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domenica 4 dicembre 2011

Corrado Ocone e la filosofia classica tedesca

Restituiteci la filosofia classica tedesca, please

Il vero rimosso della polemica tra neorealisti e postmoderni, è la dialettica che ci insegna a tenere aperto uno spazio di comunicazione fra prospettive e idee diverse, ad avere consapevolezza che anche chi consideriamo in “errore” può essere portatore di qualche elemento di “verità”.

di Corrado Ocone. Il Riformista, 3 dicembre 2011

L'intervento di Filippo La Porta su Ragioni di domenica scorsa, nonostante il suggestivo accostamento di democrazia e verità, si presta ad alcune obiezioni di fondo. Più in generale, è proprio il dibattito attuale fra neorealisti e postmodernisti che lascia profondamente insoddisfatti. A ben vedere, in entrambi gli schieramenti c’è un rimosso, un macigno che ostruisce la strada e che non può semplicemente essere scansato deviando. Il rischio è che ci si perda per davvero. Per chiarirmi io stesso e per chiarire a voi il senso di questa insoddisfazione e anche la natura del grande rimosso, propongo in questa sede un itinerario in tre tappe, che vanno a ritroso nel tempo, e una conclusione.
Prima tappa: estate 2011. Che un’epoca della storia delle idee fosse finita lo avevamo capito da un po’. Quest’estate però la conferma ci è arrivata dal mensile inglese Prospect che ha pubblicato un lungo e persuasivo articolo del critico letterario Edward Docx con un titolo che era una campana a morto: «Il postmodernismo è finito». Lo spunto era una esposizione che è tuttora in corso al Royal and Albert Museum di Londra e che permette di storicizzare un’epoca, gli ultimi trent’anni approssimativamente, in cui non solo le arti, ma anche la filosofia, i comportamenti, gli stili di vita hanno assunto un tono ben determinato.
Jean-François Lyotard

Del postmoderno anzi, a ben vedere, si può addirittura fissare una data di nascita, un momento in cui giunge a consapevolezza. È il 1979, l’anno in cui cioè il sociologo Jean Francois Lyotard pubblica con il titolo La condition postmoderne un agile rapporto sullo stato del sapere nel mondo contemporaneo che gli è stato commissionato dall’Unesco
In esso egli parla di fine delle metanarrazioni, cioè della crisi irreversibile di quelle dottrine che avevano fino allora preteso di dare un senso unitario alla realtà: l’illuminismo, l’idealismo, il marxismo. Al loro posto, Lyotard vede all’opera una positiva pluralità di linguaggi e di saperi, una frammentazione e una dispersione del senso che, a suo dire, può coincidere con l’emancipazione umana, con la libertà da ogni costrizione di vita e di pensiero. È l’immagine gioiosa di Zarathustra che danza. E comunque un richiamo a quel prospettivismo che aveva portato Nietzsche a dire che «non ci sono fatti ma solo interpretazioni».
Come sia andata a finire, è dato sapere. Come ammette lo stesso Vattimo, che con il filosofo americano Richard Rorty e altri tentò di dare una base filosofica al nuovo “spirito dei tempo”, non fu previsto che, nel deserto delle ideologie, una sarebbe tuttavia sopravvissuta e avrebbe soppiantato ogni altra. Più pericolosa delle altre, perché si sarebbe presentata come una non ideologia. Non è un caso che il trentennio del postmoderno abbia coinciso con quello del neoliberismo, cioè con il tracimare in una mistica dell’idea di Mercato. E non è un caso che oggi anch’essa sembra finita, almeno da un punto di vista teorico: la crisi finanziaria del 2008, che ancora tutti ci avvolge, ne ha mostrato fin troppo bene i vizi e i limiti.

Seconda tappa: ottobre 2010. Fra i critici più eminenti del postmoderno in Italia si segnala Maurizio Ferraris, con le cui posizioni La Porta si mostra particolarmente simpatetico. Allievo di Vattimo, autore di una importante Storia dell’ermeneutica (1988) tradotta in più lingue, Ferraris, a partire dall’inizio degli anni Novanta, matura una svolta radicale del suo pensiero: uccide metaforicamente il proprio Padre-Maestro e va elaborando una sua autonoma prospettiva realista o neo-realista.

