con
un titolo che era una campana a morto: «Il postmodernismo è finito». Lo
spunto era una esposizione che è tuttora in corso al Royal and Albert
Museum di Londra e che permette di storicizzare un’epoca, gli ultimi
trent’anni approssimativamente, in cui non solo le arti, ma anche la
filosofia, i comportamenti, gli stili di vita hanno assunto un tono ben
determinato.
![]() |
Jean-François Lyotard |
Del postmoderno anzi, a ben vedere, si può addirittura
fissare una data di nascita, un momento in cui giunge a consapevolezza. È
il 1979, l’anno in cui cioè il sociologo Jean Francois Lyotard pubblica
con il titolo La condition postmoderne un agile rapporto sullo stato
del sapere nel mondo contemporaneo che gli è stato commissionato
dall’Unesco
In esso egli parla di fine delle metanarrazioni, cioè
della crisi irreversibile di quelle dottrine che avevano fino allora
preteso di dare un senso unitario alla realtà: l’illuminismo,
l’idealismo, il marxismo. Al loro posto, Lyotard vede all’opera una
positiva pluralità di linguaggi e di saperi, una frammentazione e una
dispersione del senso che, a suo dire, può coincidere con
l’emancipazione umana, con la libertà da ogni costrizione di vita e di
pensiero. È l’immagine gioiosa di Zarathustra che danza. E comunque un
richiamo a quel prospettivismo che aveva portato Nietzsche a dire che
«non ci sono fatti ma solo interpretazioni».
Come sia andata a
finire, è dato sapere. Come ammette lo stesso Vattimo, che con il
filosofo americano Richard Rorty e altri tentò di dare una base
filosofica al nuovo “spirito dei tempo”, non fu previsto che, nel
deserto delle ideologie, una sarebbe tuttavia sopravvissuta e avrebbe
soppiantato ogni altra. Più pericolosa delle altre, perché si sarebbe
presentata come una non ideologia. Non è un caso che il trentennio del
postmoderno abbia coinciso con quello del neoliberismo, cioè con il
tracimare in una mistica dell’idea di Mercato. E non è un caso che oggi
anch’essa sembra finita, almeno da un punto di vista teorico: la crisi
finanziaria del 2008, che ancora tutti ci avvolge, ne ha mostrato fin
troppo bene i vizi e i limiti.
Seconda tappa: ottobre 2010. Fra i
critici più eminenti del postmoderno in Italia si segnala Maurizio
Ferraris, con le cui posizioni La Porta si mostra particolarmente
simpatetico. Allievo di Vattimo, autore di una importante Storia
dell’ermeneutica (1988) tradotta in più lingue, Ferraris, a partire
dall’inizio degli anni Novanta, matura una svolta radicale del suo
pensiero: uccide metaforicamente il proprio Padre-Maestro e va
elaborando una sua autonoma prospettiva realista o neo-realista.
![]() |
Richard Rorty |
Un
anno fa ho avuto l’onore di essere invitato a Napoli da Ferraris ad un
seminario in cui ha presentato a un ristretto numero di studiosi la sua
critica del postmoderno. L’ho trovato molto persuasiva. In modo
inconsueto per un filosofo, Ferraris ha proiettato delle diapositive
illustrative. In una c’era una foto di Rorty accompagnata da tre
icastiche affermazioni, che cito a mente: 1) la verità e la realtà sono
concetti violenti, dispotici, vanno eliminati; 2) bisogna essere
“teorici ironici”, cioè non prendersi sul serio e non credere fino in
fondo a se stessi e a quanto si dice; 3) bisogna promuovere una
“rivoluzione desiderante”. Dopo aver commentato, Ferraris ha cambiato
diapositiva: nella successiva le tre frasi restavano le stesse, ma al
posto di Rorty compariva la foto di Berlusconi. Più chiaro di così?
