L’'Ana-teismo di Richard Kearney: così l'esperienza del vuoto ci riapre al problema della trascendenza
La Stampa, 16 marzo 2012
GIANNI VATTIMO
Esce oggi da Fazi il saggio di Richard Kearney Ana-teismo. Tornare a Dio dopo Dio
(pp. 330, e17,50), in cui il filosofo, allievo di Ricœur e professore
al Boston College, conduce il lettore in un percorso innovativo alla
ricerca del sacro dopo l’ateismo. Pubblichiamo uno stralcio
dell’introduzione di Vattimo.
Anateismo è l’atteggiamento religioso che Kearney sostiene e raccomanda per la spiritualità del nostro tempo. [...]
Il prefisso greco ana-, che a prima vista potrebbe essere inteso in senso negativo (come se si trattasse di negare l’a-teismo, pensate al termine an-alcolico…), significa invece, oltre che «salita», anche «ritorno». Due sensi che Kearney non sottolinea insieme, preferendo il secondo senso, il ritorno; non direi però che il primo senso, la salita, sia del tutto scomparso, giacché il ritorno implica sempre per Kearney un qualche momento di illuminazione piena, diremmo di arrivo alla cima, che coincide bensì, nella mistica, con la notte oscura di cui tanti mistici ci parlano, ma che ha comunque il carattere di un momento decisivo - una sorta di evidenza che Kearney pensa sempre in base all’eredità della fenomenologia assimilata attraverso il suo maestro Ricœur. Il senso del prefisso ana-, dunque, non è solo una questione di filologia, segna anche, pare a me, la differenza - leggera ma non insignificante - attraverso cui io mi introduco nel discorso di Kearney, e perciò la via che, solo, posso indicare ai lettori.
Dunque: la cultura dentro la quale ci capita di vivere è orientata a considerarsi il punto di arrivo di uno svolgimento che, negli schemi filosofici dominanti, di origine hegeliana, ma anche genericamente illuministici e positivistici, si pensa come proveniente da fasi primitive teistiche, caratterizzate da una religiosità non di rado superstiziosa, che poi, attraverso scienza e tecnica, si evolve progressivamente verso quella che Nietzsche chiamerà la «morte di Dio» (il quale per lui si rivela una menzogna non più necessaria all’uomo tecno-scientificamente evoluto), e cioè verso un ateismo teorico-pratico sempre più generalizzato. Questo schema illuministico-storicistico è quello da cui Kearney parte per negarne la validità, alla luce non solo della propria esperienza personale, ma di quella che gli sembra, giustamente, una diffusa ripresa, o sopravvivenza, del problema di Dio al di là di ogni approdo ateistico. Non solo a causa di quelle che si potrebbero chiamare le autocontraddizioni performative del «progresso» (dalla bomba atomica all’Olocausto), ma per l’incertezza e l’esperienza di finitezza che il nostro mondo conosce e che lo richiamano, appunto, a quel senso di vuoto e di sospensione di ogni certezza che l’autore chiama anateismo.
Ancora in armonia con la propria formazione fenomenologica, Kearney pensa a questo stato d’animo come all’epoché husserliana, quella sospensione dell’atteggiamento «naturale» nei confronti delle cose che permette di elevarsi alla visione delle essenze. Si va oltre l’ateismo «naturale» del nostro mondo quando facciamo esperienza di questo vuoto che è anche l’apertura a una epifania, a una illuminazione, che ci riapre all’esperienza di Dio. Qualunque Dio esso sia. Nel vuoto e nell’incertezza che ci apre all’anateismo e a un nuovo possibile incontro con Dio entra anche la consapevolezza moderna e tardo-moderna della pluralità delle religioni, dunque il problema del dialogo interreligioso e delle molteplici vie che in esso si confrontano e spesso si scontrano. L’anateista di Kearney è inoltre un uomo del dialogo con gli dèi stranieri. La religiosità ritrovata nella sospensione degli assoluti sia teistici sia ateistici è anche caratterizzata da una apertura all’altro che è sempre stata preclusa alle fedi non passate attraverso la notte oscura - non solo mistica, ma culturale - di cui noi moderni siamo figli e prodotti.