Richard Rorty

Un anno fa ho avuto l’onore di essere invitato a Napoli da Ferraris ad un seminario in cui ha presentato a un ristretto numero di studiosi la sua critica del postmoderno. L’ho trovato molto persuasiva. In modo inconsueto per un filosofo, Ferraris ha proiettato delle diapositive illustrative. In una c’era una foto di Rorty accompagnata da tre icastiche affermazioni, che cito a mente: 1) la verità e la realtà sono concetti violenti, dispotici, vanno eliminati; 2) bisogna essere “teorici ironici”, cioè non prendersi sul serio e non credere fino in fondo a se stessi e a quanto si dice; 3) bisogna promuovere una “rivoluzione desiderante”. Dopo aver commentato, Ferraris ha cambiato diapositiva: nella successiva le tre frasi restavano le stesse, ma al posto di Rorty compariva la foto di Berlusconi. Più chiaro di così?
Terza tappa: 2009. I problemi per me sorgono quando Ferraris illustra la pars construens del suo pensiero, quando spiega in che senso e in che modo egli vuole ristabilire l’idea di realtà e il concetto della verità. Qui il riferimento d’obbligo è al suo libro di maggior impegno fra gli ultimi pubblicati, quello con intento sistematico: Documentalità, uscito da Laterza nel 2009. In esso Ferraris ci offre un “catalogo del mondo”, che per lui è un mondo di oggetti, fatti bruti, tutti ben distinti e separati: oggetti naturali, ideali, sociali, secondo la sua classificazione. Il rapporto fra oggetti e mondo è quello fra contenuto e contenitore. Con un gusto oserei dire quasi snobistico, egli butta al mare tutto il pensiero moderno successivo a Kant, recuperando un concetto di “natura” alquanto astratto: fra i razionalisti cartesiani da una parte e i teorici della decostruzione e del postmoderno dall’altra è come se, per lui, non ci fosse proprio nulla. La sua prospettiva è quella che in linguaggio tecnico si chiama “realismo ingenuo” in quanto non tiene conto della svolta che la filosofia ha subìto con la “rivoluzione copernicana” di Kant: quella “svolta trascendentale” che ci porta ad affermare che non esiste o non ci è dato attingere una “realtà in sé” con la ragione, perché la realtà è sempre mediata nella conoscenza dai nostri schemi concettuali. In questo senso si parla di “presupposto oggettivante” come di un pre-giudizio che non regge ad una attenta riflessione.
Immediate conseguenze del modo di pensare di Ferraris sono due: la logica può essere solo quella formale delle scienze; la verità non è altro che la vecchia adaequatio rei et intellecctus, quella “corrispondenza” perfetta che in San Tommaso aveva correttamente un garante di ultima istanza nel Padreterno.
Ricapitolando: per Ferraris la realtà e la verità esistono, ma come mondo di oggetti già dato e come “esattezza” di tipo matematico del discorso. Non come storia e come articolazione razionale di un discorso su di essa. Ulteriore e non inessenziale conseguenza: il mondo dei sentimenti, delle passioni, dell’immaginazione, dell’intuizione, non può avere nessuna virtù conoscitiva.

Maurizio Ferraris

Una conclusione. Ecco allora chiarito il motivo della mia insoddisfazione. Il dibattito fra neorealisti e postmoderni tiene fuori tutta la filosofia classica tedesca. E tiene in conseguenza fuori anche la tradizione italiana che in modo sempre critico e autonomo su quelle basi si era fondata. È un problema solo teorico? Non credo. Come Ferraris ci ha mostrato con il gioco delle diapositive, ogni scelta teorica ha un correlato pratico. Il pensiero non è mai innocente.
L’autore che non è assolutamente tenuto presente o quanto meno non è preso sul serio in tutta la sua forza e vigore speculativo è Hegel, il pensatore che ci ha mostrato come la realtà e la verità esistono, ma anche come non siano delle cose pallide ed esangui, degli oggetti separati che stanno lì fuori ad aspettare che noi li incrociamo e “rispecchiamo”. Prima di tutto la realtà è un processo e non un risultato. Poi è un insieme interrelato di forze concrete, reali, storiche, in tensione dialettica tra loro. “Il vero è l’intero” e questo intero è “totalità organica”: non un semplice aggregato di oggetti, ma un insieme di elementi storici in progresso e interdipendenti. Confacente alla realtà è una logica che non si limiti a separare astrattamente gli elementi, ma sappia vederne anche le intercorrelazioni reciproche: che sia confacente nel pensiero al movimento dialettico o storico del reale. In definitiva, è la dialettica il vero rimosso di questa polemica e anche del pensiero italiano degli ultimi anni. È come se, a un certo punto, si sia voluto buttare via con l’acqua sporca dell’utopismo marxista anche il bambino del suo canone di interpretazione storica.

