8 marzo 2012 |
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Interrogazione con richiesta di risposta orale alla Commissione Articolo 115 del regolamento Renate Weber, Annemie Neyts-Uyttebroeck, Sophia in 't Veld, Sonia Alfano, Baroness Sarah Ludford, Andrew Duff, Ivo Vajgl, Marielle de Sarnez, Ramon Tremosa i Balcells, Andrea Zanoni, Gianni Vattimo, Robert Rochefort, Louis Michel, Leonidas Donskis, Nadja Hirsch, Cecilia Wikström, Nathalie Griesbeck, a nome del gruppo ALDE |
sabato 24 marzo 2012
Interrogazione sul rilascio dei visti per gli studenti del Mediterraneo meridionale
mercoledì 21 marzo 2012
Il governo dei professori e la scuola
mercoledì 14 marzo 2012
Bologna Process: Equitable access for study to all


Gianni VATTIMO (Italia dei Valori, Italie), impliqué depuis longtemps dans le processus de Bologne, a déclaré: "Un des plus grands défis auquel fait face l'Espace européen de l'enseignement supérieur aujourd'hui encore est la question complexe de la reconnaissance mutuelle des crédits et des titres universitaires entre les universités européennes. Les Etats membres de l'UE devraient adopter d'urgence une décision claire et définitive sur cette question."
For more information please contact: Corlett Neil - Tel:+32 2 284 20 77 Mob:+32 478 78 22 84 van der Steen Elzelien - Tel:+32-2-284 26 23 Mob:+32-477-45 42 84 |
Web: http://www.alde.eu |
venerdì 5 agosto 2011
Tav: lettera aperta di docenti e ricercatori a Napolitano
Qui di seguito un articolo sulla lettera:
L'Università a Napolitano: fermi l'inutile Torino-Lione
Libreidee.org, 29 luglio 2011
“Presidente Napolitano, la Tav Torino-Lione non serve a niente”. Firmato: l’università italiana. E’ un’autentica valanga, quella degli accademici di tutta la Penisola, a firmare l’appello destinato al Quirinale per invitare il Capo dello Stato a prendere nota: i più autorevoli studi dimostrano che la maxi-infrastruttura ferroviaria imposta alla valle di Susa con l’uso della forza, fino a creare problemi di ordine pubblico e senza mai fornire spiegazioni esaurienti ai sindaci e alla popolazione, è un’opera faraonica, devastante per il territorio, costosissima per l’Italia ma soprattutto inutile. Testualmente: non necessaria. Mentre i No-Tav fronteggiano il “fortino” della polizia a Chiomonte, docenti universitari di tutta Italia – di fronte al silenzio assordante della politica – ora si appellano a Napolitano.
«Onorevole Presidente, il problema della linea ferroviaria ad alta velocità / alta capacità Torino-Lyon rappresenta per noi, ricercatori e docenti, una questione di metodo sulla quale non è più possibile soprassedere», scrivono gli accademici nel loro appello al Capo dello Stato. «Il pluridecennale processo decisionale che ha condotto a questa situazione è stato sempre afflitto da una scarsa considerazione del contesto tecnologico, ambientale ed economico tale da giustificare o meno la razionalità della scelta, data sempre per scontata dal mondo politico, imprenditoriale e dell’informazione, come assoluta fonte di giovamento per il Paese. Tuttavia – aggiungono i firmatari, 136 adesioni raccolte in poche ore – è ormai nota una consistente e variegata documentazione scientifica che contraddice alcuni assunti fondamentali a supporto dell’opera e ne sconsiglia nettamente la costruzione, anche alla luce di scenari economici e ambientali futuri del tutto differenti da quelli sui quali, vent’anni fa, si è basato il progetto».
«Nel nostro Paese in molti casi, grandi opere sulla cui realizzazione ci si è caparbiamente ostinati anche allorché i dati oggettivi ne sconsigliavano la prosecuzione, si sono in seguito rivelate causa di danni, vittime e ingenti costi economici e ambientali che avrebbero potuto essere evitati», avvertono i professori. «Non vorremmo che, nonostante le attuali conoscenze propongano ancora una volta ragionati dubbi, la scelta intransigente di proseguire ad oltranza la costruzione dell’opera porti a doversi dolere in futuro di questa leggerezza ingiustificabile. Pertanto – concludono i docenti universitari – chiediamo rispettosamente di rimettere in discussione in modo trasparente ed oggettivo le necessità dell’opera».
