La metafisica è finita, filosofiamo in pace
La
conclusione di Vattimo a un volume di saggi in suo onore. Una
“questione di metodo” contro ogni pretesa di dominio
La Stampa, 23 febbraio 2012
Un problema preliminare, con cui la filosofia contemporanea non può non
fare i conti se vuole esercitarsi ancora come filosofia, e non solo come
saggistica o come industriosità storiografica sul pensiero del passato,
né ridursi a pura disciplina ausiliaria delle scienze positive (come
epistemologia, metodologia, logica), è quello posto dalla critica
radicale della metafisica. Bisogna sottolineare qui l’aggettivo
«radicale», perché solo questo tipo di critica della metafisica
costituisce davvero un problema preliminare ineludibile per ogni
discorso filosofico consapevole della propria responsabilità. Non sono
radicali quelle forme di critica della metafisica che, più o meno
esplicitamente, si limitano a considerarla come un punto di vista
filosofico fra altri, una scuola o corrente, che per qualche ragione
filosoficamente argomentata bisognerebbe oggi abbandonare. […]
La critica della metafisica è radicale, e si presenta come un problema preliminare ineludibile, una vera e propria «questione di metodo», là dove si formula in modo da non colpire solo determinati modi di far filosofia o determinati contenuti, ma la stessa possibilità della filosofia come tale, come discorso caratterizzato da un suo statuto logico e anche, inseparabilmente, sociale. Il maestro di questa critica radicale della metafisica è Nietzsche. Secondo lui, la filosofia si è formata e sviluppata come ricerca di un «mondo vero» che potesse fare da fondamento rassicurante alla incerta mutevolezza del mondo apparente. Questo mondo vero è stato di volta in volta identificato con le idee platoniche, con l’aldilà cristiano, con l’ a priori kantiano, con l’inconoscibile dei positivisti, finché la stessa logica che aveva mosso tutte queste trasformazioni - il bisogno di cercare un mondo vero autenticamente tale, capace di resistere alle critiche, di «fondare» - ha condotto a riconoscere la stessa idea di verità come una favola, una finzione utile in determinate condizioni di esistenza; tali condizioni sono venute meno, e questo fatto si esprime nella scoperta della verità come finzione.
Il problema che Nietzsche vede aprirsi a questo punto, in un mondo dove anche l’atteggiamento smascherante è stato smascherato, è quello del nichilismo: dobbiamo davvero pensare che il destino del pensiero, una volta scoperto il carattere non originario, ma divenuto e «funzionale», della stessa credenza nel valore della verità, o della credenza nel fondamento, sia quello di installarsi senza illusioni, come un «esprit fort», nel mondo della lotta di tutti contro tutti, nel quale i «deboli periscono» e si afferma solo la forza? O non accadrà piuttosto, come Nietzsche ipotizza alla fine del lungo frammento sul Nichilismo europeo (estate 1887), che in questo ambito siano destinati a trionfare piuttosto «i più moderati, quelli che non hanno bisogno di principi di fede estremi, quelli che non solo ammettono, ma anche amano una buona parte di caso e di assurdità»?
Nietzsche non sviluppa molto di più questa allusione ai «più moderati», ma è probabile che, come appare dai suoi appunti degli ultimi anni (gli stessi da cui proviene questo frammento sul nichilismo), l’uomo più moderato sia per lui l’artista, colui che sa sperimentare con una libertà che gli deriva, in definitiva, dall’aver superato anche l’interesse alla sopravvivenza. […]
La questione circa la fine della metafisica, la sua improseguibilità, non è ineludibile solo o principalmente in quanto si riesca a dimostrare che essa costituisce il movente, esplicito o implicito, delle correnti principali della filosofia novecentesca; ma soprattutto perché pone in discussione la stessa possibilità di continuare a filosofare. Ora, questa possibilità non è minacciata tanto dalla scoperta teoretica di altri metodi, altri tipi di discorso, altre fonti di verità ricorrendo alle quali si potrebbe fare a meno di filosofare e di argomentare metafisicamente. Ciò che getta una luce di sospetto sulla filosofia come tale e su ogni discorso che voglia riprenderne su piani e con metodi diversi le procedure di «fondazione», di afferramento di strutture originarie, principi, evidenze prime e cogenti, è la smascherata connessione che queste procedure di fondazione intrattengono con il dominio e la violenza.
