Della realtà è un saggio filosofico che documenta un percorso di
conoscenza e che alla riflessione sul pensiero di Heidegger unisce una
costante attenzione alle trasformazioni della società contemporanea. È
al tempo stesso il romanzo di un imprevedibile ribaltamento di
prospettiva: un cambiamento che ci riguarda tutti, perché è
profondamente radicato nella storia di questi ultimi decenni.Alla metà
degli anni Ottanta, quando Gianni Vattimo diede spessore filosofico al
postmoderno, fu accusato di essere il cantore del neocapitalismo
trionfante e delle sue illusioni. La critica radicale alle ideologie e
l'accento sull'interpretazione sembravano funzionali al nuovo orizzonte,
sempre più dominato dal virtuale e dalla liquidità immateriale - a
cominciare da quella del denaro e della finanza. In questi decenni, dopo
che le ideologie sono state scardinate e abbandonate anche sull'onda
del «pensiero debole», a dominarci sono stati il principio di realtà e
la presunta oggettività delle leggi economiche. Oggi, mentre il
capitalismo attraversa una delle crisi più gravi della sua storia, il
richiamo alla realtà, in apparenza innocente e intriso di buon senso,
diventa uno strumento per imporre il conformismo e accettazione
dell'ordine vigente. Contro questa ideologia autoritaria, rivendica
Vattimo, l'ermeneutica - ovvero la costante pratica dell'interpretazione
- diventa uno straordinario strumento conoscitivo, proprio perché ci
consente di superare la dittatura del presente. In questo senso, può
diventare la base di un progetto di trasformazione e di liberazione che
ha immediate ricadute politiche.
- Titolo: Della realtà. Fini della filosofia
- Autore: Gianni Vattimo
- Editore: Garzanti Libri
- Collana: Saggi
- Data di Pubblicazione: 23 Febbraio 2012
- ISBN: 8811597013
- ISBN-13: 9788811597018
- Pagine: 231
12 commenti:
Sartre non le va a genio, perché lui concepisce l'Essere onticamente. Poi però lei difende l'ontologia di Heidegger... In essa però siamo ancora in una prospettiva ontica, tranne che non volessimo parlare delle mele nominando le pere (ontologia, onto-logia, ontologia...) Diverso sarebbe un puro pensiero dell'Essere, ma a quanto pare sopravvive in lei sopravvive la stessa pretesa razionale che lei ha (evidentemente solo apprentemente) criticata. Ma poi che senso ha corrodere l'essenzialismo a partire dal pensiero dell'Essere? Sisifo scaglia la pietra su per l'erta, la pietra gli ricade addosso. Certo, può rassegnarsi a tenersela addosso, ma a che pro? Certo, lei sembra in un pieno revival esistenzialista quando parla di progetto e simpatizza per il "proletariato". Però, vorrei farle notare quello che scrive: "L'Esistenza, pensa Heidegger, è progetto"; e poi: "Sforzarsi di ricordare l'Essere come progettualità significa ovviamente stare con quelli che più progettano perché meno possiedono". Bene, io voglio rammentarle il pensiero kierkegaardiano sulla superiorità dell'esistenza sull'essenza. Esistere ed essere sono distinti, esistenza ed essenza pure; allora se l'esistenza è progetto, definire l'Essere progettualità è quanto meno ambiguo. L'ippogrifo è ma non esiste. Come vede, a monte dell'Essere c'è qualcos'altro. E questo altro non è solo semplice azione insensata (puro esistere), ma qualcosa di organizzato, che ha una forma (esistenza). Questa forma esclude che l'essenza possa essere corrosa, del resto però essa non è una prigione (a patto che non la si ritenga superiore all'esistenza). Kierkegaard aveva definito Cristo l'esistenziale stesso. Lei si era nobilmente ricollegato alle radici cristiane, aveva nuovamente schiuso a un intero mondo il Cristianesimo (e a un altro aveva fatto tirare un sospiro di sollievo); ma non si potrebbe dopo l'incontro con Cristo ripiombare in un chiuso pensiero dell'Essere senza abbandonare di nuovo il Cristo. Eppure a Cristo lei continua a richiamarsi (contraddittoriamente, quindi). Anche Levinas, manco a dirlo, non le va a genio. Eppure come non pensare a Levinas di fronte a tale sopravvalutazione dell'ontologia? Insomma, la "nevrosi" (uso la sua espressione) realista, come ogni nevrosi, ha un significato profondo e non basta a decifrarlo dire che il riferimento alla realtà non può che esser tutto interno all'interpretazione, perché al di là dell'Essere c'è l'Esistere! Se ne teniamo conto, non abbiamo bisogno di fuggire l'essenzialismo, né di temere, conseguentemente, la natura; perché questa non è comando, non è imposizione. Al giorno segue la notte, abbiamo bisogno dell'acqua per bere... Queste 'archai' non sono sospese fuori dal tempo, sono principi in senso pieno, dunque con un inizio e una continuazione. Nello stesso Dio, che genera Dio ("Dio vero da Dio vero", recita un simbolo del credo), lei può scorgere una natura, senza per questo immaginarne la vita come una prigione. Allora il Dio dei filosofi si rivela lo stesso Dio dei credenti, solo che la fede decifra ciò che il filosofo non comprende. Allora si che la realtà si schiude. E questo non è una possibilità soltanto per la "borghesia" ma anche per il "proletariato", per quanto possano significare questi termini così schematici e riduttivi. Diversamente, l'angustia di fronte al tramonto, l'impotenza nel soccorso dei deboli. E soltanto così la polemica filosofica non scade e lo scontro politico non degenera. E ancora: l'umanità è una, si può fare appello anche all'unità. Perciò l'universalismo stesso, ricondotto alla sua fonte, è sostenibile.