Terza
tappa: 2009. I problemi per me sorgono quando Ferraris illustra la pars
construens del suo pensiero, quando spiega in che senso e in che modo
egli vuole ristabilire l’idea di realtà e il concetto della verità. Qui
il riferimento d’obbligo è al suo libro di maggior impegno fra gli
ultimi pubblicati, quello con intento sistematico: Documentalità, uscito
da Laterza nel 2009. In esso Ferraris ci offre un “catalogo del mondo”,
che per lui è un mondo di oggetti, fatti bruti, tutti ben distinti e
separati: oggetti naturali, ideali, sociali, secondo la sua
classificazione. Il rapporto fra oggetti e mondo è quello fra contenuto e
contenitore. Con un gusto oserei dire quasi snobistico, egli butta al
mare tutto il pensiero moderno successivo a Kant, recuperando un
concetto di “natura” alquanto astratto: fra i razionalisti cartesiani da
una parte e i teorici della decostruzione e del postmoderno dall’altra è
come se, per lui, non ci fosse proprio nulla. La sua prospettiva è
quella che in linguaggio tecnico si chiama “realismo ingenuo” in quanto
non tiene conto della svolta che la filosofia ha subìto con la
“rivoluzione copernicana” di Kant: quella “svolta trascendentale” che ci
porta ad affermare che non esiste o non ci è dato attingere una “realtà
in sé” con la ragione, perché la realtà è sempre mediata nella
conoscenza dai nostri schemi concettuali. In questo senso si parla di
“presupposto oggettivante” come di un pre-giudizio che non regge ad una
attenta riflessione.
Immediate conseguenze del modo di pensare di
Ferraris sono due: la logica può essere solo quella formale delle
scienze; la verità non è altro che la vecchia adaequatio rei et
intellecctus, quella “corrispondenza” perfetta che in San Tommaso aveva
correttamente un garante di ultima istanza nel Padreterno.
Ricapitolando:
per Ferraris la realtà e la verità esistono, ma come mondo di oggetti
già dato e come “esattezza” di tipo matematico del discorso. Non come
storia e come articolazione razionale di un discorso su di essa.
Ulteriore e non inessenziale conseguenza: il mondo dei sentimenti, delle
passioni, dell’immaginazione, dell’intuizione, non può avere nessuna
virtù conoscitiva.
![]() |
Maurizio Ferraris |
Una conclusione. Ecco allora chiarito il motivo
della mia insoddisfazione. Il dibattito fra neorealisti e postmoderni
tiene fuori tutta la filosofia classica tedesca. E tiene in conseguenza
fuori anche la tradizione italiana che in modo sempre critico e autonomo
su quelle basi si era fondata. È un problema solo teorico? Non credo.
Come Ferraris ci ha mostrato con il gioco delle diapositive, ogni scelta
teorica ha un correlato pratico. Il pensiero non è mai innocente.
L’autore
che non è assolutamente tenuto presente o quanto meno non è preso sul
serio in tutta la sua forza e vigore speculativo è Hegel, il pensatore
che ci ha mostrato come la realtà e la verità esistono, ma anche come
non siano delle cose pallide ed esangui, degli oggetti separati che
stanno lì fuori ad aspettare che noi li incrociamo e “rispecchiamo”.
Prima di tutto la realtà è un processo e non un risultato. Poi è un
insieme interrelato di forze concrete, reali, storiche, in tensione
dialettica tra loro. “Il vero è l’intero” e questo intero è “totalità
organica”: non un semplice aggregato di oggetti, ma un insieme di
elementi storici in progresso e interdipendenti. Confacente alla realtà è
una logica che non si limiti a separare astrattamente gli elementi, ma
sappia vederne anche le intercorrelazioni reciproche: che sia confacente
nel pensiero al movimento dialettico o storico del reale. In
definitiva, è la dialettica il vero rimosso di questa polemica e anche
del pensiero italiano degli ultimi anni. È come se, a un certo punto, si
sia voluto buttare via con l’acqua sporca dell’utopismo marxista anche
il bambino del suo canone di interpretazione storica.
![]() |
Benedetto Croce |