L’appello – con adesioni on line ancora aperte – è stato finora sottoscritto da ingengeri e matematici, biologi, chimici, fisici, architetti, geologi, ma anche da informatici e metrologi, professori di materie umanistiche, filosofi, antropologi, nonché esperti di agraria, sicurezza ambientale e scienze della terra, specialisti del Cnr. L’appello ha coinvolto i più prestigiosi atenei italiani, da Bologna a Firenze, dal Politecnico di Milano alla Normale di Pisa, passando per la Sapienza di Roma, la veneziana Ca’ Foscari, l’università Federico II di Napoli. Si schierano contro la Torino-Lione docenti universitari di Aosta, Genova, Trento, Salerno, Urbino, Pavia, Padova. Addirittura un centinaio i torinesi, suddivisi tra università e Politecnico, in prima fila Massimo Zucchetti (protagonista di “lezioni” fuori sede, al “presidio No-Tav” di Chiomonte) e addirittura il prorettore torinese Sergio Roda.
L’offensiva politica dell’università italiana contro la Torino-Lione – che annovera personaggi come Nicola Tranfaglia, Marco Revelli, Gianni Vattimo, Salvatore Settis e l’insigne trasportista Marco Ponti del Politecnico di Milano – punta ad ottenere almeno l’interessamento attivo del Quirinale, che potrebbe quantomeno far valere la sua “moral suasion” per costringere la politica a fornire almeno spiegazioni: perché insistere a tutti i costi su una infrastruttura europea che i tecnici universitari considerano ormai obsloseta e completamente inutile? Finora i partiti hanno rifiutato di dare spiegazioni. Ci si augura che almeno Giorgio Napolitano non resti in silenzio, mentre i media tendono a liquidare la battaglia civile della valle di Susa come una mera questione di ordine pubblico. «Qualora la nostra istanza non venisse accolta, e le perplessità in essere si rivelassero fondate in fase di realizzazione ed esercizio dell’opera, la presente resterà a futura memoria», concludono docenti e ricercatori italiani (sul sito NoTav.eu l’elenco provvisorio dei firmatari).
sabato 11 dicembre 2010
Fini-ta

Fini alla Camera vota la riforma dell’università – “la migliore delle riforme della legislatura”, ha osservato – e la riforma passa. Naturalmente, ciò non impedisce a Fli di votare la sfiducia al governo, dopo un’estate rovente di attacchi indecenti allo stesso Fini, e di presentarsi quale nuovo campione della legalità, della sobrietà, della giustizia. Apprendiamo che Fli valuta l’astensione sulla riforma della giustizia. E anche ciò non impedirà di votare la sfiducia. Chi non la vota è fuori, tuona Granata. Immaginiamo le risate dall’estero: i corrispondenti non avranno, temiamo, la pazienza di ripercorrere tutti i distinguo, le posizioni sfumate, gli interessi taciuti che animano questa travagliata stagione del centrodestra.
Gianni Vattimo
http://italiadeivalori.antoniodipietro.com/articoli/politica/finita.php
venerdì 16 luglio 2010
Vattimo, Huésped de Honor
mercoledì 30 giugno 2010
L'appello in difesa dell'Università
Università, stop esami e lezioni contro manovra e tagli
venerdì 25 giugno 2010
Cento professori contro i tagli all'università
Uno sciopero di tutti i docenti. La sospensione delle sedute di laurea e il rinvio dell'inizio delle lezioni: cento professori hanno firmato un duro appello "In difesa dell'Universi

mercoledì 20 gennaio 2010
Brevi cenni sulle attività al Parlamento europeo negli ultimi mesi

Secondo punto: sono stato eletto (nominato: il posto, per altro, “toccava” a un deputato dell'Alde, il gruppo dei liberali, del quale l’Idv fa parte) vicepresidente di Eurolat – l’assemblea interparlamentare del Parlamento europeo e dei Parlamenti Latino-americani. Sinora, a riunirsi è stato il bureau di questo “parlamento” (tutta l'assemblea, composta da 50 membri, si riunisce solo una volta all'anno). Il bureau è un gruppo più ristretto, una ventina di membri circa, e si è riunito a fine ottobre a Panama. Al centro dei dibattiti, la situazione in Honduras: sia come componente europea (in modo più deciso), sia come bureau di Eurolat, abbiamo 1) preso posizione contro il colpo di stato di Micheletti ai danni di Zelaya, 2) ascoltato la segretaria di Stato del deposto Zelaya, 3) appoggiato una risoluzione finale che chiedeva, per le elezioni imminenti, tenutesi poi a gennaio, garanzie internazionali (http://www.europarl.europa.eu/intcoop/eurolat/documents/declarations/honduras2009/794942en.pdf). Gli interessati potranno seguire l’evoluzione dei nostri sforzi sulla situazione in Honduras (e sulle materie trattate dalla nostra assemblea) alla pagina http://www.europarl.europa.eu/intcoop/eurolat/default_en.htm, che contiene tutti i documenti adottati non da Eurolat ma dall’Unione europea tutta. A parte la relativa inefficacia delle decisioni, difetto tipico di tutte le istituzioni sopranazionali, Eurolat è importante per i contatti con l´America Latina; io mi sto occupando di creare un piano per incontrare colleghi latino-americani nei prossimi mesi, a cominciare da cubani e venezuelani.
