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sabato 24 marzo 2012

Interrogazione sul rilascio dei visti per gli studenti del Mediterraneo meridionale

8 marzo 2012
O-000063/2012
Interrogazione con richiesta di risposta orale
alla Commissione

Articolo 115 del regolamento
Renate Weber, Annemie Neyts-Uyttebroeck, Sophia in 't Veld, Sonia Alfano, Baroness Sarah Ludford, Andrew Duff, Ivo Vajgl, Marielle de Sarnez, Ramon Tremosa i Balcells, Andrea Zanoni, Gianni Vattimo, Robert Rochefort, Louis Michel, Leonidas Donskis, Nadja Hirsch, Cecilia Wikström, Nathalie Griesbeck, a nome del gruppo ALDE

 Oggetto: Agevolazioni per il rilascio dei visti per gli studenti del Mediterraneo meridionale
I movimenti di protesta nei paesi del Mediterraneo meridionale sono stati sostenuti da una generazione giovane e dinamica che ha espresso domande e aspirazioni concrete, tra cui il diritto a un'istruzione di qualità.
La Commissione ha ripetutamente manifestato la volontà di promuovere scambi accademici con i paesi confinanti con l'UE.
Il progetto Erasmus per i paesi Euromed offre all'UE la possibilità di rispondere in modo specifico a tale domanda di istruzione e mobilità. Tuttavia, gli scambi accademici sono subordinati al rilascio dei visti, le cui procedure possono essere lunghe e piuttosto costose.
Quali misure intende adottare la Commissione per agevolare il rilascio dei visti per gli studenti provenienti dai paesi del Mediterraneo meridionale?

mercoledì 21 marzo 2012

Il governo dei professori e la scuola

Ho aderito anch'io all'iniziativa "L'urlo della scuola", promossa dall'Assemblea dei genitori e insegnanti di Bologna, e sostenuta da moltissime associazioni, comitati di genitori, coordinamenti scolastici e personaggi della cultura, come ricordano gli articoli di cui riporto qui di seguito i link.


Qui l'articolo pubblicato dal Corriere della Sera edizione bolognese, 20 marzo 2012: "Un «urlo» dalle aule contro i prof di Monti"

Qui l'articolo, sempre del 20 marzo, "Bologna, studenti e docenti tornano in piazza per difendere l’istruzione pubblica", pubblicato da Il Fatto Quotidiano.

mercoledì 14 marzo 2012

Bologna Process: Equitable access for study to all

Bologna Process: Equitable access for study to all

The Bologna process and the contribution of the European institutions to its progress was debated today in the European Parliament. The purpose of the Bologna process is to create a European higher education area by making academic degree standards and quality assurance standards more comparable and compatible throughout Europe and beyond. The Bologna Process currently has 46 participating countries, of which 27 EU countries and with the European Commission being an important contributor. 
VATTIMO_90.jpgGianni Vattimo (Italy, Italia dei Valori), has been dealing extensively with the Bologna process.

He says: "One of the greatest challenges the European Higher Education Area still faces today is the complicated issue of mutual recognition of credits and academic titles between European Universities. The EU member states should urgently adopt a final and clear decision on this issue."
Vattimo also wants to ensure that education and training are independent of socio-economic factors: "It is important to guarantee an equitable access for all to study, especially in times of economic crisis like this".
The ALDE MEP highlights the importance of "safeguarding the crucial role played by training, cultural and social matters that are not directly functional to the labour market, such as the humanities".
The Bologna process introduced the three-cycle degree system (bachelor, master, doctorate), quality assurance and mutual recognition of qualifications and periods of study.
ALDE supports the calls for increased public investments in higher education, especially aimed at countering the economic crisis with growth based on enhanced skills and knowledge and the promotion of partnerships among universities and enterprises.
ALDE stresses that reduction in funding for education causes a negative impact on the social dimension of education and asks member States and EU institutions to develop new targeted and flexible funding mechanisms with a view to supporting growth, excellence and the particular and diverse vocations of universities. 
Indeed education is one of the cornerstones of the EU2020 strategy: the share of early school leavers should be under 10% and at least 40% of the younger generation should have a tertiary degree.



Processus de Bologne: un accès équitable aux études pour tous
Le processus de Bologne et la contribution des institutions européennes à ses avancées, a fait l'objet d'un débat aujourd'hui au Parlement européen. Le but du processus de Bologne est de créer un espace européen de l’enseignement supérieur en établissant des normes de diplômes universitaires et des normes d'assurance qualité plus comparables et compatibles dans toute l'Europe et au-delà. Le processus de Bologne compte actuellement 46 pays participants, dont 27 pays de l'UE, la Commission européenne étant un donateur important.VATTIMO_90.jpg

Gianni VATTIMO (Italia dei Valori, Italie), impliqué depuis longtemps dans le processus de Bologne, a déclaré: "Un des plus grands défis auquel fait face l'Espace européen de l'enseignement supérieur aujourd'hui encore est la question complexe de la reconnaissance mutuelle des crédits et des titres universitaires entre les universités européennes. Les Etats membres de l'UE devraient adopter d'urgence une décision claire et définitive sur cette question."
M. Vattimo veut également s'assurer que l'éducation et la formation soient indépendantes des facteurs socio-économiques : "Il est important de garantir un accès équitable pour tous aux études, surtout en période de crise économique comme celle-ci". L'eurodéputé souligne l'importance de "préserver le rôle crucial joué par les formations, les orientations culturelles et sociales qui ne sont pas directement fonctionnelles pour le marché du travail, telles que les sciences humaines".
Le processus de Bologne a introduit le système de diplômes en trois cycles (licence, master, doctorat), la garantie de la qualité et la reconnaissance mutuelle des qualifications et des périodes d'étude.
L'ADLE soutient les demandes pour un accroissement des investissements publics dans l'enseignement supérieur, en particulier visant à lutter contre la crise économique avec une croissance basée sur les compétences de haut niveau et la connaissance et la promotion de partenariats entre les universités et les entreprises.
L'ADLE souligne que la réduction du financement de l'éducation provoque un impact négatif sur la dimension sociale de l'éducation et demande aux États membres et aux institutions de l'UE de développer de nouveaux mécanismes de financement ciblés et flexibles en vue de soutenir la croissance, l'excellence et les vocations particulières et diversifiées des universités.
En effet, l'éducation est une des pierres angulaires de la stratégie Europe 2020, laquelle stipule le taux de jeunes en décrochage scolaire devrait être inférieure à 10% et au moins 40% de la jeune génération doit avoir un diplôme du troisième degré.


For more information please contact:
Corlett Neil - Tel:+32 2 284 20 77 Mob:+32 478 78 22 84
van der Steen Elzelien - Tel:+32-2-284 26 23 Mob:+32-477-45 42 84
Web: http://www.alde.eu
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venerdì 5 agosto 2011

Tav: lettera aperta di docenti e ricercatori a Napolitano


Ho firmato questa lettera aperta al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. A oggi, il testo è sottoscritto da una novantina di docenti e ricercatori universitari.

TAV Val di Susa: docenti e ricercatori chiedono una discussione trasparente ed oggettiva sulle motivazioni della “grande opera”

Onorevole Presidente,

il problema della linea ferroviaria ad alta velocità/alta capacità Torino-Lyon rappresenta per noi, ricercatori e docenti, una questione di metodo sulla quale non è più possibile soprassedere.
Il pluridecennale processo decisionale che ha condotto a questa situazione è stato sempre afflitto da una scarsa considerazione del contesto tecnologico, ambientale ed economico tale da giustificare o meno la razionalità della scelta, data sempre per scontata dal mondo politico, imprenditoriale e dell’informazione, come assoluta fonte di giovamento per il Paese.
Tuttavia è ormai nota una consistente e variegata documentazione scientifica che contraddice alcuni assunti fondamentali a supporto dell’opera e ne sconsiglia nettamente la costruzione, anche alla luce di scenari economici e ambientali futuri del tutto differenti da quelli sui quali, vent’anni fa, si è basato il progetto.
Nel nostro Paese in molti casi, grandi opere sulla cui realizzazione ci si è caparbiamente ostinati anche allorché i dati oggettivi ne sconsigliavano la prosecuzione, si sono in seguito rivelate causa di danni, vittime e ingenti costi economici e ambientali che avrebbero potuto essere evitati.
Non vorremmo che, nonostante le attuali conoscenze propongano ancora una volta ragionati dubbi, la scelta intransigente di proseguire ad oltranza la costruzione dell’opera porti a doversi dolere in futuro di questa leggerezza ingiustificabile.
Pertanto chiediamo rispettosamente di rimettere in discussione in modo trasparente ed oggettivo le necessità dell’opera.
Qualora la nostra istanza non venisse accolta, e le perplessità in essere si rivelassero fondate in fase di realizzazione ed esercizio dell’opera, la presente resterà a futura memoria.

