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martedì 5 luglio 2011

La posta del fegato (Luglio 2011)

La posta del fegato (Rolling Stone, luglio 2011)

A proposito di ira e di pensiero debole (penso alla lettera di Cesare C., RS n. 92), due elementi che in qualche modo definiscono l’orizzonte della mia presenza su queste pagine, sono contento di poter ritornare a chiarire. Anche perché di recente un rapporto del Censis ("Indagine sulla crescente sregolazione delle pulsioni", così sui giornali) ha richiamato l'attenzione sul fatto che gli italiani sono oggi più aggressivi e insieme più depressi (in base al numero di cause relative a liti e risse; e alla quantità di farmaci antidepressivi che si consumano). Come sta una filosofia “debolista” in confronto a questi fenomeni? Serve a mitigare la litigiosità, come ci si aspetterebbe? Ma allora perché il sottoscritto parla di ira in termini più positivi che deprecatori? (Non so se addirittura avevo anche pensato di dare un titolo globale ai miei interventi: Dies irae). Sono mosso a questa visione positiva dell'ira solo da motivi politici? O addirittura privati e psicologici? E la debolezza?

Intanto, devo comunicare che un saggio che ho scritto di recente per un convegno, quasi totalmente inedito, è intitolato “dal pensiero debole al pensiero dei deboli”. Infatti: chi se non i deboli – cioè quelli che Walter Benjamin, nel breve scritto Sulla filosofia della storia, uno dei suoi ultimi, chiama i vinti della storia – può condividere una teoria filosofica debolista? Il pensiero debole, infatti, sostiene che non ci sono verità assolute e valori eterni e indiscutibili, ma solo configurazioni storico-culturali, paradigmi, che rendono possibile la nostra esperienza del mondo (un po’ come gli apriori kantiani), definendo i limiti e i criteri in base a cui si stabilisce che cosa è vero e che cosa è falso: non arbitrariamente, ma in conformità a una appartenenza storica che può sempre essere messa in discussione e che corrisponde a rapporti di forza. Ma i “vincitori”, coloro che detengono il potere, si legittimano da sempre in base a leggi metafisiche: una volta erano i re con il loro preteso diritto divino; oggi sono le autorità che credono di parlare in nome di Dio, o quelle che dicono di parlare a nome dei diritti umani (Bush che bombarda l'Iraq perché vuole promuovere la democrazia...). Di qui l’identificazione: il pensiero debole non può che essere il pensiero dei deboli. Non si limita a descrivere l’essere come debole, ma risponde a un appello: per corrispondere all'essere – per esempio, per realizzare in qualche modo la nostra autenticità umana (ciò che sempre i filosofi hanno detto di voler promuovere) il pensiero deve prender la parte dei deboli, ascoltare e far risuonare le voci di coloro che sono sempre stati “silenziati” dalla storia. Sarà possibile fare questo solo predicando la debolezza, realizzando soggetti sempre più remissivi e non-violenti? Ma anche le formiche, nel loro piccolo, talvolta si incazzano, come diceva il titolo di un libro umoristico di qualche anno fa. Così pure i deboli. Anche per realizzare un mondo “dove buongiorno voglia dire davvero buongiorno” (Zavattini, Miracolo a Milano), occorre qualche volta, e nella misura meno violenta possibile, incazzarsi. Se ci si incazza da soli in genere si produce solo bile in quantità dannose alla salute: ricordo un vecchio amico che, dopo aver fatto il politico per tutta la vita, avrebbe dovuto e potuto andare in pensione. Un giorno lo ritrovo ai comizi, candidato a una elezione: mi dice che lo fa anche per ragioni terapeutiche, glielo ha ordinato il neurologo. Solo la nota sindrome fantozziana del pensionato che torna in azienda perché non può farne a meno? Magari anche. Ma per i tanti non ancora pensionati che si arrabbiano giustamente per le cose che non vanno, fare politica è la sola via di incazzarsi in maniera – anche ontologicamente, per amore dell’essere – sana e produttiva. E meno violenta rispetto alla rivolta individuale o al crimine di strada: una resistenza nonviolenta alla Gandhi funziona se la praticano grandi masse. E a riprova si può anche citare la storia: le rivoluzioni. Cominciano spesso con piccoli atti di disordine, talvolta terroristici; ma si chiamano rivoluzioni solo quando coinvolgono masse di cittadini. Nel mondo superintegrato, e certo anche supercontrollato, in cui viviamo, le chances di fare una rivoluzione con la non violenza sono più grandi che mai. Guardate l'esempio dei grandi boicottaggi – a quanto pare in Canada una grande azienda di mobili ha dovuto smettere il taglio dei boschi perché i clienti non compravano più i suoi prodotti. E Umberto Eco ha proposto poco tempo fa la “pasta Cunegonda”, esempio di una merce non pubblicizzata su cui riversare le proprie preferenze mandando a ramengo le aziende che finanziano con la loro pubblicità ogni genere di porcheria televisiva e politica. Insomma, meno risse di strada e di condominio e meno antidepressivi; e più autentica (anche in senso esistenziale) incazzatura politica. Se anche non faremo subito la rivoluzione, cominceremo a stare un po' meglio.