Mauro Pastore
Voglio soltanto correggere due errori di battitura: verso il principio del messaggio ho scritto erroneamente una volta in più "sopravvive". Il primo non va quindi considerato. Nella seconda parentesi tonda "apprentemente" sta per: apparentemente.
Mi scuso per il disagio.
Mauro Pastore
Volevo precisare che se Cristo è l'esistenziale, non per questo l'esistenziale è soltanto Cristo. Non vorrei letture fanatiche del mio messaggio. Soprattutto volevo pure parlare del riferimento a Jaspers, così importante nel suo libro. Non ritengo possibile una critica filosofica delle premesse extrafilosofiche di una filosofia. E ciò vale anche per la filosofia tutta e anche per la scienza. Se Freud, Adler, Jung si fossero messi a demolire le stesse premesse filosofiche alla base delle loro scoperte, avrebbero negato, tutti e tre, i risultati delle loro indagini sulla psiche. Parimenti, se Kierkegaard si fosse messo a criticare il Cristianesimo, da cui prendeva le mosse la sua speculazione, questa si sarebbe semplicemente interrotta. Lo stesso dicasi su Schopenhauer e il Buddhismo e su Nietzsche e il culto di Dioniso (spero che nessuno si scandalizzi se ricollego il pensiero di Nietzsche al paganesimo). Pretendere diversamente, sarebbe un atto di prepotenza filosofica (la metafisica "oggettivante", come lei dice), oppure semplicemente l'irrompere di altre premesse extrafilosofiche nel discorso filosofico. E' proprio il manifesto persistere, nel Pensiero Debole, di un certo essenzialismo ignaro di tutte le ragioni dell'esistenza, che rende il filosofare prepotente con il mondo della spiritualità (e della religione). Jaspers invece aveva riflettuto sulle origini della filosofia con ben altra coerenza. Questo gli permetteva di muovere le sue critiche con circospezione, come quando polemizzava contro la sopravvalutazione della Bibbia (non entro nel merito di questa discussione). La filosofia non può che rivolgersi acriticamente e incoscientemente alle proprie premesse animatrici. Diverso il caso della superstizione e dell'errore, ma questo è un altro conto, perché la filosofia non nasce dalla superstizione né dall'errore. Allora Kierkegaard critichi pure le magagne della Chiesa, Schopenhauer la decadenza dell'Oriente, Nietzsche i problemi del paganesimo... Ma Cristo, Buddha, Dioniso (et cetera) sono oltre. Lei afferma candidamente, professor Vattimo, che il Pensiero Debole è eccedente rispetto alle premesse cristiane. Direi allora che oltre a una difficoltà di cammino c'è stato il sopraggiungere di altre premesse. Tutto ciò non conduce a nessuna superiore coscienza o critica. Passare dal Cristianesimo al culto di Dioniso, o ondeggiare tra i due, tutt'al più potrebbe avviare una diatriba religiosa dove i filosofi diventano le pedine inconsapevoli dei poteri di cleri e àuguri. Con tutto il rispetto per Cristo e Dioniso (e gli altri), io scorgo nella sua posizione filofica una chiusura all'alterità. Lei sarà d'accordo con me, credo, che la filosofia non nasce dal nulla né dalla scienza.