Benedetto Croce

Ovviamente da integrare con altri canoni, come ci ha insegnato Croce, ma comunque assolutamente da non ignorare. Anche perché la dialettica ci insegna a tenere aperto uno spazio di comunicazione fra prospettive e idee diverse, ad avere consapevolezza che anche chi consideriamo in “errore” può essere portatore di qualche elemento di “verità”, a non opporci in modo astratto a chi la pensa diversamente da noi ma a cercare di mediare e integrare le loro posizioni nelle nostre perché la verità esiste ma non è monopolio di nessuno.
Lo stesso Croce, il punto più alto della nostra tradizione filosofica e storicistica, mostrò come sia in Hegel sia in Marx ci fosse un momento in cui la dialettica si contraddiceva e si chiudeva: lo Spirito assoluto nel primo, la futura società comunista nel secondo. Ma le contraddizioni dei grandi dovrebbero essere smascherate, non dovrebbero servire per occultare le loro conquiste.
E come dimenticare che ci fu anche chi come Guido De Ruggiero, a mio avviso non a torto, individuò in Hegel, nella sua idea di conflittualità produttiva emergente dall’analisi del rapporto servo-padrone, addirittura un padre del liberalismo? E finì per dedicargli un capitolo centrale della sua Storia del liberalismo europeo, un volume che, a dimostrazione del carattere cosmopolita di quella nostra cultura, fu subito tradotto dal grande “crociano” di Oxford Collingwood per i tipi della Cambridge University Press, avendo una diffusione enorme e comparendo per molto tempo nelle bibliografie sul tema. Lo stesso marxismo italiano, pur con tutti i suoi limiti, grazie soprattutto a Gramsci, si era costruito su una solida base storicistica, in una linea di continuità di pensiero che da Machiavelli e De Sanctis giungeva a Labriola e Croce.

Siamo sicuri che tutto questo sia un passato da dimenticare? Come non vederne la solidità e il rigore di pensiero e azione? A mio modo di vedere non si può cambiare, né andare incontro al futuro, se non ci si confronta con questa nostra identità, se non si ha il coraggio di superarla anche ma comunque restando alla sua altezza.

domenica 11 settembre 2011

Ulteriori accostamenti arditi, vittima il pensiero debole

Postmoderno, un pensiero contiguo alla verità neoliberista
Liberazione, 11 settembre 2011. Di Roberto Gramiccia