sabato 18 giugno 2011

La posta del fegato (giugno 2011)

La posta del fegato - Rolling Stone, giugno 2011

Caro Professore, leggo che parte una sua nuova rubrica dedicata all’ira. E ci vedo una contraddizione per una persona che ha fondato l’idea di “pensiero debole”. Cosa resta di quell’idea? Quando non possiamo non dirci incazzati, ha senso parlare di un individuo “indebolito”, fragile. O mai come adesso può tornare utile? Cesare C.

Caro Cesare C., anche nei periodi in cui mi sono sentito più vicino al “debolismo” e alle sue implicazioni etiche ho sempre pensato, e detto, che per diventare deboli ci voleva molta forza. È vero però che non sempre la debolezza del pensiero debole mi è apparsa sotto la medesima luce: alle “origini”, erano gli anni del terrorismo rosso e nero, io pensavo che l’emancipazione a cui guarda la filosofia non potesse in alcun modo confondersi con la presa del potere per mezzo della lotta armata. Il soggetto debole a cui pensavo era piuttosto l’Oltreuomo di Nietzsche, che ha sufficiente spirito di “superiorità” e di distacco per esercitare una certa ironia anche contro se stesso e le proprie pretese di far valere i principi. Del resto, nella debolezza teorizzata era anche inclusa la diffidenza verso ogni forma di assolutismo dei principi, e invece una propensione verso la carità, che allora chiamavo pietas, una sorta di condivisione dei limiti che ci fa guardare agli altri con una certa tenerezza, come verso ogni vivente che è destinato a morire e che, finché è vivo, attraversa tanti momenti di sofferenza legata alla peribilità di tutto; un po’ come suggerisce il detto “sunt lacrimae rerum”, che non so di dove venga ma che esprime una certa mesta accettazione della condizione umana. Anche adesso, del resto, non mi sento di lamentarmi troppo dei miei mali e della mia mortalità, li accetto come atto di solidarietà con gli altri viventi. Noto di passaggio che questo atteggiamento mi ispira anche in rapporto all’eros e al desiderio, alla “carne”: non sei più giovane e attraente, vorrai mica diventare come il Gustav von Aschenbach della Morte a Venezia che, ma forse accade solo nel film, si trucca in vari modi per poter avvicinare il suo amato Tadzio; o, peggio, come qualche ben più vicino e reale mio coetaneo che usa le sue ricchezze per circondarsi di amanti, vere o finte che siano. Mi rendo conto che, messa così, l’etica del pensiero debole scivola nel patetico e nel lamentoso. Dunque lasciamo da parte lamentazioni e compassioni. Che non sono tutte messe fuori gioco per quanto riguarda la (mia) vita privata; ma che certo, almeno sul piano teorico, hanno sempre più lasciato il posto alla indignazione che traspare dal mio testo “inaugurale” uscito nel numero scorso. Che è successo? Direi che sempre più, non per ragioni “filosofiche” (del resto, anche il pensiero debole era profondamente ispirato alla attualità) ma per il corso del mondo, il debolismo ha perso le sue connotazione psicologiche, anche se non etiche, ed è diventato una filosofia della storia, una idea dell’emancipazione umana realizzabile solo attraverso la riduzione della violenza, certo anche accettando quel tanto di violenza che è richiesta per non cedere ai soprusi, per non lasciare che i deboli (noi, anche) siano sempre sopraffatti dai forti come agnelli sacrificali. Debolezza è diventata qui soprattutto il riconoscimento della propria finitezza storica: non sono Dio, non posso pretendere di stare al di sopra delle lotte storiche, sono sempre gettato in un mondo e in una condizione che, ancora una volta, mi obbliga soprattutto alla solidarietà con il mio prossimo. E