La Stampa - 27 settembre 2009
Ma nei tanti discorsi che si sono fatti e si fanno sulla religione c’è davvero qualche contenuto «teologico», che abbia da fare con Dio? Si tratta sempre e solo dell’esistenza di Dio; cioè della differenza tra chi crede e chi non crede, e cioè ancora: tra chi ascolta, obbediente, la Chiesa e chi no. Dove mai, nelle discussioni di questi tempi, si dibatte sulla predestinazione, l’incarnazione, o meno che mai sulla Trinità?
Un passo avanti nel dibattito potrebbe essere il capire che la relativa povertà di argomenti teologici presenti in queste discussioni dipende dal fatto che ormai la questione di Dio non è più tanto una questione dottrinale, ma piuttosto una questione di potere. È l’ipotesi che viene spontanea quando si constata, anche a livello elementare, che ciò che scandalizza credenti e non credenti nel cristianesimo è l’autorità della Chiesa, non questo o quell’aspetto della figura o dell’insegnamento di Gesù. Chi mai ce l’ha con Gesù Cristo tra coloro che si dichiarano atei o agnostici? Detto in termini più brutali: tutto ciò che ci allontana o minaccia di allontanarci da Gesù è la Chiesa stessa (intesa come «Chiesa docente», la gerarchia cattolica), a cominciare dalla sua pretese di decidere in termini autoritari sulle leggi che devono esser fatte valere in uno Stato democratico (la bioetica e la morale sessuale e familiare sono solo la punta dell’iceberg). La Chiesa, cioè, come centro di potere. Quando Papa e vescovi stigmatizzano il nichilismo e il relativismo che «impediscono una vita autentica» (è il cardinale Caffarra citato da Armando Torno nel Corriere della Sera del 23 agosto) si preoccupano davvero della «insensatezza» dell’esistenza di relativisti e nichilisti, oppure del fatto che costoro non accettano un riferimento assoluto e cioè una autorità ultima - Dio e i suoi rappresentanti sulla terra?
Si può essere relativisti e tuttavia professarsi religiosi, in un senso che non equivalga semplicemente all’accettazione dell’autorità della Chiesa? Sembrerebbe di sì, se pensiamo alla concezione della religiosità che si trova per esempio in un grande teologo protestante profondamente cristiano come Schleiermacher, che parlava del «puro sentimento della dipendenza» dall’Infinito, che potremmo tradurre con la «coscienza della creaturalità»: non mi sono fatto da me, provengo da una decisione che mi ha consegnato a me stesso e che mi chiama a una responsabilità che dà senso alla mia vita e alla storia (non puro effetto del caso, non puro lampo che viene dal niente e va verso il niente). Sappiamo che il Cristianesimo cattolico identifica la creaturalità con la dipendenza dal Dio che si rivela in Gesù Cristo e che parla attraverso i profeti e poi attraverso l’autorità della Chiesa. Prendere atto che è proprio l’autorità della Chiesa (e troppo spesso la sua connivenza con il potere) ciò che scandalizza i credenti nel nostro tempo potrebbe non essere solo - come Papi e vescovi ci hanno sempre detto - una ordinaria prova di fede attraverso cui dobbiamo passare, ma il segno di una diversa epoca nella storia della salvezza e della Chiesa stessa. Se nei secoli passati la missione della Chiesa è stata quella di far conoscere la buona novella (con i suoi dogmi, la storia dei miracoli ecc.) a tutti i popoli, oggi - dopo l’epoca della lotta alle eresie, della colonizzazione e delle conversioni di massa - può ben darsi che la missione non consista più nel chiarimento e nell’annuncio della dottrina, e nella difesa dalle eresie, ma nell’abbandono delle pretese di autorità che allontanano i credenti dall’amore di Gesù Cristo.
Se no, come accade sempre più spesso, i discorsi «teologici» che trovano tanto spazio nella nostra pubblicistica sono pura edificazione - chiacchiere esortative limitate a variazioni su un tema che non muta mai i suoi termini - che non prevede storia e nemmeno salvezza. In molti sensi, è vero pure per i credenti non papisti, diremo, che noi ci muoviamo sempre soltanto nel quadro della tradizione giudaico-cristiana - anche quando pretendiamo di starne fuori: neanche, e anzi soprattutto, gli illuministi più convinti riescono davvero a pensare la storia senza un senso e dunque senza una qualche sopravvivenza dello «spirito», che significa provenienza, responsabilità, destinazione (per problematica che sia).