Il 24 settembre al Victoria and Albert Museum di Londra si inaugurerà la grande mostra dal titolo Postmoderno-Stile e sovversione 1970-1990. Si tratterà di una memorabile retrospettiva globale sui rapporti fra arti visive, design e Postmoderno. Sono in molti a prevedere che ciò potrà sancire la fine dell'influenza del Postmodern sull'arte. Noi non nutriamo la stessa fiducia visto il ruolo che oggettivamente ha svolto questa corrente di pensiero nel legittimare qualsiasi intrapresa post-ideologica contigua agli attuali assetti di potere. A incrementare l'attenzione su questa notizia concorre l'acceso dibattito su giornali e riviste sul lancio, da parte di Maurizio Ferraris, del manifesto del cosiddetto New Realism. Quest'ultimo si colloca in aperto contrasto con le note posizioni di Vattimo e del suo Pensiero debole (pubblicato con Rovatti nel 1983), una vera e propria architrave nobile del postmoderno italiano.
Lo scontro, nemmeno troppo diplomatico, pone, finalmente, la questione del superamento di posizioni fino a oggi vincenti che, traendo spunto dal fallimento delle grandi utopie, sancivano l'eclissi di qualsiasi idea forte (tipica del modernismo) a favore di una prospettiva progettualmente postmoderna e "debolista", istruita alla plasticità di un esercizio del dubbio sistematico e aperto a legittimare le molte verità possibili (a partire da quella neoliberista). Nella primavera prossima un grande convegno a Bonn, a cui parteciperà anche Umberto Eco e altri filosofi internazionali, affronterà queste tematiche. Tematiche che, c'è da aspettarsi, saranno anticipatamente dibattute ad alto livello nel prossimo Festival della Filosofia di Modena che vedrà Maurizio Ferraris fra i protagonisti.
Ma che cos'è veramente il Postmoderno? Si tratta dell'"incredulità verso la metanarrativa", un'espressione sintetica di Jean-Francois Lyotard, il quale con la sua Condition postmoderne (1979) è stato il maggior teorico di questo pensiero, per altro manifestatosi precedentemente (sin dagli anni Sessanta) in ambiti artistico letterari e in particolare in architettura. Secondo Lyotard, con il decadere dei grandi sistemi interpretativi applicati alla scienza, alla politica e all'arte sarebbe finito il tempo delle narrazioni (evidentemente Niki Vendola ha tratto grande alimento da queste riflessioni). Non esisterebbero, cioè, più verità forti ma solo temporanee probabilità, spesso utili da un punto di vista tattico-pragmatico ma non utilizzabili dal punto di vista delle grandi strategie di trasformazione del mondo.
Francis Fukuyama
Il Postmoderno trova nel celebre assunto nietzschiano «non esistono fatti ma solo interpretazioni dei fatti» il suo fondamento relativistico. Qualsiasi concezione della storia che sia fondata su un disegno unitario disposto a prendere in considerazione - pur nella consapevolezza delle inevitabili difficoltà - un unico e/o prevalente prospettiva possibile è negato in partenza.
La fine della storia di Fukuyama, infatti, tredici anni dopo la Condizione postmoderna, cristallizzerà le posizioni di Lyotard. Scienza, arte, architettura e letteratura diventano sottoinsiemi di un pensiero più generale che tende a teorizzare l'impossibilità e anzi la nocività di qualsiasi visione unitaria e coerente. Gli scienziati possono avanzare solo delle opinioni. Gli architetti e gli artisti possono solo rivisitare concezioni e stili che appartengono al passato perché con la "fine della storia", semplicemente, ogni futuro ha cessato di esistere. Il capitalismo è il grande vincitore. Non solo non esistono certezze in grado di contestare questo dato di fatto ma nemmeno plausibili controdeduzioni. E così tutto sfuma e si relativizza. Ogni pensiero altro e ogni azione naufragano prima di prendere il largo. Quanto questo possa far piacere ai burattinai di questo teatrino è facile capire.
Scrive F. Jameson, il quale considera il postmoderno come una proiezione del tardocapitalismo globalizzato: «Il lettore non si lasci fuorviare dal fatto che Lyotard enumeri cinque diverse grandi narrazioni (Illuminismo, Idealismo, Marxismo, Cristianesimo e Capitalismo); è una sola la grande narrazione che Lyotard desidera realmente falsificare, ed è quella comunista e marxista (…) Egli per ammazzare il padre uccide tutti gli adulti» (Il Postmoderno o la logica cultura del tardocapitalismo).
In Italia Portoghesi per l'architettura e Achille Bonito Oliva per le arti visive sono stati i più grandi interpreti di questo pensiero. La Transavanguardia, che conosciamo meglio, è stato il movimento artistico che più si è adeguato a questa visione tattica (volutamente non strategica), oggettivamente antimoderna e nomadica (come chi vaga senza avere una meta). I risultati noi li conosciamo e non sono irresistibili (tranne alcune eccezioni). Ricominciare allora a credere che la storia non si ferma e che in arte, come in politica, come in architettura, come in letteratura - senza indulgere in stucchevoli e improbabili sicurezze - si deve guardare in alto, si deve guardare in avanti, perché questo mondo per forza va cambiato, è oggi più che mai necessario. Speriamo veramente che la mostra di Londra e il Convegno di Bonn avvicinino questa prospettiva.

lunedì 5 settembre 2011

Un altro bilancio sul postmoderno


Goodbye postmoderno
La sua fine su “Prospect”
Corrado Ocone - Il riformista, 30 agosto 2011