Terzo punto, le audizioni dei Commissari designati nella nuova commissione Barroso.
Si sono svolte nella settimana scorsa (11-16 gennaio). Io ho partecipato all'audizione del commissario alla Ricerca e della commissaria alla Cultura. Si rivolgono domande, preannunciate, e il commissario designato risponde, dopo di che le commissioni competenti danno un parere sulla sua nomina. Non si sentono cose clamorose, nel senso che le domande sono soprattutto modi per segnalare pubblicamente problemi che si vuole il commissario tenga presenti: l'unico commissario non approvato negli ultimi anni di legislatura del 2004, se non sbaglio, è stato Buttiglione per la sua posizione sui gay (ma come avrete visto, anche questa seconda commissione Barroso vedrà una “rinuncia”). L'audizione della signora Vassiliou, di cui avete letto in questo blog, è stata abbastanza pacifica. Le ho chiesto se era possibile che l'Unione agisse sugli stati membri per migliorare e portare a un livello standard europeo le forme di assistenza al diritto allo studio, borse, residenze universitarie, prestiti d'onore, ecc. Ho suggerito (un vecchio cavallo di battaglia, ma che continua a restare di attualità) che si potrebbe adottare una specie di “Maastricht delle università europee”: se le università dei vari paesi non garantiscono certi standard (numero di borse in una certa percentuale su numero di studenti; e così numero di collegi, di biblioteche, ecc.), si potrebbe non riconoscere i loro titoli a livello europeo. La Commissaria ha promesso che presenterà la questione al prossimo incontro dei ministri dell'istruzione in occasione del decennale del "processo di Bologna". Altra questione su cui ho attirato l'attenzione della Vassiliou è il predominio dei prodotti dell'industria culturale statunitense nel cinema, tv, audiovisivi, ecc., in Europa. Ha promesso che terrà d'occhio la questione, per promuovere di più la nostra produzione di industria culturale, che è anche campo di competenza del commissario ai media e alla comunicazioni. In genere, il filo conduttore del dibattito con Vassiliou è stato istruzione-ricerca-innovazione; ma anche, nello specifico: mobilità di studenti e professori tra le scuole e le università europee (per esempio, per insegnare – anche nelle scuole medie – potrebbe essere richiesto di aver fatto almeno un periodo all'estero); attenzione speciale a gruppi particolarmente sfavoriti, come i bambini immigrati, ecc. (avrei voluto parlare dei carcerati, ma sarei stato immediatamente zittito, perché la politica carceraria è dominio riservato degli stati membri...). La commissaria si è anche impegnata a promuovere le scelte dei giovani verso facoltà-"titoli", per così dire, sia in relazione ai rapporti con le aziende, sia per orientarli verso le scienze dure (pare che troppo pochi studino fisica, chimica, ecc.); e invece a sgonfiare un po' la bolla delle professioni "finanziarie", popolari fino ad ora ma disastrose dopo la crisi bancaria. Questo delle scienze dure e del riorientamento degli studenti verso di esse, sfatando i miti della finanza, è stato anche un leit motiv della presentazione del commissario alla ricerca e innovazione, che vorrebbe vedere associata più spesso la parola “verde” a quella di “industria”.
sabato 23 maggio 2009
A TORINO PROVE GENERALI DI REPRESSIONE
Sto forse partecipando a una nuova, piccola, guerra di Spagna, quella dove si collaudarono le armi per la seconda guerra mondiale? La manifestazione studentesca di Torino del 19 maggio, che alla fine ha visto due fermi e – forse con un po’ di esagerazione – venti agenti di polizia feriti, a quanto pare non gravi – non sarà un banco di prova per mettere a punto tecniche di repressione della guerriglia urbana di cui il governo sente di aver bisogno nel futuro prossimo?