Kearney, nelle non rare digressioni autobiografiche del libro, ricorda anche di aver a lungo lottato contro l’autoritarismo della sua Chiesa e poi delle Chiese e sette che ha incrociato. Di modo che l’anateismo non è solo, in definitiva, il momento di sospensione e di vuoto destinato a trovare «di nuovo» una fede «piena» più o meno affine alle fedi tradizionali, ma un atteggiamento che deve accompagnare (sembra di parlare dell’«io penso» kantiano!) ogni fede ritrovata. Di ogni fede comunque ritrovata deve far parte la preghiera che domanda di essere aiutati a credere: Signore, credo, aiuta la mia incredulità. Che era anche la preghiera persino di Madre Teresa, come ricorda Kearney. Ma potremmo pensare a Pascal, che consigliava ai non credenti di pregare per ottenere la fede.
Il prefisso greco ana-, che a prima vista potrebbe essere inteso in senso negativo (come se si trattasse di negare l’a-teismo, pensate al termine an-alcolico…), significa invece, oltre che «salita», anche «ritorno». Due sensi che Kearney non sottolinea insieme, preferendo il secondo senso, il ritorno; non direi però che il primo senso, la salita, sia del tutto scomparso, giacché il ritorno implica sempre per Kearney un qualche momento di illuminazione piena, diremmo di arrivo alla cima, che coincide bensì, nella mistica, con la notte oscura di cui tanti mistici ci parlano, ma che ha comunque il carattere di un momento decisivo - una sorta di evidenza che Kearney pensa sempre in base all’eredità della fenomenologia assimilata attraverso il suo maestro Ricœur. Il senso del prefisso ana-, dunque, non è solo una questione di filologia, segna anche, pare a me, la differenza - leggera ma non insignificante - attraverso cui io mi introduco nel discorso di Kearney, e perciò la via che, solo, posso indicare ai lettori.
Dunque: la cultura dentro la quale ci capita di vivere è orientata a considerarsi il punto di arrivo di uno svolgimento che, negli schemi filosofici dominanti, di origine hegeliana, ma anche genericamente illuministici e positivistici, si pensa come proveniente da fasi primitive teistiche, caratterizzate da una religiosità non di rado superstiziosa, che poi, attraverso scienza e tecnica, si evolve progressivamente verso quella che Nietzsche chiamerà la «morte di Dio» (il quale per lui si rivela una menzogna non più necessaria all’uomo tecno-scientificamente evoluto), e cioè verso un ateismo teorico-pratico sempre più generalizzato. Questo schema illuministico-storicistico è quello da cui Kearney parte per negarne la validità, alla luce non solo della propria esperienza personale, ma di quella che gli sembra, giustamente, una diffusa ripresa, o sopravvivenza, del problema di Dio al di là di ogni approdo ateistico. Non solo a causa di quelle che si potrebbero chiamare le autocontraddizioni performative del «progresso» (dalla bomba atomica all’Olocausto), ma per l’incertezza e l’esperienza di finitezza che il nostro mondo conosce e che lo richiamano, appunto, a quel senso di vuoto e di sospensione di ogni certezza che l’autore chiama anateismo.
Ancora in armonia con la propria formazione fenomenologica, Kearney pensa a questo stato d’animo come all’epoché husserliana, quella sospensione dell’atteggiamento «naturale» nei confronti delle cose che permette di elevarsi alla visione delle essenze. Si va oltre l’ateismo «naturale» del nostro mondo quando facciamo esperienza di questo vuoto che è anche l’apertura a una epifania, a una illuminazione, che ci riapre all’esperienza di Dio. Qualunque Dio esso sia. Nel vuoto e nell’incertezza che ci apre all’anateismo e a un nuovo possibile incontro con Dio entra anche la consapevolezza moderna e tardo-moderna della pluralità delle religioni, dunque il problema del dialogo interreligioso e delle molteplici vie che in esso si confrontano e spesso si scontrano. L’anateista di Kearney è inoltre un uomo del dialogo con gli dèi stranieri. La religiosità ritrovata nella sospensione degli assoluti sia teistici sia ateistici è anche caratterizzata da una apertura all’altro che è sempre stata preclusa alle fedi non passate attraverso la notte oscura - non solo mistica, ma culturale - di cui noi moderni siamo figli e prodotti.
Kearney, nelle non rare digressioni autobiografiche del libro, ricorda anche di aver a lungo lottato contro l’autoritarismo della sua Chiesa e poi delle Chiese e sette che ha incrociato. Di modo che l’anateismo non è solo, in definitiva, il momento di sospensione e di vuoto destinato a trovare «di nuovo» una fede «piena» più o meno affine alle fedi tradizionali, ma un atteggiamento che deve accompagnare (sembra di parlare dell’«io penso» kantiano!) ogni fede ritrovata. Di ogni fede comunque ritrovata deve far parte la preghiera che domanda di essere aiutati a credere: Signore, credo, aiuta la mia incredulità. Che era anche la preghiera persino di Madre Teresa, come ricorda Kearney. Ma potremmo pensare a Pascal, che consigliava ai non credenti di pregare per ottenere la fede.