la solidarietà con il mio prossimo non è dettata puramente e semplicemente dalla mia finitezza storica, per la quale, forse, dovrei solo pensarmi e agire come una parte, un contendente interessato e basta. C’è un elemento di universalità anche nella solidarietà di classe, è come il quantum di universale che riesco a esperire e praticare. Non si ama mai tutta l’umanità, ma se ne ama una parte perché la si vorrebbe amare tutta. Si badi che questo è anche sempre il problema della filosofia: parlo da individua limitato e anche da soggetto “trascendentale”; so che la mia verità è mia, ma la presento, la offro agli altri come l’universale che riesco a pensare; e dunque sempre anche senza nessuna volontà di imposizione. È così, o dovrebbe essere così, la democrazia: prendo il potere se le elezioni me lo danno, ma sempre riconoscendo la possibilità all’opposizione di conquistarlo a sua volta: è il senso della Costituzione, quello che sembra mancare tanto a chi ci governa oggi in Italia. Dunque mi indigno e mi incazzo, e lotto anche con i mezzi di cui dispongo, restando fedele all’ideale di un mondo dove la violenza sia ridotta al minimo… Può un soggetto debole – e cioè consapevole dei propri limiti, ironico anche verso se stesso – essere un buon rivoluzionario (giacché è di questo che si tratta quando mi indigno, in fondo)? Io penso addirittura che solo un soggetto debole, intimamente plurale, niente affatto “cartesiano” (cioè convinto di possedere una verità inconcussa e indubitabile), possa essere un buon rivoluzionario; Stalin non era “debole”, temo nemmeno Lenin. Forse il Che, forse Castro, forse Evo Morales. Non abbiamo prove storiche che un tale tipo di rivoluzionario sia possibile; ma certo, paradossalmente, sarebbe necessario.


domenica 15 maggio 2011

Rolling Stone, "La posta del fegato"


Rolling Stone, "La posta del fegato", maggio 2011

Spero molto nelle lettere che mi invieranno (?) i lettori; perché io, ora, non so davvero che cosa dire. Potrei limitarmi a tradurre in scrittura il sentimento di rabbia (ah, il fegato) che mi suscitano le attuali condizioni del (mio; o non solo) mondo. Rabbia impotente, sempre sul punto di scivolare in quello che Nietzsche chiama il "nichilismo reattivo", e che distingue dal nichilismo attivo il quale distrugge solo in vista di costruire secondo un progetto di alternativa. Un tratto che Nietzsche evidenzia nel nichilismo reattivo come sua caratteristica dominante è lo spirito di vendetta. Io, per esempio, sento sempre più forte la tentazione di bestemmiare (ho persino pensato a una macchina per bestemmiare automaticamente, una sorta di mulino di preghiera orientato in senso opposto). Un vecchio amico ora scomparso usava imprecare sempre con l'espressione "porco qui, porco là" – spiegando che Dio è dappertutto. Non so se considerare la mia tentazione (e spesso non solo) di bestemmiare come una manifestazione di estrema religiosità: prendersela con Dio come responsabile dei nostri guai è comunque un modo di affermare la sua esistenza. Quando bestemmio, però, io preferisco pensare che quel Dio contro cui mi scaglio è solo "il dio dei filosofi", il quale, checché ne pensino papi e teologi, non ha nulla a che fare con il Dio di Gesù, in cui continuo a credere di credere: sarà lui il creatore dell'universo materiale? Forse non possiamo attribuirgli tutta questa tragica responsabilità, con gli tsunami e anche le tante ingiustizie umane: la disciplina filosofico-teologica chiamata teodicea (giustificazione di dio) non ha prodotto che chiacchiere inverosimili, occasionando anche qualche capolavoro come il Candide di Voltaire.