Qui di seguito un articolo sulla lettera:

L'Università a Napolitano: fermi l'inutile Torino-Lione
Libreidee.org, 29 luglio 2011

“Presidente Napolitano, la Tav Torino-Lione non serve a niente”. Firmato: l’università italiana. E’ un’autentica valanga, quella degli accademici di tutta la Penisola, a firmare l’appello destinato al Quirinale per invitare il Capo dello Stato a prendere nota: i più autorevoli studi dimostrano che la maxi-infrastruttura ferroviaria imposta alla valle di Susa con l’uso della forza, fino a creare problemi di ordine pubblico e senza mai fornire spiegazioni esaurienti ai sindaci e alla popolazione, è un’opera faraonica, devastante per il territorio, costosissima per l’Italia ma soprattutto inutile. Testualmente: non necessaria. Mentre i No-Tav fronteggiano il “fortino” della polizia a Chiomonte, docenti universitari di tutta Italia – di fronte al silenzio assordante della politica – ora si appellano a Napolitano.

«Onorevole Presidente, il problema della linea ferroviaria ad alta velocità / alta capacità Torino-Lyon rappresenta per noi, ricercatori e docenti, una questione di metodo sulla quale non è più possibile soprassedere», scrivono gli accademici nel loro appello al Capo dello Stato. «Il pluridecennale processo decisionale che ha condotto a questa situazione è stato sempre afflitto da una scarsa considerazione del contesto tecnologico, ambientale ed economico tale da giustificare o meno la razionalità della scelta, data sempre per scontata dal mondo politico, imprenditoriale e dell’informazione, come assoluta fonte di giovamento per il Paese. Tuttavia – aggiungono i firmatari, 136 adesioni raccolte in poche ore – è ormai nota una consistente e variegata documentazione scientifica che contraddice alcuni assunti fondamentali a supporto dell’opera e ne sconsiglia nettamente la costruzione, anche alla luce di scenari economici e ambientali futuri del tutto differenti da quelli sui quali, vent’anni fa, si è basato il progetto».

«Nel nostro Paese in molti casi, grandi opere sulla cui realizzazione ci si è caparbiamente ostinati anche allorché i dati oggettivi ne sconsigliavano la prosecuzione, si sono in seguito rivelate causa di danni, vittime e ingenti costi economici e ambientali che avrebbero potuto essere evitati», avvertono i professori. «Non vorremmo che, nonostante le attuali conoscenze propongano ancora una volta ragionati dubbi, la scelta intransigente di proseguire ad oltranza la costruzione dell’opera porti a doversi dolere in futuro di questa leggerezza ingiustificabile. Pertanto – concludono i docenti universitari – chiediamo rispettosamente di rimettere in discussione in modo trasparente ed oggettivo le necessità dell’opera».

L’appello – con adesioni on line ancora aperte – è stato finora sottoscritto da ingengeri e matematici, biologi, chimici, fisici, architetti, geologi, ma anche da informatici e metrologi, professori di materie umanistiche, filosofi, antropologi, nonché esperti di agraria, sicurezza ambientale e scienze della terra, specialisti del Cnr. L’appello ha coinvolto i più prestigiosi atenei italiani, da Bologna a Firenze, dal Politecnico di Milano alla Normale di Pisa, passando per la Sapienza di Roma, la veneziana Ca’ Foscari, l’università Federico II di Napoli. Si schierano contro la Torino-Lione docenti universitari di Aosta, Genova, Trento, Salerno, Urbino, Pavia, Padova. Addirittura un centinaio i torinesi, suddivisi tra università e Politecnico, in prima fila Massimo Zucchetti (protagonista di “lezioni” fuori sede, al “presidio No-Tav” di Chiomonte) e addirittura il prorettore torinese Sergio Roda.

L’offensiva politica dell’università italiana contro la Torino-Lione – che annovera personaggi come Nicola Tranfaglia, Marco Revelli, Gianni Vattimo, Salvatore Settis e l’insigne trasportista Marco Ponti del Politecnico di Milano – punta ad ottenere almeno l’interessamento attivo del Quirinale, che potrebbe quantomeno far valere la sua “moral suasion” per costringere la politica a fornire almeno spiegazioni: perché insistere a tutti i costi su una infrastruttura europea che i tecnici universitari considerano ormai obsloseta e completamente inutile? Finora i partiti hanno rifiutato di dare spiegazioni. Ci si augura che almeno Giorgio Napolitano non resti in silenzio, mentre i media tendono a liquidare la battaglia civile della valle di Susa come una mera questione di ordine pubblico. «Qualora la nostra istanza non venisse accolta, e le perplessità in essere si rivelassero fondate in fase di realizzazione ed esercizio dell’opera, la presente resterà a futura memoria», concludono docenti e ricercatori italiani (sul sito NoTav.eu l’elenco provvisorio dei firmatari).

sabato 11 dicembre 2010

Fini-ta


Un mio post sul sito dell'Italia dei Valori, 7 dicembre 2010

Fini alla Camera vota la riforma dell’università – “la migliore delle riforme della legislatura”, ha osservato – e la riforma passa. Naturalmente, ciò non impedisce a Fli di votare la sfiducia al governo, dopo un’estate rovente di attacchi indecenti allo stesso Fini, e di presentarsi quale nuovo campione della legalità, della sobrietà, della giustizia. Apprendiamo che Fli valuta l’astensione sulla riforma della giustizia. E anche ciò non impedirà di votare la sfiducia. Chi non la vota è fuori, tuona Granata. Immaginiamo le risate dall’estero: i corrispondenti non avranno, temiamo, la pazienza di ripercorrere tutti i distinguo, le posizioni sfumate, gli interessi taciuti che animano questa travagliata stagione del centrodestra.
Abbiamo tutti intravisto nell’agire di Fini, nei mesi passati, un’occasione propizia per denunciare gli intollerabili soprusi di un governo solo fintamente democratico. E forse alcuni di noi si sono persino illusi che Fini rappresentasse, seppure in discontinuità con il passato recente (ma meglio tardi che mai, come spiega sempre Travaglio), una ventata di ossigeno nello smog generale creato da B. Sono tanti i motivi per i quali Fini garantisce il suo sostegno alla riforma dell’università. Alcuni solo ipotetici: è probabile, ad esempio (mi stupirei del contrario), che l’ex leader dell’Msi non capisca quasi nulla in materia. E forse non ne capiscono nulla nemmeno i FLIniani che sono saliti sui tetti. È altrettanto probabile che Fini si senta in dovere di non contraddire Confindustria, accanita sostenitrice della riforma. È però pressoché impossibile che Fini possa dichiarare con sincerità che si tratta della migliore riforma della legislatura. Delle due l’una: Fini sa che si tratta dell’unica vera riforma finora approvata; l’argomento è tautologico. Oppure, Fini sa quali interessi sta difendendo nel promuovere la riforma (tutti tranne quello pubblico, per dirla brevemente; e tra quei tutti, i più beceri in particolare), e soffre di quello stesso sdoppiamento della personalità di cui ha dato prova con le sue recenti posizioni in materia di diritti civili e sociali, in netto contrasto con le due leggi alle quali ha apposto il suo nome (immigrazione, droga).
Siamo certi che, nel giro di poco tempo, Fini si accorgerà dell’assurdità della decisione presa. Questa volta, però, non potremo dirgli “meglio tardi che mai”. Anche perché una novità positiva di questi, recentissimi, tempi, è rappresentata dagli studenti che hanno occupato i principali monumenti italiani e dai ricercatori saliti sui tetti degli atenei. Gli studenti veri, quelli che non sono rimasti a casa a studiare; quelli che hanno capito che in una democrazia bloccata, occorre una certa misura di “sovversivismo democratico”; quelli che vedendosi bloccato il futuro, come hanno scritto alcuni di loro, hanno bloccato le città. Per una volta, l’Italia si è ringiovanita. Andiamo avanti, con un ambiguo “alleato” in meno e un forte esempio da coltivare e imitare.