La critica della metafisica è radicale, e si presenta come un problema preliminare ineludibile, una vera e propria «questione di metodo», là dove si formula in modo da non colpire solo determinati modi di far filosofia o determinati contenuti, ma la stessa possibilità della filosofia come tale, come discorso caratterizzato da un suo statuto logico e anche, inseparabilmente, sociale. Il maestro di questa critica radicale della metafisica è Nietzsche. Secondo lui, la filosofia si è formata e sviluppata come ricerca di un «mondo vero» che potesse fare da fondamento rassicurante alla incerta mutevolezza del mondo apparente. Questo mondo vero è stato di volta in volta identificato con le idee platoniche, con l’aldilà cristiano, con l’ a priori kantiano, con l’inconoscibile dei positivisti, finché la stessa logica che aveva mosso tutte queste trasformazioni - il bisogno di cercare un mondo vero autenticamente tale, capace di resistere alle critiche, di «fondare» - ha condotto a riconoscere la stessa idea di verità come una favola, una finzione utile in determinate condizioni di esistenza; tali condizioni sono venute meno, e questo fatto si esprime nella scoperta della verità come finzione.
Il problema che Nietzsche vede aprirsi a questo punto, in un mondo dove anche l’atteggiamento smascherante è stato smascherato, è quello del nichilismo: dobbiamo davvero pensare che il destino del pensiero, una volta scoperto il carattere non originario, ma divenuto e «funzionale», della stessa credenza nel valore della verità, o della credenza nel fondamento, sia quello di installarsi senza illusioni, come un «esprit fort», nel mondo della lotta di tutti contro tutti, nel quale i «deboli periscono» e si afferma solo la forza? O non accadrà piuttosto, come Nietzsche ipotizza alla fine del lungo frammento sul Nichilismo europeo (estate 1887), che in questo ambito siano destinati a trionfare piuttosto «i più moderati, quelli che non hanno bisogno di principi di fede estremi, quelli che non solo ammettono, ma anche amano una buona parte di caso e di assurdità»?
Nietzsche non sviluppa molto di più questa allusione ai «più moderati», ma è probabile che, come appare dai suoi appunti degli ultimi anni (gli stessi da cui proviene questo frammento sul nichilismo), l’uomo più moderato sia per lui l’artista, colui che sa sperimentare con una libertà che gli deriva, in definitiva, dall’aver superato anche l’interesse alla sopravvivenza. […]
La questione circa la fine della metafisica, la sua improseguibilità, non è ineludibile solo o principalmente in quanto si riesca a dimostrare che essa costituisce il movente, esplicito o implicito, delle correnti principali della filosofia novecentesca; ma soprattutto perché pone in discussione la stessa possibilità di continuare a filosofare. Ora, questa possibilità non è minacciata tanto dalla scoperta teoretica di altri metodi, altri tipi di discorso, altre fonti di verità ricorrendo alle quali si potrebbe fare a meno di filosofare e di argomentare metafisicamente. Ciò che getta una luce di sospetto sulla filosofia come tale e su ogni discorso che voglia riprenderne su piani e con metodi diversi le procedure di «fondazione», di afferramento di strutture originarie, principi, evidenze prime e cogenti, è la smascherata connessione che queste procedure di fondazione intrattengono con il dominio e la violenza.