Ma appunto: nichilismo reattivo, spirito di vendetta, tentazione di lasciarsi andare, anche bestemmiando, perché "non c'è niente da fare" (viene in mente il "soluzione non v'è" di un famoso e pensoso filosofo italo-veneziano) e dunque non fare niente, in una sorta di mistica negativa molto estetizzante. E poi, anche decidere che non c'è niente da fare richiede un qualche argomento che spieghi e giustifichi. Che potrebbe e dovrebbe essere il primo passo di un nichilismo attivo; magari solo l'atto di "rovesciare" i tavoli. Il timore che alla fine questo ci si rivolti contro, che, per esempio, se abbandoniamo il Parlamento per una scelta aventiniana alla fine la maggioranza, sia pur precaria e bancaria, finisca per avvantaggiarsi – è ancora una paura che certo Nietzsche, ma nemmeno Di Pietro e Rosy Bindi, approverebbe.

Leggo sul Forum di Libération del 4 aprile una bella pagina sul tema della disobbedienza civile. Almeno, è quella su cui mi fermo, anche perché nei giornali italiani dello stesso giorno non c'è altro, di memorabile che un paio di vignette: Giannelli (Corriere della Sera) con la didascalia: Berlusconi va a Tunisi, i tunisini vengono a Lampedusa: uno scambio?" (si intende, vantaggioso, come quando alla vigilia della guerra contro l'Iraq cantavamo: proponiamo uno scambio a eque condizioni: dateci Saddam, vi diamo Berlusconi); e Altan, (Repubblica), con il personaggio-nasone usuale del vignettista che di fronte al cavalier Banana dice: se non si volta Lei, mi volto io. Per il resto, nei giornali italiani questi giorni, sempre la stesa retorica ipocrita e il relativo sentimento di impotenza: i tunisini li accogliamo se sono veri rifugiati e non clandestini e cioè (Formigoni) se si prova che tornando a casa loro rischiano la morte (non dico una qualche piccola tortura, per esempio); e: il processo Ruby comincerà davvero solo (tempi tecnici) a fine maggio, tra discussione su conflitto di attribuzione, legittimi impedimenti cavaliereschi, ecc.); in Libia ci sono anche i nostri costosissimi Tornado, che però sono là solo per motivi umanitari, per difendere i "civili". E fra poco, anzi, avendo noi riconosciuto come unico governo legittimo il Consiglio di transizione di Bengasi (e cioè, il gruppo che si è intestato il merito della "rivoluzione", ampiamente aiutato, e forse più, con un anticipo di vari mesi, dai servizi , niente affatto segreti, francesi) gli forniremo anche armi e magari "consiglieri militari" (cosi si chiamavano, salvo errori di memoria, le truppe americane all'inizio della guerra del Vietnam)... Davanti al misto di ipocrisia, retorica propagandistica, vera e propria disumanità leghista, non è strano che uno si fermi a riflettere sulla disobbedienza civile; o sulla disobbedienza in generale. Può darsi che alla generazione presente (sono presente anch'io, ancora) sia riservata la vocazione di "resistere, resistere, resistere", senza illusioni di prendere il potere ma solo con lo scopo di ostacolare la logica da "ponte del Titanic" in cui la voracità del capitalismo mondiale minaccia di travolgerci; travolgendo anche se stesso, d'accordo, ma è una magra consolazione.