Molti segni sembrano far pensare a questa spiegazione, che altrimenti sarebbe difficile da trovare. Tra questi segni, alcuni – non sappiamo se prodotti davvero da un unico “grande vecchio”, da un progetto di provocazione deliberato, ma certo molto ben congegnati – paiono particolarmente indicativi: già il nome della riunione dei rettori di quaranta università di tutto il mondo, battezzata subito “G8 dell’università”, come se quasi chiunque non sapesse che evocare il G8 suscita immediatamente reazioni contestative, oggi tanto più prevedibili dato lo stato di crisi di una città come Torino, dove solo qualche giorno prima si è consumato l’altro episodio “preoccupante”, e stigmatizzato con toni apocalittici da tutto il coro della stampa “indipendente”, della contestazione a Rinaldini della Fiom. Ma altro ancora fa pensare alla provocazione deliberata: chi comanda le forze di polizia a Torino è lo stesso vice-questore Spartaco Mortola della Diaz di Genova (otto anni dopo; era proprio necessario mandare lui?) ; e l’uso ostentato di elicotteri sul corteo, anche, a quanto pare, per sparare lacrimogeni. Come al G8 di Genova, il governo, sempre più incapace di fronteggiare seriamente la crisi economica, pensa di salvarsi trasformando il tutto in una questione di ordine pubblico. Fino a quando? Difficile sperare che sia solo per il periodo elettorale.
mercoledì 20 maggio 2009
A Torino, democrazia bloccata per gli studenti
martedì 12 maggio 2009
Università e ricerca, no al modello americano

La scelta di candidarmi nuovamente al Parlamento Europeo è legata anzitutto alla volontà di portare in Europa, e dentro l’Italia dei Valori, la mia lunga esperienza di professore universitario: un’esperienza che mi ha dato da vivere in molti sensi (economico, certo, ma anche nel confronto continuo con le molte generazioni di studenti conosciuti in quarant’anni di lavoro) e che mi ha fatto conoscere dall’interno i pregi e i limiti del sistema italiano.
Dei mali dell’università italiana si è detto molto (a partire dal sistema dei concorsi per i docenti, fino ad arrivare all’annoso problema del numero chiuso per gli studenti). Ma si è detto, molto giustamente, che nonostante ciò i nostri atenei sono in grado di sfornare “cervelli” preparati e competitivi sullo scenario globale. E si è detto anche della capacità del nostro sistema di garantire l’accesso a strati della popolazione diversi, grazie alla garanzia pubblica sulle università, che restano un importante motore dello sviluppo e della mobilità sociali. Tuttavia proprio questi pregi del sistema italiano oggi appaiono gravemente messi in pericolo, senza che ci si sia mostrati minimamente in grado di affrontare i mali oggettivi delle nostre università.
È un dato di fatto che, se l’Italia partorisce “cervelli in fuga”, ciò significa che dai nostri atenei escono laureati e ricercatori in grado di dimostrare le proprie capacità e l’alto livello della propria formazione. Ed è altrettanto evidente che oggi le nostre facoltà accolgono studenti che provengono da famiglie di livello sociale straordinariamente differente e che perciò hanno la possibilità di formarsi a un livello che fino a una o due generazioni fa appariva impensabile. Tuttavia la riforma Tremonti-Gelmini (il motivo per cui anche io la chiamo così sarà immediatamente chiaro), non soltanto non affronta i mali che ho richiamato, ma anzi mette in grave pericolo il valore pubblico, sociale e culturale di cui finora l’università italiana si è fatta portatrice.
Parlo di riforma “Tremonti-Gelmini”, come molti giustamente fanno dall’autunno scorso, perché è chiaro che gli interventi del governo Berlusconi in materia sono stati finora essenzialmente interventi di bilancio, che dietro al paravento del taglio agli sprechi si sono dimostrati in realtà un colpo al cuore per il funzionamento dei nostri atenei. Questo governo è nato sotto lo slogan della guerra ai fannulloni e ha identificato nei lavoratori pubblici il proprio obiettivo pressoché unico. Ora, è giusto dire che cosa è accaduto quando questo slogan, per opera della riforma Tremonti-Gelmini, si è abbattuto anche sull’università. I tagli al fondo di finanziamento ordinario (la quota di bilancio che il ministero destina alla vita degli atenei pubblici) si sta infatti ripercuotendo drammaticamente sulla vita dei Dipartimenti: tutti i Dipartimenti, anche quelli d’eccellenza (e ce ne sono molti), ai quali non sono stati riservati meccanismi premiali.