Gianni Vattimo
http://italiadeivalori.antoniodipietro.com/articoli/politica/finita.php

venerdì 16 luglio 2010

Vattimo, Huésped de Honor

Publicación: 05/07/2010
Temática: Politica
DE LA CIUDAD (Buenos Aires)
Vattimo, Huésped de Honor
El filósofo italiano Gianni Vattimo recibió en la tarde de este lunes, de manos del Vicepresidente I de la Casa, Oscar Moscariello, la distinción en el Salón Eva Perón. La declaración había sido aprobada en la sesión del 24 de junio.
Por Redacción de NU En un acto que se desarrolló en la tarde de este lunes 5, en la Legislatura porteña el filósofo italiano Gianni Vattimo recibió el diploma que lo acredita como Huésped de Honor de la Ciudad de Buenos Aires.
La ceremonia fue organizada por la Subsecretaría de Fortalecimiento e Intercambio Institucional a cargo de Pablo Garzonio y contó con la presencia del Vicepresidente Primero, Oscar Moscariello, el Embajador de Italia en Argentina, Guido La Tella, y las diputadas Delia Bisutti (Proyecto Sur) y María José Lubertino (Encuentro Popular para la Victoria).
Moscariello sostuvo que "es un placer tener este evento en la Legislatura, recibir a una personalidad internacional como Gianni Vattimo pone en relieve a nuestra casa. Él desde el mundo académico ha hecho un gran aporte a la ciencia de todo el mundo. Su pensamiento y su obra son precursoras, además de su compromiso permanente en el mundo de la política que lo llevaron a representar a Italia en el parlamento europeo. Todas estas razones hacen que esta distinción de Huésped de Honor sea más que merecida". Posteriormente el embajador La Tella agradeció la distinción a su compatriota y lo destacó como un hombre de la cultura y de la política.
Finalmente, Vattimo afirmó "estoy emocionado por un reconocimiento de este tipo, tengo un profundo lazo con la Argentina más que con otros países europeos, soy como un ciudadano de la Argentina. Fue uno de los primeros países extranjeros donde se tradujeron mis libros, además de España. Tenemos afinidades de contenido cultural y políticas.
En Latinoamérica hubo grandes cambios en los últimos 20 años y en Europa no pasa nada. Ello constituye una esperanza para nuestro continente. Los líderes de América son figuras de un futuro que es probable que esté aqui". "La posibilidad de tenerlo en nuestro país y su participación en el Seminario Internacional 'Argentina y el mundo', llevado a cabo del 1 al 4 de julio en el marco del 40º Aniversario de la Federación Universitaria Rio de la Plata, es una oportunidad única para otorgarle el merecido reconocimiento como Huésped de Honor", sostuvieron los fundamentos de la declaración aprobada el 24 de junio último por iniciativa de los diputados Fernando de Andreis y Oscar Moscariello (PRO).
Diputado del parlamento europeo desde 2009, Vattimo nació en Turín (Italia) en 1936, estudió Filosofía en la Universidad de su ciudad natal y, posteriormente, realizó dos cursos en la Universidad de Heildelberg. Fue discípulo de Hans-Georg Gadamer. En 1964 comenzó la docencia de estética en la Facoltà di Lettere e Filosofia, de Turín, de la que llegó a ser decano. Su actividad filosófica está claramente influencia por los planteamientos de Nietzsche y Heidegger, autor este último que Vattimo ha traducido al italiano.
La actividad en el ámbito académico se desarrolló en forma creciente a lo largo de los años. Vattimo llegó a ser profesor visitante de las universidades norteamericanas de Yale, Los Angeles, New York University y State University de Nueva York, vicepresidente de la Academia de la Latinidade y recibió el reconocimiento como Doctor 'honoris causa' de las Universidades argentinas de Palermo y La Plata. Su colaboración en diversos diarios italianos, entre ellos La Stampa y L'Unità, reflejan un paso más en su carrera profesional.