4 commenti:
Il prefisso "ana", professore, è anche una parola che in albanese significa: "lato, fianco, parte, limite, accanto..." ad es. applicando il verbo "camminare" fa: c. di/a lato, c. di/a fianco, c. di/da parte, c. a/sul limite e in fine c.d'accanto ecce... insomma professore, senza dilungarmi tanto, può essere una chiave di lettura e avrei capito giusto Kearney?
...Essere a tutti varianti religiosi un fiancheggiatore, in quanto religioni, starne d'accanto senza dovervi schierare, limitarsi a chiamarlo Dio senza un nome proprio e così via...facendolo tutti arriviamo a un comune centro di gravità?
Se Dio (il dio personale dei 3 monoteismi) è morto, lasciamolo stare, una buona volta.
Non cerchiamo di dare nuovi nomi al mistero, girando sempre intorno ai soliti concetti.
Di Dio non c'è bisogno, punto. O meglio non dovrebbe più essercene bisogno. Quello di cui c'è bisogno è maggiore chiarezza sul mondo e sul ruolo dell'uomo in questo mondo.
Tornare a Dio, sotto mentite spoglie, è avallare tutta una gerarchia di valori che non ha fatto altro che creare problemi.
Non è stato certo l'ateismo a produrre fenomeni come Olocausto e bomba atomica ...
Non intendo per questo perorare le ragioni dell'ateismo. Quello che mi piacerebbe è che, almeno tra coloro che si definiscono "pensatori" il "teismo" con tutti i possibili suffissi a- ana - sovra ecc, ecc, possa essere superato.
Ma non credo che accadrà. Siamo affezionati alle nostre rogne.
Aggiungo che Pascal diceva che bisognava "impecorirsi" (bétizer) per accettare la fede ...
Un uomo che voleva disperatamente credere per paura dell'inferno dopo la morte ...
Perché alla fine è tutto lì, il nocciolo.
Si fanno giri incredibili solo perché, sotto sotto, la paura del vecchio inferno cristiano è ancora bella e pronta, mai sopita, brama di punizione e autoflagellazione ...
Quello che si evince da tutto questo, non è che Dio è morto e bisogna tornare a Dio, ma che Nietzsche è più vivo che mai e non si riesce proprio ad ammazzarlo ...
@ MASSIMO rif. 20 dic 15:47
Non posso che concordare con te, soprattutto nella tua chiosa del tuo post in riferimento.
Con un'unica osservazione.
In questi ultimi anni sul problema della possibilità di Dio o non-possibilità di Dio, sono arrivato alla seguente conclusione: la FEDE, cioè la credenza o se vuoi Nietzschenianamente la Volontà di Potenza, dipende UNICAMENTE dal proprio Profilo Psicologico .
Come si spiega infatti che ho amici preparati, intelligenti, ragionevoli ecc. di cui certi sono cattolici devoti e altri atei irriducibili ?
Studiando le loro personalità, pur non essendo uno psicologo o psicanalista o psichiatra (per mia fortuna), ho potuto rilevare che le cose le differenze tra i due gruppi stanno solo nei loro profili psicologici (con ciò che vorrà significare). Quindi si torna ad una specie di Giansenismo. Se sei nato con quel dato profilo psicologico sei credente e dunque ti salvi. Se sei nato col profilo psicologico diverso sei fottuto !
Dunque la Fede dipende da una probabilità statistica ? Mah…….
Un’altra cosa, se mi sai rispondere.
Non capisco come fa Vattimo (che ammiro molto sia chiaro !) a coniugare la sua tesi del c.d. “pensiero debole” col fatto di considerarsi “cristiano”, cioè credente.?
Se tutto infatti, come dice Vattimo, è interpretazione, allora anche le affermazioni della Chiesa sono interpretazioni, ma la Chiesa dice che le sue sono Verità Epistemiche, cioè assolute e inconfutabili. E allora ?
Se consideriamo poi la c.d. “transustanziazione”……mammamia !
Grazie per la tua attenzione. Mi firmo: Paolo Nesi
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