Jean François Lyotard
Il postmodernismo è morto. Con questo titolo icastico il prestigioso mensile britannico “Prospect”, nel numero di agosto, presenta un lungo articolo dedicato ad una fase storica della cultura, della società e della politica che giudica ormai definitivamente finita. Essa abbraccia gli ultimi trenta o quarant’anni ed è caratterizzata da alcune idee guida, modi di pensare, icone e mitologie facilmente identificabili. L’occasione dell’articolo è data dall’inaugurazione, il 24 settembre prossimo, al Victoria and Albert Museum di Londra, della “prima retrospettiva complessiva sul fenomeno”: Postmodernism. Style and subversion. La mostra, secondo lo scrittore Edward Docx, autore dell’articolo, storicizzando il fenomeno lo mostrerebbe nella sua compiutezza e, alla fine, nella sua distanza dai nuovi problemi che ci assillano e dalle nuove modalità di senso con cui ci rapportiamo ad essi.
Ma cosa è  stato propriamente il postmoderno? Da un punto di vista filosofico, possiamo dire che si è  trattato di una reazione alla fine di quelle “grandi narrazioni” che secondo Lyotard, autore nel 1979 del fortunato pamphlet su La condizione postmoderna avrebbero caratterizzato la modernità (in pratica, tutte le grandi ideologie, dal marxismo al progressismo borghese, dal liberalismo classico al cristianesimo politico). In verità, si è  trattato di una imponente operazione di messa in scacco dei classici concetti di verità e realtà su cui si è  costruito il pensiero occidentale. Ciò è avvenuto mediante un processo di “decostruzione”, una parola chiave del lessico postmoderno (al centro del pensiero di un filosofo solo parzialmente assimilabile alla temperie quale Derrida): grazie cioè alla messa in luce degli elementi “impuri” che sono alla base dei concetti giudicati “alti” o “nobili” dalla nostra tradizione (Nietzsche, sicuramente un progenitore di questo modo di pensare, aveva parlato di “genealogia della morale”). Si è  perciò parlato addirittura della “violenza” del concetto di verità, dei meccanismi di potere che ne sarebbero alla base e che avrebbero dato una giustificazione morale, ad esempio, alla nostra arroganza verso i popoli non occidentali. Da questo punto di vista la stessa realtà è  un meccanismo di dominio con la cui falsa cogenza si sono tarpate le ali alla fantasia, alla creatività, alla capacità di ricrearci il mondo secondo i nostri desideri (per i postmodernisti, l’uomo è  soprattutto un essere desiderante). La strategia di risposta postmodernista è stata la spettacolarizzazione o virtualizzazione del reale, e quindi l’indistinzione sempre piu marcata fra il vero e il falso, fra l’essere e l’apparire (un processo favorito in qualche modo dall’avanzare di Internet o da spettacoli televisivi tipo “Il grande fratello”, tipicamente postmoderni); la fine delle sintesi unitarie e una spiccata propensione alla frammentazione sia nella costruzione del sapere sia delle identità personali (le quali possono essere continuamente cambiate quasi fossero degli abiti); la fine di ogni gerarchizzazione, anche e soprattutto nell’ambito culturale, ove la pop culture, mettiamo Madonna, un’altra icona postmoderna, ha la stessa dignità di Dante o Shakespeare. Strategia tipicamente postmoderna è stata poi l’ironia, teorizzata dal filosofo americano Rorty: una sorta di presa in giro dei valori attraverso il sarcarsmo, ma sostanzialmente un comportamento di vita deresponsabilizzante che non prende sul serio niente e nessuno.
Milton Friedman
Ma il postmoderno è  veramente alle nostre spalle? E quali sono i segni del suo trapasso? C’è  veramente in giro una nuova voglia di fare sul serio, di “pesantezza”? Qui il discorso, probailmente, si fa politico. L’articolo di “Prospect” non lo dice, ma gli anni del postmoderno hanno coinciso con l’affermazione di una ideologia non solo onnipervasiva, ma anche subdola perchè  si è  presentata come il suo contrario, come la risposta alla fine di ogni ideologia o “narrazione” più o meno grande. In sostanza, la politica, seguendo i dettami di questa ideologia, ha abdicato ai propri compiti e ha decretato la supremazia dei mercati, nel frattempo sempre più globali. Non solo non si sono costruiti solidi organismi di governance politica democratica globale, ma gli stessi stati nazionali sono stati visti, almeno fino alla grande crisi del 2008, per dirla con Reagan, come il problema e non come una soluzione. Il Mercato come divinità spontaneamente autoregolantesi è diventato il nuovo Dio, un feticcio  indiscutibile a cui prostrarsi acriticamente. Questa ideologia, ormai nota come neoliberalismo (per distinguerla dal liberalismo classico di un Tocqueville o di un Mill, sempre attento alla “parità delle condizioni di partenza” e alle “eguali libertà”), ma che a ragione può essere considerata una sorta di darwinismo sociale, si è  sviluppata proprio negli anni Settanta del secolo scorso dapprima in alcune università e centri di ricerca americani (si pensi alla “Scuola di Chicago” e ad economisti fortemente liberisti e antikeynesiani come Friedman) e poi a livello politico con la Thatcher e la deregulation reaganiana. Come mostra un breve ma efficace libro uscito recentemente presso la Oxford,  Neoliberalism di Steger e Roy, la stessa “terza via” di Blair o la politica di Clinton non hanno in sostanza sconfessato i suoi assunti di base. E Obama, che ha tentato di farlo, ha potuto realizzare gli obiettivi che si era proposto in maniera a dir poco molto parziale. 
Visto da questo angolo prospettico, il postmodernismo culturale sembrerebbe avallare la vecchia tesi marxiana della ideologia come sovrastruttura. Quale più funzionale alleato del mercatismo aggressivo di un pensiero in disarmo che predica la fine della verità e della realtà, e in sostanza dello spirito critico?