P.S.
Nel primo messaggio avevo ripetuto tre volte la parola "ontologia", inserendovi nella seconda il trattino di separazione, per ricordare, evidenziare (non dimostrare) come l'ontologia, per sua stessa definizione, non possa abbandonare la prospettiva ontica. Spero che il trattino non venga confuso per una divisione in sillabe.
Saluti.
Mauro Pastore
Spero sia chiaro cosa intendevo quando scrivevo delle critiche che Jaspers muoveva alla sopravvalutazione della Bibbia: non critiche alle premesse extrafilosofiche, ma soltanto ad alcuni aspetti non fondamentali. La contraddizione del mio discorso era soltanto apparente.
Saluti.
Mauro Pastore
Specifico ancora una cosa importantissima. La stessa schizofrenia ha un significato da valutarsi, invece che da occultare con le costrizioni manicomiali o deformare con qualche sostanza chimica. Il potere che lei giustamente paventa, non è una possibilità remota, ma una realtà purtroppo. Non esercita nessuna forma di supremazia, credo, ma c'è. Il pathos spaventa, fa paura, è inviso, perseguito. La stessa parola "patologia" viene spesso deformata sinistramente, quasi che il malato e la malattia siano la stessa cosa. Naturalmente poi si distingue tra una passione e un'altra, finendo per temere quelle passioni che le convenzioni imperanti bollano come da rigettare. Non si chiede veramente all'altro se soffra, se abbia un disagio, lo si decide al posto suo. Si decide pure se l'altro stia bene, se sia guarito o se sia peggiorato. La stessa espressione del dolore non viene considerata un messaggio, ma si crede che il dolore sia come il colore dei capelli; ma così anche una smorfia di dolore viene fraintesa. Perché se dici di soffrire per una cura, se dici di sentirti peggio, in maggior pericolo, il tuo messaggio, sia pure consistente in un sorriso amaro, viene ignorato; nessuna comunicazione viene veramente permessa. Il cattivo psicanalista va dicendo che deve vincere la "resistenza" del paziente, lo psicologo ti "chiede" la "collaborazione": il che significa raddoppiare la violenza perché le collaborazioni possono anche essere imposte. Per tacere del neurologo che interviene su "mandato" dello psichiatra se la situazione è ritenuta, o meglio, creduta "disperata": in questo caso sei trattato direttamente come fossi assente. E lo stesso Stato è stato trascinato in questo tristo (non è un errore di battitura, dicevo: tristo) gioco: perché se si fosse capito che non c'è modo di dare cura che non sia un'offerta, che non riconosca che il malato conosce il problema più dello stesso medico che dovrebbe proporre un rimedio, i ricoveri coatti non sarebbero mai stati permessi. Questi cosiddetti "T.s.o." (ho sentito dire che alcuni non verrebbero neppure ufficializzati, avvengono in semiclandestinità) non potrebbero esser definiti civili in nessun modo. Allora si tratta di guardare alle cose, tornare a una natura che non sia indicata attraverso dei comandi che ci separano soltanto da essa. (Continua nel prossimo commento)
Mauro Pastore
In Africa, forse ancora adesso, si costruiscono capanne di escrementi. In queste situazioni, potrebbe esser molto difficile evitare la peste, guarire dalla peste. Ma se solo ci fosse la possibilità di rimediare qualche capanna di foglie, se lo si volesse oltre che lo si potesse, sarebbe tutto più facile. La medicina è completamente compromessa con i modi di vivere (e con la cultura anche). In Occidente, luogo già tanto a rischio per la vita stressante, per i ritmi frenetici (e non è tutto), la "malattia mentale" non viene trattata certo con giudizio. Delle capanne di escrementi ci si meraviglia, ma invece che meravigliarsi anche delle costrizioni manicomiali (e un T.s.o, in pratica, non è diverso da un internamento in manicomio, nonostante tutto l'apparato "burocratico"), a sorprendere quasi tutti sono i discorsi che tendono a liberare i "malati", a denunciare le violenze. Senza un ritorno alla natura, concepita però come libertà e armonia, non è possibile affrontare un problema così. Oltretutto esistono tante differenze culturali ma il problema riguarda o potrebbe riguardare tutti. Il medico in Italia, per un certo verso, gode di troppi privilegi. C'è una situazione ambigua, che coinvolge lo stesso rispetto dei diritti individuali. Nessuno può sostituire la cura di sé che ciascuno ha, e questo potere di cui parlo, il quale esiste davvero, ignora questo semplicissimo principio. Questo potere, che oso definire maligno nella sua cecità, ignoranza, invadenza, è pronto a trattare il mio discorso come qualcosa da "curare". Anzi forse dire che è pronto è troppo poco. O forse mi direbbero che non sono io a pensare? Se ci si riflette, si tratta di violenza estrema, ancor più quando travestita da pietismo, circondata da smanie di "tutela", di "protezione". Anche perché costruire in un deserto o in un ambiente ostile una povera capanna di escrementi non è uno spettacolo orrido. Quel che fa orrore è vedere persone che fanno senza capire, odono senza ascoltare, agendo come dei burocrati: e invece di qualche scartoffia hanno un'anima accanto a loro. Vi prego di riflettere.