mercoledì 30 giugno 2010

L'appello in difesa dell'Università

In difesa dell’Università
I
Il corpo accademico continua ad essere smarrito e silenzioso. È come un pugile frastornato: non reagisce ai colpi che vengono inferti all’Università – e dunque innanzi tutto a chi in essa vive e la fa vivere – da una campagna carica di disprezzo e di irrisione e da una serie di atti governativi devastanti (ampiamente condivisi, nella sostanza ispiratrice, anche dall’opposizione). Continua a subirli in silenzio, rannicchiato su se stesso. Non ha mai trovato le forme collettive di una reazione.
Qualcuno ha paragonato l’Università italiana di oggi alle Signorie del Cinquecento, che si rivolsero alle potenze straniere perché non sapevano risolvere i loro problemi. Ma l’immagine più propria è quella di una colonna di prigionieri stracciati e dagli occhi vuoti, che strascicano i piedi sotto il controllo di poche guardie armate.
Nel cap. 18 del Genesi si narra di come Dio si lasciò impietosire da Abramo promettendogli che avrebbe salvato Sodoma se si fossero trovati almeno dieci giusti. Il senso del racconto è chiaro: qualunque “luogo” può essere salvato da una minoranza. Anche l’Università, dove i giusti sono certamente più di dieci. La sanior pars del corpo accademico, però, non ci crede più. Le colpe per le malefatte di molti, nel corso almeno delle ultime generazioni, pesano come un macigno. È inutile nasconderlo. La paralisi politica di tanti studiosi di valore deriva da un senso di fatalità di fronte a un castigo collettivo percepito come inevitabile e, in fondo, giusto.
Ma chi ha finora giustamente operato non deve sentirsi oppresso e condannato irrimediabilmente all’impotenza da questo senso di colpa collettivo. E non deve nemmeno rassegnarsi a quelle componenti vili del mondo universitario che pensano basti piegarsi, come il giunco sotto la piena, perché nulla in sostanza muti. Con questa rassegnazione la miglior parte del corpo accademico – che non teme nessuna valutazione e nessun confronto scientifico – legittima le ragioni del disprezzo di cui esso è investito, e contribuisce con le sue stesse mani a corrompere la figura dell’Università italiana di fronte alla comunità scientifica internazionale. La prima internazionalizzazione che noi stessi avalliamo è quella del nostro disprezzo.
Per altro è assurdo che, nonostante i comportamenti perversi di molti, invece di estirpare il male si voglia uccidere il malato. Altrettanto assurdo è non riconoscere che le responsabilità dei mali dell’università coinvolgono non solo il corpo docente ma vanno imputate anche, e in misura non minore, ai vari dicasteri preposti all’università nell’ultimo ventennio. E non ci risulta che il MIUR riceva sanzioni a causa del proprio precedente operato.
È doveroso e necessario reagire. L’effetto congiunto del ddl cd. Gelmini, della manovra finanziaria – che va ad aggiungersi a quella avviata nel 2008, sotto il profilo dei tagli e dei sottofinanziamenti – e della protesta dei ricercatori aprono uno scenario nel quale il corpo accademico non può più rimanere inerte e affidarsi al senso di responsabilità che, in una logica bottom up, si confida finirà per prevalere nel Governo, che non potrà (si dice) chiudere le università per asfissia e fame. Il che è assolutamente contraddetto dal fatto che la strategia “affamare la bestia” è ben consapevole e meditata.
E c’è un motivo morale per reagire: non possiamo nasconderci dietro i magistrati, i ricercatori o la protesta del personale tecnico-amministrativo, che vede colpiti i propri bassi redditi al di fuori di ogni equità: non possiamo affidare ad altri la pressione sociale necessaria per invertire la rotta. Il corpo accademico deve, per quanto riguarda l’Università, farsi “classe generale” e assumere su di sé la responsabilità per il futuro di tutto il mondo universitario, compresi – s’intende – gli studenti e il personale tecnico amministrativo.
Per invertire la rotta è necessario partire dalla questione fondamentale, e suscitare una discussione che la sottragga alle misere secche in cui è stata costretta dall’arroganza di alcuni e dalla rassegnazione di molti.
II
La minaccia all’autonomia dell’Università, fondata sull’accusa di autoreferenzialità e disfunzionalità sociale ed economica, nasce da una visione organicistica e totalitaria, che non tollera corpi e funzioni autonomi né nello stato né nella società. C’è perfetta coerenza tra l’attacco all’Università e l’attacco alla magistratura. Il secondo è fondato sull’idea che il potere si concentri tutto nell’esecutivo in quanto espressione del voto popolare, mentre il primo è fondato sulla riduzione all’unico principio della funzionalità tecnico-economica. Queste tendenze stanno in singolare contrasto con la rivendicazione delle autonomie territoriali e del principio di sussidiarietà, un contrasto che si risolverà facilmente quando quella rivendicazione mostrerà tutto il suo carattere illusorio.
Il primo difetto di ogni concezione organicistica è, come dimostra l’esperienza storica, la tendenza all’implosione. Così la mancanza di autonomia della magistratura produce disordine nell’esercizio del potere politico, che non può svolgersi correttamente proprio perché privo di controlli. Analogamente con la mancanza di autonomia della ricerca e della cultura viene meno l’alimento e la possibilità di progresso tecnico ed economico. L’autonomia delle diverse sfere è infatti la condizione di possibilità del reciproco sostegno e incremento.
In un suo tardo corso di lezioni Schelling scriveva: «Proprio per il motivo per il quale da taluno vengono rimproverate le Università, di tenere cioè il giovane in uno stato di troppo grande astrazione rispetto al mondo (come se egli non esigesse proprio questo, che gli vengano garantiti in forma serena e non turbata lo sviluppo e la formazione delle sue capacità spirituali), proprio per questo le nostre Università sono organismi ordinati, degni di essere mantenuti e degni di gloria». Non può non colpire il fatto che queste parole (che non sono una richiesta ma la constatazione dello stato di fatto) siano pronunciate nel 1841 a Berlino: la monarchia assoluta prussiana era capace di garantire quell’autonomia delle Università che le nostre democrazie non sono più in grado di garantire. Certo si può dire che un potere politico forte è in grado di offrire queste garanzie di autonomia, ma non si può nemmeno ignorare che la sua forza deriva anche dalla sua capacità di offrirle.
Nella prima pagina della sua Storia della filosofia Abbagnano sottolineava (ed è una cosa che ripeteva spesso a lezione) che, secondo una tradizione risalente ad Erodoto, la matematica «sarebbe nata in Egitto per la necessità di misurare la terra e spartirla tra i suoi proprietari dopo le periodiche inondazioni del Nilo» conservando così «un carattere pratico, completamente diverso dal carattere speculativo e scientifico che queste dottrine rivestirono presso i Greci». Di questa differenza era consapevole Platone quando contrapponeva «la passione di apprendere che si potrebbe attribuire particolarmente al nostro paese» all’«amore del denaro […] che si riscontra fortissimo presso i Fenici e gli Egizi» (Repubblica, 435 e).
Sta di fatto che il primato dell’interesse pratico ed economico non ha prodotto quello sviluppo della scienza che la speculatività greca ha prodotto consegnandolo all’occidente e rendendo possibile uno sviluppo economico e tecnologico che altre tradizioni, più pratiche, non hanno conosciuto. È ben noto come, anche successivamente, lo sviluppo scientifico abbia conosciuto un particolare incremento quando il sapere si è sottratto alla sua funzionalizzazione religiosa, sociale e politica. Comprimere la ricerca pura in nome di una qualsivoglia destinazione del sapere significa bloccarne la crescita. Scoperte e innovazioni sono possibili se si è aperti a qualsiasi esito della ricerca, mentre esse sono fortemente inibite quando la finalità è sempre già predeterminata dall’esigenza di un utilizzo economicamente e tecnicamente produttivo dei suoi esiti.
Jean-François Lyotard, nel suo famosissimo La condizione postmoderna – volume che nacque come un Rapporto sul sapere nelle società più sviluppate, richiesto dal Consiglio universitario del Governo del Quebec (altri stili, altri cervelli...) – scrive: «L’espansione della scienza non si produce attraverso il positivismo dell’efficienza. Al contrario: lavorare alla prova significa ricercare e “inventare” il contro-esempio, vale a dire ciò che è intelligibile; lavorare all’argomentazione significa ricercare il “paradosso” e legittimarlo attraverso nuove regole del gioco del ragionamento. In entrambi i casi l’efficienza non viene ricercata per se stessa: essa viene per eccesso, a volte tardi, quando i finanziatori si interessano finalmente al caso». Ma noi non abbiamo finanziatori-osservatori attenti; abbiamo solo la miopia di chi concepisce l’Università come luogo in cui praticare l’outsourcing di funzioni aziendali, scaricandone il costo sui rottami del sistema pubblico.
L’immediata destinazione applicativa della scienza fornisce un potente impulso alla demolizione dell’autonomia della ricerca attraverso la sua parcellizzazione, che l’allontana dai suoi fondamenti, cioè dai luoghi in cui può trovare i punti di contatto con gli altri saperi e le altre sfere della cultura. Non si tratta certamente di passare da un eccesso all’altro disprezzando il sapere applicato, ma di non interrompere la sua connessione con la libera ricerca di base, una connessione che, sia pure in modo mediato, finisce per avere ricadute feconde sullo stesso sapere applicato. Come ha osservato Michel Henry in La barbarie, oggi l’attacco all’autonomia del sapere e dell’Università non proviene dal totalitarismo politico e neanche prevalentemente dalla sfera economica, quanto piuttosto dalla tecnocrazia, che tende ad espellere la cultura orientando ogni processo formativo all’acquisizione di abilità tecniche senza riguardo agli effetti negativi che così si producono sullo sviluppo di queste stesse abilità. Possiamo facilmente constatare come la cultura venga tendenzialmente ridotta a momento ludico-distensivo, spettacolare e consumistico. La parcellizzazione del sapere danneggia poi quel che resta della ricerca di base. Essa si arricchisce infatti della reciproca relazione fra le diverse scienze e le diverse sfere della cultura: idee estetiche o filosofiche, per fare un esempio, possono ispirare nuovi modelli scientifici e viceversa. Sappiamo benissimo che l’unità del sapere resta un ideale, ma è molto diverso tenerlo come stella polare o abbandonarlo. Il mantenimento di «uno spirito comune scientifico» è e resta, come già Schelling auspicava, una delle missioni fondamentali dell’Universitas.
Non va poi trascurata l’enorme funzione formativa che può avere una convergenza dei saperi per superare le schizofrenie dell’uomo contemporaneo. Ciò che è in gioco è la ricchezza e la profondità dello spirito personale, che da un lato sono un valore in sé e dall’altro sono le condizioni per l’innovazione e la crescita del sapere, anche di quello tecnico. Purtroppo non ci si avvede di come una civiltà tecnocratica – di cui un’università tecnocratica è una componente decisiva – si avvii verso “la barbarie” di cui parla Henry. Occorre allora sostenere l’autonomia e la tendenziale unità del sapere come dimensioni che devono sempre accompagnare qualsiasi formazione universitaria per quanto essa possa e debba essere orientata alla professionalizzazione. E non si deve avere paura di ciò che immediatamente appare disfunzionale o ritardante rispetto alla velocità dei processi tecnologici e in generale della dimensione applicativa riconoscendo che nella crescita del sapere ciò che è immediatamente disfunzionale può diventare ciò che è alla lunga più funzionale.