Ma è proprio per rispetto della storicità dello «spirito» che occorrerebbe prendere atto della fase attuale della storia della salvezza: una fase che possiamo salutare positivamente come nichilistica e relativistica, solo perché in essa (come forse nel caso della «carità», l’unica virtù che non perirà mai, per il San Paolo della seconda Lettera ai Corinzi) oggi non è più questione di dottrina, di nozioni, di lotta sul terreno delle teorie, ma soltanto di rinuncia esemplare alla violenza del potere.
Un passo avanti nel dibattito potrebbe essere il capire che la relativa povertà di argomenti teologici presenti in queste discussioni dipende dal fatto che ormai la questione di Dio non è più tanto una questione dottrinale, ma piuttosto una questione di potere. È l’ipotesi che viene spontanea quando si constata, anche a livello elementare, che ciò che scandalizza credenti e non credenti nel cristianesimo è l’autorità della Chiesa, non questo o quell’aspetto della figura o dell’insegnamento di Gesù. Chi mai ce l’ha con Gesù Cristo tra coloro che si dichiarano atei o agnostici? Detto in termini più brutali: tutto ciò che ci allontana o minaccia di allontanarci da Gesù è la Chiesa stessa (intesa come «Chiesa docente», la gerarchia cattolica), a cominciare dalla sua pretese di decidere in termini autoritari sulle leggi che devono esser fatte valere in uno Stato democratico (la bioetica e la morale sessuale e familiare sono solo la punta dell’iceberg). La Chiesa, cioè, come centro di potere. Quando Papa e vescovi stigmatizzano il nichilismo e il relativismo che «impediscono una vita autentica» (è il cardinale Caffarra citato da Armando Torno nel Corriere della Sera del 23 agosto) si preoccupano davvero della «insensatezza» dell’esistenza di relativisti e nichilisti, oppure del fatto che costoro non accettano un riferimento assoluto e cioè una autorità ultima - Dio e i suoi rappresentanti sulla terra?
Si può essere relativisti e tuttavia professarsi religiosi, in un senso che non equivalga semplicemente all’accettazione dell’autorità della Chiesa? Sembrerebbe di sì, se pensiamo alla concezione della religiosità che si trova per esempio in un grande teologo protestante profondamente cristiano come Schleiermacher, che parlava del «puro sentimento della dipendenza» dall’Infinito, che potremmo tradurre con la «coscienza della creaturalità»: non mi sono fatto da me, provengo da una decisione che mi ha consegnato a me stesso e che mi chiama a una responsabilità che dà senso alla mia vita e alla storia (non puro effetto del caso, non puro lampo che viene dal niente e va verso il niente). Sappiamo che il Cristianesimo cattolico identifica la creaturalità con la dipendenza dal Dio che si rivela in Gesù Cristo e che parla attraverso i profeti e poi attraverso l’autorità della Chiesa. Prendere atto che è proprio l’autorità della Chiesa (e troppo spesso la sua connivenza con il potere) ciò che scandalizza i credenti nel nostro tempo potrebbe non essere solo - come Papi e vescovi ci hanno sempre detto - una ordinaria prova di fede attraverso cui dobbiamo passare, ma il segno di una diversa epoca nella storia della salvezza e della Chiesa stessa. Se nei secoli passati la missione della Chiesa è stata quella di far conoscere la buona novella (con i suoi dogmi, la storia dei miracoli ecc.) a tutti i popoli, oggi - dopo l’epoca della lotta alle eresie, della colonizzazione e delle conversioni di massa - può ben darsi che la missione non consista più nel chiarimento e nell’annuncio della dottrina, e nella difesa dalle eresie, ma nell’abbandono delle pretese di autorità che allontanano i credenti dall’amore di Gesù Cristo.
Se no, come accade sempre più spesso, i discorsi «teologici» che trovano tanto spazio nella nostra pubblicistica sono pura edificazione - chiacchiere esortative limitate a variazioni su un tema che non muta mai i suoi termini - che non prevede storia e nemmeno salvezza. In molti sensi, è vero pure per i credenti non papisti, diremo, che noi ci muoviamo sempre soltanto nel quadro della tradizione giudaico-cristiana - anche quando pretendiamo di starne fuori: neanche, e anzi soprattutto, gli illuministi più convinti riescono davvero a pensare la storia senza un senso e dunque senza una qualche sopravvivenza dello «spirito», che significa provenienza, responsabilità, destinazione (per problematica che sia).
Ma è proprio per rispetto della storicità dello «spirito» che occorrerebbe prendere atto della fase attuale della storia della salvezza: una fase che possiamo salutare positivamente come nichilistica e relativistica, solo perché in essa (come forse nel caso della «carità», l’unica virtù che non perirà mai, per il San Paolo della seconda Lettera ai Corinzi) oggi non è più questione di dottrina, di nozioni, di lotta sul terreno delle teorie, ma soltanto di rinuncia esemplare alla violenza del potere.
Gianni Vattimo
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