Mauro Pastore
Gentile prof. Vattimo, nel suo "Della realtà" ho trovato la risposta (molto probabilmente l'ho trovata anche in quanto non avevo mai smesso di cercarla) ad una domanda che le rivolsi alcuni mesi or sono, nel contesto di una conferenza su: L'etica, dalla metafisica all'ermeneutica, risposta che in quell'occasione – per un disguido organizzativo - non le fu possibile fornirmi. Le chiesi allora come interpretasse la rediviva (o forse mai dissolta) “sete” di realismo, nostalgia dell' Assoluto, di un ritorno al fondamento forte, che - ad onta delle innumerevoli occasione in cui è stata indebolita, criticata, dissolta, decostruita, demolita etc. da una miriade di tradizioni e di “indiscipline” più o meno filosofiche – attraversa (e secondo me ammorba) il momento attuale in tutte le sue manifestazioni, dilazionando sine die, la da lei profetizzata e auspicata “fine della modernità”, ponendo ahimè una pesante pietra su ogni “rivoluzione” possibile, ermeneutica e non. Ho pensato che il buon vecchio cane, ringhioso di risentimento perché invecchiato alla catena, possa essere una ragionevole risposta, il suo “nevrotico” scegliere di finire i propri giorni legato in quel modo, anche per difendersi dal rischio di dover provare invidia per chi di giorni davanti a sé ne ha qualcuno in più, per consumare la propria vendetta almeno avvelenandogli il beneficio di una emancipazione possibile. L'esser diventati nevrotici forse anche per aver assistito alla “scena primaria” del “deicidio”. Scegliere la cattività-cattiveria, senza neanche rendersi conto che si tratta di una scelta, credendo - in una prospettiva metafisica - che si tratti dell'unica via possibile perché "una, vera, bona". Per l'uomo contemporaneo sembra impossibile sospettare che a pronunciare il primo “piove” possa essere un venditore di ombrelli, è da complottisti! Ancora più impensabile sembra l'idea, che a pronunciare il secondo possiamo benissimo essere tutti noi, gregge contento e turlupinato. Di contro, sembra tanto ovvio da essere accettato come un articolo di fede, che si possa morire in una “missione di pace”, o che c'è il debito sovrano sulle nostre teste, (e che lo abbiamo fatto noi, non il sovrano!), che dobbiamo assolutamente ridurre lo “spread”, il quale ha la stessa cogenza metafisica della cosa in sé, (e come quest'ultima merita un'omerica risata) parola di governo tecnico! É molto meno sospetto e meno impegnativo preferire la versione ufficiale dei media mainstream ad un atteggiomento ermeneutico, le pappe precotte dell'esegesi letterale al libero esame. Anche se Gesù Cristo ci ha chiamato amici, (Gv 15,15) è molto più facile continuare ad inchinarsi alle gerarchie ecclesiastiche che ci trattano come servi sciocchi. Dimenticavo una cosa: anche tutto questo, è un'interpretazione. Grazie dell'attenzione. Paola Trombetti
Nel penultimo mio messaggio avevo scritto "psicanalisi". Purtroppo mi è capitato in passato di trovare chi tentava di eludere le mie critiche cercando un appoggio in alcuni dettagli ininfluenti ai fini del discorso: si tentava di sostenere che il termine
"psicanalisi" fosse da intendersi nel senso di "psiche-analisi", affermando una differenza con l'altro termine "psicoanalisi", la quale di fatto non v'è (chissà con quali reali intenzioni). Non avendo più ragioni, si cercò speciosamente sostegno finanche nel grammatico! Tanta è la voglia di ignoranza, che si vorrebbe piegare al pregiudizio la stessa lingua. Aggiungo pure che il mio discorso non era una elencazione esaustiva: non basterebbe allo scopo neppure un intero libro.
