La posta del fegato (Rolling Stone, luglio 2011)
A proposito di ira e di pensiero debole (penso alla lettera di Cesare C., RS n. 92), due elementi che in qualche modo definiscono l’orizzonte della mia presenza su queste pagine, sono contento di poter ritornare a chiarire. Anche perché di recente un rapporto del Censis ("Indagine sulla crescente sregolazione delle pulsioni", così sui giornali) ha richiamato l'attenzione sul fatto che gli italiani sono oggi più aggressivi e insieme più depressi (in base al numero di cause relative a liti e risse; e alla quantità di farmaci antidepressivi che si consumano). Come sta una filosofia “debolista” in confronto a questi fenomeni? Serve a mitigare la litigiosità, come ci si aspetterebbe? Ma allora perché il sottoscritto parla di ira in termini più positivi che deprecatori? (Non so se addirittura avevo anche pensato di dare un titolo globale ai miei interventi: Dies irae). Sono mosso a questa visione positiva dell'ira solo da motivi politici? O addirittura privati e psicologici? E la debolezza?
Intanto, devo comunicare che un saggio che ho scritto di recente per un convegno, quasi totalmente inedito, è intitolato “dal pensiero debole al pensiero dei deboli”. Infatti: chi se non i deboli – cioè quelli che Walter Benjamin, nel breve scritto Sulla filosofia della storia, uno dei suoi ultimi, chiama i vinti della storia – può condividere una teoria filosofica debolista? Il pensiero debole, infatti, sostiene che non ci sono verità assolute e valori eterni e indiscutibili, ma solo configurazioni storico-culturali, paradigmi, che rendono possibile la nostra esperienza del mondo (un po’ come gli apriori kantiani), definendo i limiti e i criteri in base a cui si stabilisce che cosa è vero e che cosa è falso: non arbitrariamente, ma in conformità a una appartenenza storica che può sempre essere messa in discussione e che corrisponde a rapporti di forza. Ma i “vincitori”, coloro che detengono il potere, si legittimano da sempre in base a leggi metafisiche: una volta erano i re con il loro preteso diritto divino; oggi sono le autorità che credono di parlare in nome di Dio, o quelle che dicono di parlare a nome dei diritti umani (Bush che bombarda l'Iraq perché vuole promuovere la democrazia...). Di qui l’identificazione: il pensiero debole non può che essere il pensiero dei deboli. Non si limita a descrivere l’essere come debole, ma risponde a un appello: per corrispondere all'essere – per esempio, per realizzare in qualche modo la nostra autenticità umana (ciò che sempre i filosofi hanno detto di voler promuovere) il pensiero deve prender la parte dei deboli, ascoltare e far risuonare le voci di coloro che sono sempre stati “silenziati” dalla storia. Sarà possibile fare questo solo predicando la debolezza, realizzando soggetti sempre più remissivi e non-violenti? Ma anche le formiche, nel loro piccolo, talvolta si incazzano, come diceva il titolo di un libro umoristico di qualche anno fa. Così pure i deboli. Anche per realizzare un mondo “dove buongiorno voglia dire davvero buongiorno” (Zavattini, Miracolo a Milano), occorre qualche volta, e nella misura meno violenta possibile, incazzarsi. Se ci si incazza da soli in genere si produce solo bile in quantità dannose alla salute: ricordo un vecchio amico che, dopo aver fatto il politico per tutta la vita, avrebbe dovuto e potuto andare in pensione. Un giorno lo ritrovo ai comizi, candidato a una elezione: mi dice che lo fa anche per ragioni terapeutiche, glielo ha ordinato il neurologo. Solo la nota sindrome fantozziana del pensionato che torna in azienda perché non può farne a meno? Magari anche. Ma per i tanti non ancora pensionati che si arrabbiano giustamente per le cose che non vanno, fare politica è la sola via di incazzarsi in maniera – anche ontologicamente, per amore dell’essere – sana e produttiva. E meno violenta rispetto alla rivolta individuale o al crimine di strada: una resistenza nonviolenta alla Gandhi funziona se la praticano grandi masse. E a riprova si può anche citare la storia: le rivoluzioni. Cominciano spesso con piccoli atti di disordine, talvolta terroristici; ma si chiamano rivoluzioni solo quando coinvolgono masse di cittadini. Nel mondo superintegrato, e certo anche supercontrollato, in cui viviamo, le chances di fare una rivoluzione con la non violenza sono più grandi che mai. Guardate l'esempio dei grandi boicottaggi – a quanto pare in Canada una grande azienda di mobili ha dovuto smettere il taglio dei boschi perché i clienti non compravano più i suoi prodotti. E Umberto Eco ha proposto poco tempo fa la “pasta Cunegonda”, esempio di una merce non pubblicizzata su cui riversare le proprie preferenze mandando a ramengo le aziende che finanziano con la loro pubblicità ogni genere di porcheria televisiva e politica. Insomma, meno risse di strada e di condominio e meno antidepressivi; e più autentica (anche in senso esistenziale) incazzatura politica. Se anche non faremo subito la rivoluzione, cominceremo a stare un po' meglio.
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