La delegittimazione di questa Università, cui hanno certo contribuito anche comportamenti scorretti delle sue componenti, è un passaggio decisivo verso la sconfitta dell’Occidente nel processo di globalizzazione, una sconfitta che non è deprecabile tanto per la perdita di egemonia che essa comporta quanto piuttosto per l’estremo impoverimento umano che porta con sé. Un impoverimento conseguente al decadimento di un ideale di universalità del sapere che è, nonostante tutto, da sempre proprio della cultura occidentale.
Questa difesa della tradizione universitaria non è una semplice riproposizione del modello humboldtiano, ma è il tentativo di riconoscere nell’autonomia della ricerca una ricchezza effettiva del paese, un patrimonio il cui significato e valore non può essere commisurato sulla base di un ritorno effettivo a breve scadenza, e che tuttavia può essere commisurato e valutato in modo adeguato.
Investire nell’università non costituisce affatto, da questo punto di vista, un modo di dissipare risorse che, utilizzate altrove, fruttificherebbero in modo più significativo. Investire sul sapere significa riconoscere e riconoscersi una sorta di capacità di programmare sul medio e lungo termine che è testimone della forza delle istituzioni statuali di un paese. E non è improbabile che la stessa debolezza congenita della nostra Università dipenda da un’altra altrettanto congenita debolezza delle nostre istituzioni politiche che vivono in uno stato di assoluta precarietà; che possono subire, come un’invasione, la presenza di una parte politica o dell’altra senza aver la capacità di mantenere un indirizzo autonomo.
A questo proposito bisogna chiedersi: com’è possibile che un Ministero condanni (non solo orienti a un diverso indirizzo, come è ovviamente legittimo, ma rinneghi nella loro sostanza, in riferimento ad istituzioni che godono di un’autonomia costituzionalmente protetta) le proprie precedenti politiche dopo che si sono modificate le maggioranze di governo? Gli organi dell’Amministrazione centrale da cui dipende la vita di istituzioni costituzionalmente garantite non dovrebbero essere relativamente autonomi dal conflitto politico? Non ci si rende conto che immergendoli in quest’ultimo le si disintegra e si produce un disorientamento gravissimo nell’ambito di coloro che devono fare istituzionalmente riferimento alle loro direttive? Se lo stesso Ministero riconosce come radicalmente sbagliati i propri precedenti comportamenti, questo potrebbe valere anche per il futuro, in occasione di un ulteriore cambio di guida politica. Un andamento di questo genere produrrebbe (se non ha già prodotto) un totale scetticismo nei confronti delle istituzioni, una disaffezione nei loro confronti da parte dei cittadini, degli utenti e dei loro dipendenti. E ben difficilmente la disaffezione e lo scetticismo producono l’efficienza che oggi tanto si auspica.
Si tratta invece di cogliere la genesi dei mali dell’università per indirizzare meglio, e cioè in modo oculato e differenziato, più e non meno risorse. Questo significa per esempio interrogarsi non solo sull’andamento dell’Università ma su quello dei nostri istituti di ricerca in generale. Ora l’Italia è forse l’unico paese in Europa che abbia incanalato tutte o quasi tutte le risorse della ricerca nell’Università. Questo significa che il tracollo dell’Università produrrebbe il totale tracollo della ricerca italiana che non può contare su istituzioni come la Max Planck Gesellschaft tedesca o il CNRS francese. Che questo paese non sia stato mai in grado di pensare davvero che la ricerca sia un valore in sé è dimostrato anche dalla quasi totale assenza di strutture di pura ricerca, che potrebbero interagire con l’Università contrastando la tendenza a finalizzare la sua attività di ricerca esclusivamente alla professionalizzazione. È sulla base di questa mentalità, che favorisce la parcellizzazione del sapere, e sulla spinta delle istituzioni locali che si è creata un’eccessiva proliferazione di sedi decentrate (ancor più che di atenei). Non era meglio sviluppare centri di ricerca autonomi, più attrezzati e più efficienti quanto alle loro finalità, rispetto a molte sedi periferiche? In questo modo si sarebbe perseguita quell’“eccellenza” di cui tanto si parla senza produrre i guasti attuali. In questo modo forse avremmo ancora ventenni e trentenni che percorrono con entusiasmo le vie della ricerca, e non quel panorama tristissimo di giovani ricercatori senza prospettive (e disillusi quanto i loro professori) che abbiamo dinanzi. Su questa via si potrebbe procedere senza produrre tracolli e senza aggravare i bilanci, ma anzi arricchendo il panorama delle istituzioni culturali del nostro paese. Non si potrebbe orientare gradualmente il cammino, senza traumi, proprio in questa direzione?
Ora è chiaro che produrre il tracollo dell’Università con i tagli attuali significa far crollare non solo l’istituzione didattica che va sotto questo nome ma anche l’unica (o quasi) struttura pubblica dedicata alla ricerca. Ed è ben evidente che una didattica che non venga sostenuta dalla ricerca produce stanche e disinformate ripetizioni da parte di un personale docente umiliato che si sentirà sempre più indotto a svolgere i propri compiti per puro dovere di firma. C’è modo di procedere diversamente aumentando semmai finanziamenti da sempre largamente insufficienti, con una distribuzione delle risorse fondata soprattutto sul merito scientifico, con un’incentivazione anche economica che faccia riferimento a questi parametri. Occorre dunque spendere per valutare e per valutare bene. Con gli attuali criteri si ottengono valutazioni ancora troppo vaghe.
Si tratta di creare un corpo docente convinto dei propri compiti e orgoglioso dell’istituzione in cui lavora e che sia dunque fermamente determinato e incentivato a rappresentarla secondo uno spirito di servizio e di correttezza. È ben evidente, per finire, che i tagli sugli stipendi produrranno l’esatto contrario: la ricerca di compensazioni economiche e d’immagine al di fuori dell’università e l’inclinazione a fare il minimo indispensabile.
III
Alla luce a) di queste gravissime preoccupazioni che coinvolgono non solo i tagli previsti ma anche le indicazioni quanto mai caotiche relative al nuovo assetto dei Dipartimenti e delle Facoltà, b) delle facilmente prevedibili difficoltà di carriera in cui verranno a trovarsi gli attuali ricercatori, e c) del prevedibile perpetuarsi sine die del precariato per chi si avvia alla carriera accademica, si propone ai Colleghi di riflettere su iniziative di protesta quali: – Sciopero di tutto il personale docente dell’Università; – Sospensione delle sessioni di esami ivi comprese quelle di laurea; – Rinvio dell’inizio delle lezioni.
Alessandra Algostino (Univ. di Torino), Franco Algostino (Politecnico di Torino), Cesare Alippi (Politecnico di Milano), Umberto Allegretti (Univ. di Firenze), Roberta Aluffi (Università di Torino), Vittorio Angiolini (Univ. Statale Milano), Vincenzo Atripaldi (Univ. Roma La Sapienza), Gaetano Azzariti (Univ. Roma La Sapienza), Enzo Balboni (Univ. Milano Cattolica), Vincenzo Baldini (Univ. di Cassino), Renato Balduzzi (Univ. del Piemonte Orientale), Aldo Bardusco (Univ. Milano Bicocca), Sergio Bartole (Univ. di Trieste), Salvatore Bellomia (Roma Tor Vergata), Ernesto Bettinelli (Univ. di Pavia), Francesco Bilancia (Univ. di Chieti Pescara), Marco Biroli (Politecnico Milano) Maria Agostina Cabiddu (Politecnico di Milano), Giuseppe Cacciatore (Univ. di Napoli Federico II), Giuseppe Cantillo (Univ. di Napoli Federico II), Gisella Cantino (Univ. del Piemonte Orientale), Michele Carducci (Univ. del Salento), Lorenza Carlassare (Univ. di Padova), Massimo Carli (Univ. di Firenze), Paolo Cavaleri (Univ. di Verona), Augusto Cerri (Univ. Roma La Sapienza), Francesco Cerrone (Univ. di Perugia), Sergio Chiarloni (Univ. di Torino), Pierluigi Chiassoni (Univ. di Genova), Claudio Ciancio (Univ. del Piemonte Orientale), Paolo Comanducci (Univ. di Genova), Pasquale Costanzo (Univ. di Genova), Gianluca Cuniberti (Univ. di Torino), Antonio D’Andrea (Univ. di Brescia), Gian Candido De Martin (LUISS Roma), Gianmario Demuro (Univ. di Cagliari), Eva Desana (Politecnico di Torino), Alfonso Di Giovine (Univ. di Torino), Guerini D’Ignazio (Università della Calabria), Gianpiero di Plinio (Univ. di Chieti Pescara), Mario Dogliani (Univ. di Torino), Adriano Fabris (Università di Pisa), Giovanni Ferretti (Univ. di Macerata), Paolo Ferrua (Univ. di Torino), Massimo Firpo (Univ. di Torino), Simona Forti (Univ. del Piemonte Orientale), Lia Fubini (Univ. di Torino), Carlo Gentili (Univ. di Bologna), Elio Giamello (Univ. di Torino), Silvia Giorcelli (Univ. di Torino), Sergio Givone (Univ. di Firenze), Ettore Gliozzi (Univ. di Torino), Enrico Grosso Univ. di Torino), Riccardo Guastini (Univ. di Genova), Giancarlo Jocteau (Univ. di Torino), Davide Lovisolo (Univ. di Torino), Adriana Luciano (Univ. di Torino), Joerg Luther (Univ. del Piemonte Orientale), Elena Malfatti (Univ. di Pisa), Roberto Mancini (Univ. di Macerata), Enrico Marello (Univ. di Torino), Franco Marenco (Univ. di Torino), Emilio Matricciani (Politecnico di Milano), Gianni Mignone (Univ. di Torino), Giuseppe Morbidelli (Università di Roma La Sapienza), Maurizio Mori (Univ. di Torino), Angelo Morzenti (Politecnico di Milano), Giuseppe Nicolaci (Univ. di Palermo), Romano Orrù (Univ. di Teramo), Maurizio Pagano (Univ. del Piemonte Orientale), Anna Painelli (Univ. di Parma), Enrico Pasini (Univ. di Torino), Ugo Perone (Univ. del Piemonte Orientale), Barbara Pezzini (Univ. di Bergamo), Roberto Pinardi (Univ. di Modena e Reggio Emilia), Stefano Poggi (Univ.di Firenze), Michele Prospero (Roma La Sapienza), Luigi Quartapelle (Politecnico di Milano), Alberto Redaelli (Politecnico di Milano), Saverio Regasto (Univ. di Brescia), Marco Revelli (Univ. del Piemonte Orientale), Sergio Roda (Univ. di Torino), Alberto Ronco (Univ. di Torino), Ferdinando Rossi (Univ. di Torino), Luigi Ruggiu (Univ. di Venezia), Marco Ruotolo (Univ. Roma tre), Roberto Salizzoni (Univ. di Torino), Leonardo Samonà (Univ. di Palermo), Daniela Santus (Univ. di Torino), Rocco Sciarrone (Univ. di Torino), Gianni Carlo Sciolla (Univ. di Torino), Claudio Sensi (Univ. di Torino), Giuseppe Sergi (Univ. di Torino), Massimo Siclari (Univ. di Roma tre), Emanuele Stolfi (Univ. di Torino), Roberto Spagnolo (Politecnico di Milano), Giovanni Tesio (Univ. del Piemonte Orientale), Fausto Carlo Testa (Politecnico di Milano), Lucia Toniolo (Politecnico di Milano), Aldo Trione (Univ. di Napoli Federico II), Mario Vadacchino (Politecnico di Torino), Gianni Vattimo (Univ. di Torino), Luigi Ventura (Università di Catanzaro), Federico Vercellone (Univ. di Torino), Angelo Vianello (Univ. di Udine), Ivo Zoccarato (Univ. di Torino), Gustavo Zagrebelsky (Univ. di Torino), Maria Angela Zumpano (Univ. di Pisa).
Per aderire si prega di scriverea Claudio Ciancio (claudio.ciancio@fastwebnet.it) o Mario Dogliani (mario.dogliani@unito.it) o Federico Vercellone (federico.vercellone@unito.it).