Avevo scritto della dissenatezza con la quale in Occidente la malattia mentale viene trattata. Non vorrei che, speciosamente, si pensasse all'Occidente come a una unità nel senso di una interezza. Anzi devo specificare che la violenza contro i cosiddetti "malati di mente" ignora tragicamente le differenze. In questo modo si inventano per molte persone problemi che di fatto non vi sono, raddoppiando la violenza con l'attribuire necessità inesistenti. Così si tende a chiudersi (con l'emarginazione, con la produzione di spettacoli insostenibili) e chiudere (entro quattro mura con una reclusione, col disconoscimento, con l'anestesia, cioè usando sostanze per lo più chimiche allo scopo di non far percepire il mondo, la vita). A cosa ci si chiude, a cosa si chiude? Al riconoscimento di un'alterità la quale spesso sarebbe anche salvifica. La violenza così risulta doppia. Invece che avvalersi del barcaiolo, gli si affonda la barca e non si varca più il fiume. Invece di prendere esempio da chi sa nuotare, gli si lega le mani. Qui, voglio estendere di nuovo il discorso, anche se il problema della medicina e dei diritti del paziente forse è il più scottante.
Lo stesso Occidente, considerato come un intero, comincia a sfuggire al pensiero. L'anima dell'Occidente viene obliata, travisata. Di questo tradimento sono responsabili anche molti filosofi. Francamente, lo stesso pensiero marxista si è reso colpevole di questo misfatto. Purtroppo, sia pure entro una considerazione "debole", il marxista fa uso di concettualizzazioni che sono tutt'altro che universali ma che si vorrebbe imporre per tali. Lei stesso, professor Vattimo, tiene al riconoscimento delle differenze. Ma entro quale mondo lei applica questo principio? Non trovo che lei abbia davvero compreso che la storia e la vicenda, gli stessi progetti, dell'Occidente non sono gli stessi per tutti. Dire Occidente significa indicare un arcano. C'è chi, perlomeno io sono tra questi, si è trovato coinvolto in una situazione che non gli apparteneva e dalla quale voleva stare lontano, non certo per egoismo. Tutto questo discorso che io ho voluto mettere per iscritto è dovuto alla prepotenza intellettuale e all'invadenza che costringono a una difesa. Ci sarebbe stato ben altro da fare per me, sarebbe meglio per tanti aprire gli occhi, svegliarsi. Avrei voluto fare ben altri doni che questo discorso.
Non sempre il toro teme chi ama il lupo e chiudere gli occhi non serve quasi mai a niente.
Si decida di saltare il recinto, oppure la si smetta di scambiare un praticello per una prateria.
Non sto esulando dalla filosofia, cui è dato a volte anche l'enigma. Altrimenti, come lo indichereste l'arcano? Come guardareste il Tramonto, senza neppure sapere chi chi vi sta al fianco?
Mauro Pastore
Nell'ultimo messaggio ho battuto per sbaglio due volte la parola "chi" invece che una. Lo preciso anche a scanso di equivoci, non vorrei che il lettore pensi che il testo sia incompleto e il mio pensiero espresso soltanto in parte.
Mauro Pastore
Ovviamente nel messaggio del 4 aprile 2012 10:33 non negavo le differenze linguistiche esistenti ma quelle inesistenti.
Benché nel mio messaggio inviato in 8 marzo 2012 20:36 'filofica' facesse ben disporre molti disgraziati, trovo giusto non lasciare a solo intuito e precisare che stava proprio per:
filosofica.
(Continuo a constatare invece che essersi fatti istituire di fatto clandestinamente ai danni di ufficialità statali autentiche cosiddetta "festa della donna", quella dell'otto marzo, sia stato errore *non filosofico* di troppi inavveduti.
MAURO PASTORE
Miei messaggi di alcuni anni orsono erano quali erano perché ad alcune possibilità del destino in eccesso contro vita degli altri, autore, G. Vattimo, del libro qui presentato, non pensava e senza vantaggio neppure di quelli per i quali agiva.
Stile di scrittura di cotali miei messaggi era volontariamente spersonalizzato ed anche per mostrare che comunicativa filosofica di stesso autore Vattimo non era in realtà personale — e ciò ne era facoltà in più non notata da altri però notata da me.
MAURO PASTORE
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