Il riferimento a questa connessione, sebbene possa
apparire accidentale, è invece quello che, preso sul serio, rende
davvero radicale la critica della metafisica; senza di esso, tutto si
riduce a sostituire semplicemente alle pretese verità metafisiche altre
«verità» che, in mancanza di una dissoluzione critica radicale della
stessa nozione di verità, finiscono per riproporsi come istanze di
fondazione. È difficile, come pure si sarebbe tentati di fare
richiamandosi a Hegel, opporre a una tale «questione di metodo» l’invito
a provare a nuotare gettandosi in acqua, cioè a cominciare di fatto a
costruire argomentazioni filosofiche cercando se non sia possibile,
contro ogni eccesso di sospettosità, individuare alcune certezze sia
pure relativamente «ultime» e generalmente condivise. Tuttavia l’invito a
gettarsi in acqua, l’invito a filosofare,non può provenire dal nulla;
esso si richiama necessariamente all’esistenza di una tradizione, di un
linguaggio, di un metodo. Ma le eredità che riceviamo da questa
tradizione non sono tutte equivalenti: tra di esse c’è l’annuncio
nietzschiano della morte di Dio, la sua «esperienza» più che teoria,
della fine della metafisica e, con essa, della filosofia.
Proprio se si vuole accettare la responsabilità che l’eredità della filosofia del passato ci impone, non si può non prendere sul serio anzitutto la questione preliminare di questa «esperienza». Proprio la fedeltà alla filosofia è ciò che impone di non eludere, anzitutto, la questione della sua negazione radicale; questione che, come si è visto, è indistricabilmente connessa a quella della violenza.
Proprio se si vuole accettare la responsabilità che l’eredità della filosofia del passato ci impone, non si può non prendere sul serio anzitutto la questione preliminare di questa «esperienza». Proprio la fedeltà alla filosofia è ciò che impone di non eludere, anzitutto, la questione della sua negazione radicale; questione che, come si è visto, è indistricabilmente connessa a quella della violenza.
Gianni Vattimo
3 commenti:
Se la verità non esiste, lei che sta dicendo? Sta solo comunicando un'esperienza (quella della "morte di Dio" e quindi della verità e della metafisica)? E chi mi (ci) dice che sia vero? Per essere coerente forse le restano l'afasia e un laico anacoretismo. Non le pare? Se la “verità” consistesse, come lei sostiene, solo nella trasmissione di un patrimonio storico e linguistico che orienta la comprensione, il che implica che tutto è relativo alla storia e al linguaggio, nonché – deduco logicamente - alla fruizione/produzione individuale di essi, risulta relativo, storicamente e linguisticamente, anche tale relativismo (infatti tra non molto, dicono centinaia di profezie, passerà di moda). Con affetto.
Ovvio che anche il relativismo è relativo! Il relativismo è insito alla nostra contingenza storica ed evolutiva. Senza un approccio relativista non ci sarebbe discussione intorno alla/alle verità, ci sarebbe solo professione di fede e imperio. Il pensiero debole di Vattimo è etico, prima ancora che epistemologico.
Modeste rime per Gianni Vattimo e seguaci.
Sulle motivazioni (inconsce?) della strumentalità della ragione.
--------
Agiti da passione, questa o quella,
più che agenti con ragione,
usata per legittimar la prima,(cfr.Gv 3,19)
meritate voi più d'una (modesta) rima?
Sì, perché connaturati a Cristo-Verità,
che ne produce la (ahimé troppo spesso fugace) dignità.
E l'etica che finisce solo millantata
mai nessun’anima ha salvata.
Et Christus-auctoritas liberatoria
ci ha ottenuto solo transeunte moratoria,
- Carpe Vitam ! -
che a nessuno va imposta con la forza
- Ipse docet -
sed etiam – Ipse dixit - che il cuore ha dura scorza.
Se guardi infatti Caio, Sempronio o Tizio,
in tutti troverai ben più di un vizio.
Senza la di Lui liberazione,
schiava resta pure la ragione,(Gv 8,31-32)
che s’arrampica ai tempi nuovi e ai vecchi
su davvero grande numero di specchi,
per negar - pur in argutissime modalità -
sostanzial - personal - peccaminosa verità.
Come conclusione - mi pare - ben vi sta
di raccomandare a tutti noi – sempre! - l’onestà.
Saluti fraterni.
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