Oggi l’università soffre – questo è evidente. Ma il paradosso è che questa sofferenza riguarda proprio le fasce più deboli del mondo universitario: gli studenti e la pletora di lavoratori precari che oggi fa andare avanti i nostri atenei. Spiegherò rapidamente il perché. Intanto però consentitemi di precisare che quando parlo di “sofferenza dell’università” sto dicendo qualcosa di estremamente concreto e di nient’affatto ideologico. L’università italiana soffre dei tagli della riforma Tremonti-Gelmini perché non ha i soldi per pagare le bollette del telefono, le cartucce delle stampanti, le riparazioni per macchinari che sarebbero considerati essenziali in qualsiasi azienda del nostro Paese (dalla fotocopiatrice alle sofisticate apparecchiature di laboratorio, tanto per intenderci), le trasferte di lavoro e di ricerca dei propri dipendenti e collaboratori, la manutenzione ordinaria delle proprie strutture (dalla pulizia alla tinteggiatura degli uffici), i servizi minimi ed essenziali (l’apertura delle biblioteche, la sostituzione dei computer più obsoleti...). Ora, se questi sono gli sprechi da tagliare, il governo dovrebbe spiegarci quale mentalità aziendalistica e capitalistica accetterebbe mai che i propri dipendenti pagassero di tasca propria il mantenimento decoroso degli strumenti più basilari di lavoro. Questa è la sofferenza nella quale la sciagurata riforma Tremonti-Gelmini ha gettato l’università.
Ma il paradosso più grande – lo anticipavo – è che a fare le spese di tutto ciò non sono soltanto i docenti. A una riduzione generalizzata delle risorse economiche per le università corrisponde infatti un incremento esponenziale delle difficoltà per chi usufruisce del “servizio” in termini di didattica (ovvero gli studenti) e per chi a tale “servizio” porta nuova linfa in termini di ricerca e di sviluppo (ovvero i giovani ricercatori precari).
A una università che non ha soldi per fare andare avanti le biblioteche (orari di apertura, acquisto libri, prestito interbibliotecario) o per ospitare gli studenti in strutture minimamente vicine alla decenza (aule di dimensioni sufficienti, computer e altri servizi per gli studenti) corrisponde infatti un’accresciuta difficoltà, da parte delle famiglie meno abbienti, a mantenere i propri figli nello studio. Meno biblioteche, meno computer, aule disagiate e sedi di lezione scomode significano infatti un onere sempre maggiore da parte delle famiglie, che rispondono come possono alle carenze dell’istituzione. Consentire ai propri figli di studiare costa sempre di più: e questo non accade soltanto per la crisi economica generalizzata che stiamo vivendo, ma anche (e soprattutto) perché le università sono in grado di dare sempre meno servizi ai propri iscritti.
In tutto ciò, nel nostro Paese è ormai un lusso anche fare ricerca, ovvero premiare le legittime aspirazioni dei giovani che si sono mostrati più brillanti nel loro percorso accademico e che ambiscono a fare della ricerca non un hobby da coltivare nei fine settimana, ma la loro ragione e fonte di sostentamento. Le riforme del welfare e dei modelli contrattuali (a cui pure qualche governo di centrosinistra non ha mancato di dare il proprio assenso) hanno fatto sì che nell’università siano cresciute esponenzialmente le forme di lavoro “non-strutturato”, ossia precario, che ora raggiungono livelli impressionanti. Mi limito qui soltanto a un dato numerico, che è estremamente eloquente. In molti casi, i censimenti ufficiali che gli atenei producono sul numero e la tipologia dei propri lavoratori mostrano che nei nostri dipartimenti circa la metà delle persone che vi lavora lo fa con contratti precari (contratti a progetto, collaborazioni occasionali, stage, borse di studio): il che equivale a dire che ogni 10 lavoratori “strutturati”, ve ne sono spesso altrettanti che collaborano con tipologie contrattuali precarie.