Gianni Vattimo

lunedì 4 aprile 2011

Editorialista di Rolling Stone

Rolling Stone: nuovi editorialisti di spicco e art director
Gloria Soresi, BE Giornalista

Il noto mensile, Rolling Stone, nel 2011 darà maggiore impulso alla direzione grazie alla collaborazione con nuove firme di editorialiste e art director di rilevante importanza.

Il direttore Carlo Antonelli ha coinvolto come consulente “at large” un giornalista e commentatore culturale, in particolare di “cose” americane, come Stefano Pistolini de “Il Foglio” (anche autore e conduttore di programmi per Radio 24 e, attualmente, a Rai5 come autore della striscia quotidiana “CoolTour”).

Rinnovata, inoltre, la squadra degli editorialisti: il filosofo Gianni Vattimo al posto di Aldo Busi (è altrettanto polemico, ma in modo più strutturato, come visto recentemente ad “AnnoZero” con Santoro), il giornalista economico Oscar Giannino (magnifico per il suo stile sartoriale unico, editorialista di “Panorama“: scriverà per Rolling Stone Italia una rubrica sull’economia nazionale) e il giurista Stefano Rodotà (editorialista di prima pagina di “Repubblica“: si occuperà di una rubrica sui nuovi diritti del cittadino nell’era digitale, suo tema di battaglia da anni).

Altro elemento di eccezione è la crescente rilevanza internazionale del mensile, che ha portato alla testata collaboratori da tutto il mondo di altissimo prestigio che non hanno mai scritto per l’edizione americana: basti solo pensare che lo speciale Design del numero di aprile verrà curato per RS Italia dalle più importanti critiche mondiali del settore, Alice Rawsthorn (che tiene una pagina settimanale sull’International Herald Tribune, considerato lo spazio critico più importante del comparto) e da Paola Antonelli (nessuna parentela col direttore, è la curatrice del design per il MOMA di New York e autrice delle più belle mostre sul progetto contemporaneo). Le due hanno stilato per Rolling una lista dei 20 nomi caldi del decennio a venire (2010-2020), che costituirà di certo un evento assoluto durante i giorni del Salone.

Last but not least, l’arrivo sulla tolda di comando del giornale di Davies Costacurta e Marco Velardi, i nuovi art director che firmano Rolling Stone dal numero di aprile. Velardi è fondatore dell’agenzia SM Associati (che divide con Davies Costacurta e Sean Bealchini, fotografo) e co-direttore del magazine “Apartamento”, un piccolo fenomeno editoriale. Insieme a Davies Costacurta, Velardi ha firmato il recente e apprezzato restyling di Casamica e varato l’art direction di un nuovo trimestrale di fotografia, Fantom, concepito tra Milano e New York.

Matteo Maresi, vice caporedattore di Rolling Stone, è la nuova Iena de Le Iene (Italia 1), una ennesima riprova delle grandi capacità di scouting di talenti del mensile di Editrice Quadratum.

“Il numero di aprile” dice Enrico Torboli, responsabile marketing di Rolling Stone, “che dedica la copertina al ritorno in Italia di Roger Waters con il mitico The Wall, ci dà l’opportunità di fare un positivo bilancio sull’andamento pubblicitario di questi primi mesi. Il fascicolo di aprile fa registrare una crescita in pagine tabellari pari al 8% sullo stesso mese del 2010. Se guardiamo poi ai fatturati, la performance della raccolta tabellare nel primo quadrimestre 2011 in confronto allo stesso periodo dell’anno precedente è davvero eccellente: un +26% che fa bene sperare per il prosieguo dell’anno grazie al grande contributo di 24 Ore System, arrivata un anno fa, proprio ad aprile 2010″.