Università, stop esami e lezioni contro manovra e tagli

UNIVERSITA': DOCUMENTO DOCENTI PROPONE STOP ESAMI E LEZIONI CONTRO MANOVRA E TAGLI; TRA FIRMATARI ANCHE ZAGREBELSKY
(ANSA) - ROMA, 29 GIU -
Sciopero di tutto il personale docente, sospensione delle sessioni di esami e di laurea, rinvio dell'inizio delle lezioni: sono le iniziative di protesta che oltre un centinaio di professori di atenei di tutta Italia propone ai colleghi, per protestare contro il ddl di riforma Gelmini e gli effetti della manovra finanziaria.
In un lungo documento, diffuso dal professor Massimo Siclari di Roma tre, i docenti (tra le firme anche quelle di Gianni Vattimo e di Gustavo Zagrebelsky) sostengono che è ''doveroso e necessario'' reagire. Dopo aver sottolineato che e' ''assurdo non riconoscere che le responsabilità dei mali dell'università coinvolgono non solo il corpo docente ma vanno imputate anche, e in misura non minore, ai vari dicasteri preposti all'università nell'ultimo ventennio'', affermano che non ci si puo' nascondere dietro i magistrati, i ricercatori o la protesta del personale tecnico-amministrativo, ''che vede colpiti i propri bassi redditi al di fuori di ogni equità''. ''Non possiamo affidare ad altri la pressione sociale necessaria per invertire la rotta. Il corpo accademico deve, per quanto riguarda l'Universita' - è l'invito che i firmatari rivolgono alla categoria - farsi 'classe generale' e assumere su di se' la responsabilità per il futuro di tutto il mondo universitario, compresi, s'intende, gli studenti e il personale tecnico amministrativo''.
Premesso che a loro parere c'è ''perfetta coerenza tra l'attacco all'università e l'attacco alla magistratura'' (''il secondo è fondato sull'idea che il potere si concentri tutto nell'esecutivo in quanto espressione del voto popolare, mentre il primo è fondato sulla riduzione all'unico principio della funzionalità tecnico-economica''), i firmatari del documento fanno notare, tra l'altro, come l'Italia ''è forse l'unico paese in Europa che abbia incanalato tutte o quasi tutte le risorse della ricerca nell'Università'' e ''questo significa che il tracollo dell'Università produrrebbe il totale tracollo della ricerca italiana, che non può contare su istituzioni come la Max Planck Gesellschaft tedesca o il Cnrs francese''.
Cosa fare allora? Secondo i docenti ''c'è modo di procedere diversamente, aumentando semmai finanziamenti da sempre largamente insufficienti, con una distribuzione delle risorse fondata soprattutto sul merito scientifico, con un'incentivazione anche economica che faccia riferimento a questi parametri. Occorre dunque spendere per valutare e per valutare bene. Con gli attuali criteri si ottengono valutazioni ancora troppo vaghe. Si tratta di creare un corpo docente convinto dei propri compiti e orgoglioso dell'istituzione in cui lavora e che sia dunque fermamente determinato e incentivato a rappresentarla secondo uno spirito di servizio e di correttezza. E' ben evidente, per finire, che i tagli sugli stipendi produrranno l'esatto contrario: la ricerca di compensazioni economiche e d'immagine al di fuori dell'università e l'inclinazione a fare il minimo indispensabile''. (ANSA).

venerdì 25 giugno 2010

Cento professori contro i tagli all'università

25-06-2010, La Repubblica
Cento professori contro i tagli all'università

Uno sciopero di tutti i docenti. La sospensione delle sedute di laurea e il rinvio dell'inizio delle lezioni: cento professori hanno firmato un duro appello "In difesa dell'Universi", chiedendo ai loro colleghi accademici di rompere il silenzio e facendo autocritica contro l'atteggiamento "smarrito e silenzioso" tenuto fin qui a fronte di una campagna "devastante, carica di disprezzo e di irrisione", che mira a cancellare non solo l'università pubblica ma la stessa cultura italiana. A promuovere l'iniziativa sono stati due filosofi, Claudio Ciancio e Federico Vercellone, e un giurista, Mario Dogliani, che hanno già trovato l'adesione di numerosi colleghi – oltre cento – tra i quali Gustavo Zagrebelsky, Gianni Vattimo, Sergio Givone, Leonardo Samonà e molti altri docenti nei principali atenei italiani. (v.s.)

mercoledì 20 gennaio 2010

Brevi cenni sulle attività al Parlamento europeo negli ultimi mesi


Segnalerei tre punti significativi, il primo dei quali è di strettissima attualità, e non richiede ulteriori commenti rispetto a quelli che trovate negli altri post del blog: la mia “segnalazione”; per così dire, al Parlamento e all’Europa sulla vicenda della Tav (sulla quale per altro continuerò, come ovvio, a informarvi nei prossimi giorni).

Secondo punto: sono stato eletto (nominato: il posto, per altro, “toccava” a un deputato dell'Alde, il gruppo dei liberali, del quale l’Idv fa parte) vicepresidente di Eurolat – l’assemblea interparlamentare del Parlamento europeo e dei Parlamenti Latino-americani. Sinora, a riunirsi è stato il bureau di questo “parlamento” (tutta l'assemblea, composta da 50 membri, si riunisce solo una volta all'anno). Il bureau è un gruppo più ristretto, una ventina di membri circa, e si è riunito a fine ottobre a Panama. Al centro dei dibattiti, la situazione in Honduras: sia come componente europea (in modo più deciso), sia come bureau di Eurolat, abbiamo 1) preso posizione contro il colpo di stato di Micheletti ai danni di Zelaya, 2) ascoltato la segretaria di Stato del deposto Zelaya, 3) appoggiato una risoluzione finale che chiedeva, per le elezioni imminenti, tenutesi poi a gennaio, garanzie internazionali (http://www.europarl.europa.eu/intcoop/eurolat/documents/declarations/honduras2009/794942en.pdf). Gli interessati potranno seguire l’evoluzione dei nostri sforzi sulla situazione in Honduras (e sulle materie trattate dalla nostra assemblea) alla pagina http://www.europarl.europa.eu/intcoop/eurolat/default_en.htm, che contiene tutti i documenti adottati non da Eurolat ma dall’Unione europea tutta. A parte la relativa inefficacia delle decisioni, difetto tipico di tutte le istituzioni sopranazionali, Eurolat è importante per i contatti con l´America Latina; io mi sto occupando di creare un piano per incontrare colleghi latino-americani nei prossimi mesi, a cominciare da cubani e venezuelani.

Terzo punto, le audizioni dei Commissari designati nella nuova commissione Barroso.
Si sono svolte nella settimana scorsa (11-16 gennaio). Io ho partecipato all'audizione del commissario alla Ricerca e della commissaria alla Cultura. Si rivolgono domande, preannunciate, e il commissario designato risponde, dopo di che le commissioni competenti danno un parere sulla sua nomina. Non si sentono cose clamorose, nel senso che le domande sono soprattutto modi per segnalare pubblicamente problemi che si vuole il commissario tenga presenti: l'unico commissario non approvato negli ultimi anni di legislatura del 2004, se non sbaglio, è stato Buttiglione per la sua posizione sui gay (ma come avrete visto, anche questa seconda commissione Barroso vedrà una “rinuncia”). L'audizione della signora Vassiliou, di cui avete letto in questo blog, è stata abbastanza pacifica. Le ho chiesto se era possibile che l'Unione agisse sugli stati membri per migliorare e portare a un livello standard europeo le forme di assistenza al diritto allo studio, borse, residenze universitarie, prestiti d'onore, ecc. Ho suggerito (un vecchio cavallo di battaglia, ma che continua a restare di attualità) che si potrebbe adottare una specie di “Maastricht delle università europee”: se le università dei vari paesi non garantiscono certi standard (numero di borse in una certa percentuale su numero di studenti; e così numero di collegi, di biblioteche, ecc.), si potrebbe non riconoscere i loro titoli a livello europeo. La Commissaria ha promesso che presenterà la questione al prossimo incontro dei ministri dell'istruzione in occasione del decennale del "processo di Bologna". Altra questione su cui ho attirato l'attenzione della Vassiliou è il predominio dei prodotti dell'industria culturale statunitense nel cinema, tv, audiovisivi, ecc., in Europa. Ha promesso che terrà d'occhio la questione, per promuovere di più la nostra produzione di industria culturale, che è anche campo di competenza del commissario ai media e alla comunicazioni. In genere, il filo conduttore del dibattito con Vassiliou è stato istruzione-ricerca-innovazione; ma anche, nello specifico: mobilità di studenti e professori tra le scuole e le università europee (per esempio, per insegnare – anche nelle scuole medie – potrebbe essere richiesto di aver fatto almeno un periodo all'estero); attenzione speciale a gruppi particolarmente sfavoriti, come i bambini immigrati, ecc. (avrei voluto parlare dei carcerati, ma sarei stato immediatamente zittito, perché la politica carceraria è dominio riservato degli stati membri...). La commissaria si è anche impegnata a promuovere le scelte dei giovani verso facoltà-"titoli", per così dire, sia in relazione ai rapporti con le aziende, sia per orientarli verso le scienze dure (pare che troppo pochi studino fisica, chimica, ecc.); e invece a sgonfiare un po' la bolla delle professioni "finanziarie", popolari fino ad ora ma disastrose dopo la crisi bancaria. Questo delle scienze dure e del riorientamento degli studenti verso di esse, sfatando i miti della finanza, è stato anche un leit motiv della presentazione del commissario alla ricerca e innovazione, che vorrebbe vedere associata più spesso la parola “verde” a quella di “industria”.

sabato 23 maggio 2009

A TORINO PROVE GENERALI DI REPRESSIONE

A Torino prove generali di repressione
di Gianni Vattimo (candidato per l’Italia dei valori)


Sto forse partecipando a una nuova, piccola, guerra di Spagna, quella dove si collaudarono le armi per la seconda guerra mondiale? La manifestazione studentesca di Torino del 19 maggio, che alla fine ha visto due fermi e – forse con un po’ di esagerazione – venti agenti di polizia feriti, a quanto pare non gravi – non sarà un banco di prova per mettere a punto tecniche di repressione della guerriglia urbana di cui il governo sente di aver bisogno nel futuro prossimo?
Molti segni sembrano far pensare a questa spiegazione, che altrimenti sarebbe difficile da trovare. Tra questi segni, alcuni – non sappiamo se prodotti davvero da un unico “grande vecchio”, da un progetto di provocazione deliberato, ma certo molto ben congegnati – paiono particolarmente indicativi: già il nome della riunione dei rettori di quaranta università di tutto il mondo, battezzata subito “G8 dell’università”, come se quasi chiunque non sapesse che evocare il G8 suscita immediatamente reazioni contestative, oggi tanto più prevedibili dato lo stato di crisi di una città come Torino, dove solo qualche giorno prima si è consumato l’altro episodio “preoccupante”, e stigmatizzato con toni apocalittici da tutto il coro della stampa “indipendente”, della contestazione a Rinaldini della Fiom. Ma altro ancora fa pensare alla provocazione deliberata: chi comanda le forze di polizia a Torino è lo stesso vice-questore Spartaco Mortola della Diaz di Genova (otto anni dopo; era proprio necessario mandare lui?) ; e l’uso ostentato di elicotteri sul corteo, anche, a quanto pare, per sparare lacrimogeni. Come al G8 di Genova, il governo, sempre più incapace di fronteggiare seriamente la crisi economica, pensa di salvarsi trasformando il tutto in una questione di ordine pubblico. Fino a quando? Difficile sperare che sia solo per il periodo elettorale.

mercoledì 20 maggio 2009

A Torino, democrazia bloccata per gli studenti

Ieri a Torino, il cosiddetto "G8 delle Università" (mai nome più sfortunato) ha di fatto bloccato la democrazia e la partecipazione degli studenti, loro sì sequestrati da pratiche elitarie e reazionarie.
Che senso ha pretendere di organizzare incontri tra Rettori, protetti per tre giorni da centinaia di poliziotti in tenuta antisommossa?
Accade una volta di più che per motivi di sicurezza a ciascuno sia richiesto di rinunciare a un pezzo della propria libertà d'espressione democratica. E' ciò che l'Università deve insegnare, oggi?

martedì 12 maggio 2009

Università e ricerca, no al modello americano


Ecco il documento che presento oggi, al convegno "Cultura ed informazione in Europa" (Roma, sala Capranichetta, piazza Monte Citorio 125).


Che cosa resta oggi in Italia dell’“Onda”, il movimento di protesta che ha scosso le università del nostro Paese, a partire dallo scorso autunno? Quale forma di opposizione radicale possiamo proporre contro la riforma Tremonti-Gelmini, già varata qualche mese fa, e contro i progetti che – ancora più disastrosi – il governo Berlusconi sta annunciando?
La scelta di candidarmi nuovamente al Parlamento Europeo è legata anzitutto alla volontà di portare in Europa, e dentro l’Italia dei Valori, la mia lunga esperienza di professore universitario: un’esperienza che mi ha dato da vivere in molti sensi (economico, certo, ma anche nel confronto continuo con le molte generazioni di studenti conosciuti in quarant’anni di lavoro) e che mi ha fatto conoscere dall’interno i pregi e i limiti del sistema italiano.
Dei mali dell’università italiana si è detto molto (a partire dal sistema dei concorsi per i docenti, fino ad arrivare all’annoso problema del numero chiuso per gli studenti). Ma si è detto, molto giustamente, che nonostante ciò i nostri atenei sono in grado di sfornare “cervelli” preparati e competitivi sullo scenario globale. E si è detto anche della capacità del nostro sistema di garantire l’accesso a strati della popolazione diversi, grazie alla garanzia pubblica sulle università, che restano un importante motore dello sviluppo e della mobilità sociali. Tuttavia proprio questi pregi del sistema italiano oggi appaiono gravemente messi in pericolo, senza che ci si sia mostrati minimamente in grado di affrontare i mali oggettivi delle nostre università.
È un dato di fatto che, se l’Italia partorisce “cervelli in fuga”, ciò significa che dai nostri atenei escono laureati e ricercatori in grado di dimostrare le proprie capacità e l’alto livello della propria formazione. Ed è altrettanto evidente che oggi le nostre facoltà accolgono studenti che provengono da famiglie di livello sociale straordinariamente differente e che perciò hanno la possibilità di formarsi a un livello che fino a una o due generazioni fa appariva impensabile. Tuttavia la riforma Tremonti-Gelmini (il motivo per cui anche io la chiamo così sarà immediatamente chiaro), non soltanto non affronta i mali che ho richiamato, ma anzi mette in grave pericolo il valore pubblico, sociale e culturale di cui finora l’università italiana si è fatta portatrice.
Parlo di riforma “Tremonti-Gelmini”, come molti giustamente fanno dall’autunno scorso, perché è chiaro che gli interventi del governo Berlusconi in materia sono stati finora essenzialmente interventi di bilancio, che dietro al paravento del taglio agli sprechi si sono dimostrati in realtà un colpo al cuore per il funzionamento dei nostri atenei. Questo governo è nato sotto lo slogan della guerra ai fannulloni e ha identificato nei lavoratori pubblici il proprio obiettivo pressoché unico. Ora, è giusto dire che cosa è accaduto quando questo slogan, per opera della riforma Tremonti-Gelmini, si è abbattuto anche sull’università. I tagli al fondo di finanziamento ordinario (la quota di bilancio che il ministero destina alla vita degli atenei pubblici) si sta infatti ripercuotendo drammaticamente sulla vita dei Dipartimenti: tutti i Dipartimenti, anche quelli d’eccellenza (e ce ne sono molti), ai quali non sono stati riservati meccanismi premiali.
Oggi l’università soffre – questo è evidente. Ma il paradosso è che questa sofferenza riguarda proprio le fasce più deboli del mondo universitario: gli studenti e la pletora di lavoratori precari che oggi fa andare avanti i nostri atenei. Spiegherò rapidamente il perché. Intanto però consentitemi di precisare che quando parlo di “sofferenza dell’università” sto dicendo qualcosa di estremamente concreto e di nient’affatto ideologico. L’università italiana soffre dei tagli della riforma Tremonti-Gelmini perché non ha i soldi per pagare le bollette del telefono, le cartucce delle stampanti, le riparazioni per macchinari che sarebbero considerati essenziali in qualsiasi azienda del nostro Paese (dalla fotocopiatrice alle sofisticate apparecchiature di laboratorio, tanto per intenderci), le trasferte di lavoro e di ricerca dei propri dipendenti e collaboratori, la manutenzione ordinaria delle proprie strutture (dalla pulizia alla tinteggiatura degli uffici), i servizi minimi ed essenziali (l’apertura delle biblioteche, la sostituzione dei computer più obsoleti...). Ora, se questi sono gli sprechi da tagliare, il governo dovrebbe spiegarci quale mentalità aziendalistica e capitalistica accetterebbe mai che i propri dipendenti pagassero di tasca propria il mantenimento decoroso degli strumenti più basilari di lavoro. Questa è la sofferenza nella quale la sciagurata riforma Tremonti-Gelmini ha gettato l’università.
Ma il paradosso più grande – lo anticipavo – è che a fare le spese di tutto ciò non sono soltanto i docenti. A una riduzione generalizzata delle risorse economiche per le università corrisponde infatti un incremento esponenziale delle difficoltà per chi usufruisce del “servizio” in termini di didattica (ovvero gli studenti) e per chi a tale “servizio” porta nuova linfa in termini di ricerca e di sviluppo (ovvero i giovani ricercatori precari).
A una università che non ha soldi per fare andare avanti le biblioteche (orari di apertura, acquisto libri, prestito interbibliotecario) o per ospitare gli studenti in strutture minimamente vicine alla decenza (aule di dimensioni sufficienti, computer e altri servizi per gli studenti) corrisponde infatti un’accresciuta difficoltà, da parte delle famiglie meno abbienti, a mantenere i propri figli nello studio. Meno biblioteche, meno computer, aule disagiate e sedi di lezione scomode significano infatti un onere sempre maggiore da parte delle famiglie, che rispondono come possono alle carenze dell’istituzione. Consentire ai propri figli di studiare costa sempre di più: e questo non accade soltanto per la crisi economica generalizzata che stiamo vivendo, ma anche (e soprattutto) perché le università sono in grado di dare sempre meno servizi ai propri iscritti.
In tutto ciò, nel nostro Paese è ormai un lusso anche fare ricerca, ovvero premiare le legittime aspirazioni dei giovani che si sono mostrati più brillanti nel loro percorso accademico e che ambiscono a fare della ricerca non un hobby da coltivare nei fine settimana, ma la loro ragione e fonte di sostentamento. Le riforme del welfare e dei modelli contrattuali (a cui pure qualche governo di centrosinistra non ha mancato di dare il proprio assenso) hanno fatto sì che nell’università siano cresciute esponenzialmente le forme di lavoro “non-strutturato”, ossia precario, che ora raggiungono livelli impressionanti. Mi limito qui soltanto a un dato numerico, che è estremamente eloquente. In molti casi, i censimenti ufficiali che gli atenei producono sul numero e la tipologia dei propri lavoratori mostrano che nei nostri dipartimenti circa la metà delle persone che vi lavora lo fa con contratti precari (contratti a progetto, collaborazioni occasionali, stage, borse di studio): il che equivale a dire che ogni 10 lavoratori “strutturati”, ve ne sono spesso altrettanti che collaborano con tipologie contrattuali precarie.
È questo il modello “americano” che la nostra università sta via via adottando. Dico che si tratta di un modello americano “tra virgolette” per un dettaglio, che però non è affatto trascurabile. Se negli Stati Uniti e in molti altri Paesi alla ricerca è spesso associato lo status di lavoro a tempo determinato, si dà il caso che ciò avvenga attraverso contratti che in genere sono molto ben remunerati e che bilanciano la precarietà con un corrispettivo economico di tutto rispetto. Ora, il nostro Paese, per mano del governo Berlusconi, sembra voler adottare questa filosofia (che già di per sé può essere messa in discussione), aggiungendovi una remunerazione che non è neanche minimamente vicina alla soglia della decenza. In sostanza, nei nostri dipartimenti abbiamo spesso il 50% di lavoratori precari; e questo 50% lavora con contratti che in molti casi non arrivano ai 1.500 euro. Beninteso: sto parlando di 1.500 euro all’anno, e non al mese. Tralascio di dire che inoltre, soprattutto nei dipartimenti umanistici, la precarietà è un dato di fatto che accompagna gli studiosi dal giorno della laurea fino ai 40 anni.
Ma come intervengono in questa situazione i tagli di Tremonti-Gelmini? Anzitutto, è chiaro che nei progetti di legge ora in fase di elaborazione si vede soltanto un generale rimescolamento di carte (all’insegna del principio del “cambiare tutto, perché nulla realmente cambi”), ma nessun effetto concreto sui veri difetti delle nostre università che richiamavo all’inizio: concorsi e avanzamenti di carriera, tra gli altri. E, in secondo luogo, sul fronte della precarietà avviene che in moltissimi casi le forme contrattuali stiano peggiorando oltre l’immaginabile. Parlo della riduzione (e, in molti casi, della sospensione) dei dottorati di ricerca, che sono il punto d’arrivo più alto della formazione dei nostri studenti più meritevoli. E parlo della trasformazione dei contratti precari a cui facevo riferimento, in contratti “a compenso zero”, cioè basati su manodopera esplicitamente reclutata su base volontaria, cioè – per farla breve – con attività didattica o di ricerca svolta in modo totalmente gratuito.
L’università pubblica in Italia oggi è anche questo. Non sto parlando di un futuro più o meno prossimo, più o meno pessimistico. Sto parlando di ciò che i nostri atenei stanno programmando già oggi a livello di bilancio per il prossimo autunno, a partire da settembre 2009. Le nostre università già oggi vivono di questo: studenti che lavorano in strutture disagiate e fatiscenti, con servizi che riducono di giorno in giorno la loro fruibilità; docenti che si confrontano con luoghi di lavoro in cui è garantito lo stipendio (almeno questo!), ma spesso non un supporto normale per qualunque azienda, piccola o grande che sia (ah, se l’“università-azienda” fosse questa...); giovani ricercatori precari che si vedono costretti a lavorare gratis o sottopagati, pubblicando ricerche riconosciute in tutto il mondo, ma senza la prospettiva minima di un futuro nel nostro Paese.
L’Europa, come società della conoscenza, può e deve salvare l’Italia anche in questo. E può farlo con alcune iniziative molto concrete. Mi limito a indicarne quattro, nella speranza che ciò sia anche un contributo alla riflessione e al confronto su altri aspetti.

1) Imposizione ai Paesi membri di criteri di valutazione del merito e della produttività, riconosciuti e riconoscibili, per premiare davvero il merito;

2) Bandi di finanziamento alla ricerca sempre più aperti a tutte le discipline (anche a quelle umanistiche), per migliorare le condizioni di lavoro dei ricercatori precari;

3) Incremento degli scambi internazionali, attraverso maggiori agevolazioni economiche agli studenti Erasmus e ai giovani ricercatori;

4) Facilitazioni all’editoria per la traduzione e la diffusione delle pubblicazioni scientifiche più rilevanti nei Paesi dell’Unione.

venerdì 8 maggio 2009

martedì 5 maggio 2009

Università, contro la riforma Gelmini: una promessa


(l'ultima lezione di Vattimo, fotografia de La Repubblica Torino, http://torino.repubblica.it/multimedia/home/3280898/1/3)

Qui troverete il video (tratto dal sito de La Stampa) del mio intervento in piazza Vittorio a ottobre, a sostegno della protesta contro la Riforma Gelmini. Mi batterò in tutti i modi, in Europa, perché la riforma sia sconfitta...

Qui sotto, una mia intervista durante i giorni della riforma Gelmini:

venerdì 1 maggio 2009

UNIVERSITÀ: VATTIMO (IDV), SOLIDARIETÀ AGLI STUDENTI DENUNCIATI

Roma, 24 apr. (Adnkronos) - "Sono solidale con gli studenti che sono stati denunciati in questi giorni. E' singolare che in un paese in cui evasori e speculatori possono fare indisturbati il comodo loro, degli studenti di 18 anni debbano pagare per aver liberamente manifestato il loro pensiero". Lo dichiara il filosofo Gianni Vattimo, candidato dell'Idv alle elezioni europee, in merito alle denunce penali inviate a due studenti romani in seguito a una manifestazione.