È questo il modello “americano” che la nostra università sta via via adottando. Dico che si tratta di un modello americano “tra virgolette” per un dettaglio, che però non è affatto trascurabile. Se negli Stati Uniti e in molti altri Paesi alla ricerca è spesso associato lo status di lavoro a tempo determinato, si dà il caso che ciò avvenga attraverso contratti che in genere sono molto ben remunerati e che bilanciano la precarietà con un corrispettivo economico di tutto rispetto. Ora, il nostro Paese, per mano del governo Berlusconi, sembra voler adottare questa filosofia (che già di per sé può essere messa in discussione), aggiungendovi una remunerazione che non è neanche minimamente vicina alla soglia della decenza. In sostanza, nei nostri dipartimenti abbiamo spesso il 50% di lavoratori precari; e questo 50% lavora con contratti che in molti casi non arrivano ai 1.500 euro. Beninteso: sto parlando di 1.500 euro all’anno, e non al mese. Tralascio di dire che inoltre, soprattutto nei dipartimenti umanistici, la precarietà è un dato di fatto che accompagna gli studiosi dal giorno della laurea fino ai 40 anni.
Ma come intervengono in questa situazione i tagli di Tremonti-Gelmini? Anzitutto, è chiaro che nei progetti di legge ora in fase di elaborazione si vede soltanto un generale rimescolamento di carte (all’insegna del principio del “cambiare tutto, perché nulla realmente cambi”), ma nessun effetto concreto sui veri difetti delle nostre università che richiamavo all’inizio: concorsi e avanzamenti di carriera, tra gli altri. E, in secondo luogo, sul fronte della precarietà avviene che in moltissimi casi le forme contrattuali stiano peggiorando oltre l’immaginabile. Parlo della riduzione (e, in molti casi, della sospensione) dei dottorati di ricerca, che sono il punto d’arrivo più alto della formazione dei nostri studenti più meritevoli. E parlo della trasformazione dei contratti precari a cui facevo riferimento, in contratti “a compenso zero”, cioè basati su manodopera esplicitamente reclutata su base volontaria, cioè – per farla breve – con attività didattica o di ricerca svolta in modo totalmente gratuito.
L’università pubblica in Italia oggi è anche questo. Non sto parlando di un futuro più o meno prossimo, più o meno pessimistico. Sto parlando di ciò che i nostri atenei stanno programmando già oggi a livello di bilancio per il prossimo autunno, a partire da settembre 2009. Le nostre università già oggi vivono di questo: studenti che lavorano in strutture disagiate e fatiscenti, con servizi che riducono di giorno in giorno la loro fruibilità; docenti che si confrontano con luoghi di lavoro in cui è garantito lo stipendio (almeno questo!), ma spesso non un supporto normale per qualunque azienda, piccola o grande che sia (ah, se l’“università-azienda” fosse questa...); giovani ricercatori precari che si vedono costretti a lavorare gratis o sottopagati, pubblicando ricerche riconosciute in tutto il mondo, ma senza la prospettiva minima di un futuro nel nostro Paese.
L’Europa, come società della conoscenza, può e deve salvare l’Italia anche in questo. E può farlo con alcune iniziative molto concrete. Mi limito a indicarne quattro, nella speranza che ciò sia anche un contributo alla riflessione e al confronto su altri aspetti.
1) Imposizione ai Paesi membri di criteri di valutazione del merito e della produttività, riconosciuti e riconoscibili, per premiare davvero il merito;
2) Bandi di finanziamento alla ricerca sempre più aperti a tutte le discipline (anche a quelle umanistiche), per migliorare le condizioni di lavoro dei ricercatori precari;
3) Incremento degli scambi internazionali, attraverso maggiori agevolazioni economiche agli studenti Erasmus e ai giovani ricercatori;
4) Facilitazioni all’editoria per la traduzione e la diffusione delle pubblicazioni scientifiche più rilevanti nei Paesi dell’Unione.
venerdì 8 maggio 2009
Cremona, lunedì 11 maggio: incontro dell'IdV "TORNIAMO IN EUROPA PER MIGLIORARE LA SITUAZIONE ITALIANA"
Con me, Giuliana Carlino e Pancho Pardi. Conclude Daniela Gorla, responsabile dell'IdV Donne di Cremona... date uno sguardo al blog idvdonnecremona.blogspot.com.
martedì 5 maggio 2009
Università, contro la riforma Gelmini: una promessa

(l'ultima lezione di Vattimo, fotografia de La Repubblica Torino, http://torino.repubblica.it/multimedia/home/3280898/1/3)
Qui troverete il video (tratto dal sito de La Stampa) del mio intervento in piazza Vittorio a ottobre, a sostegno della protesta contro la Riforma Gelmini. Mi batterò in tutti i modi, in Europa, perché la riforma sia sconfitta...
Qui sotto, una mia intervista durante i giorni della riforma Gelmini: