Trent’anni dopo «Il pensiero debole»: la lunga fedeltà all’ermeneutica, mancando i fatti
Vattimo, la libertà il nostro abisso
«Della
realtà»: il nichilismo come caratteristica saliente della cultura
contemporanea Un mondo che moltiplica vorticosamente le sue prospettive,
venuta meno ogni ipotesi metafisica
di Federico Vercellone. TuttoLibri, La Stampa, 3 marzo 2012
Sono
ormai trascorsi quasi trent'anni da quando apparve presso Feltrinelli,
a cura di Gianni Vattimo e di Pier Aldo Rovatti, un volume che ha
smosso gli animi e fatto epoca, Il pensiero debole. Fu subito chiaro
che si era toccato un nervo scoperto. In breve la questione era la
seguente: si doveva constatare che la società di massa era andata
trasformandosi in una civiltà dei media dominata dall' immagine. I
grandi guru della critica della cultura, non importa se di sinistra e di
destra, avevano guardato al fenomeno con un occhio implacabilmente
critico. Ma, come sempre, non tardò ad arrivare il tradimento di un
chierico. E non poteva che essere un transfuga di grande livello a
difendere l'avversario di sempre. L'interrogativo posto da Vattimo era
se davvero il mondo immaginario dominato dai media fosse un vuoto
fantasma. O se non si trattasse invece di un universo che possedeva
impreviste chances di emancipazione. Se non si trattasse di una cultura -
era questa l'ipotesi «debolista» - che consentiva davvero il
realizzarsi del sogno liberale e illuminista di un mondo pluralista, ove
tutte le individualità potevano esser contemplate e riconosciute nella
loro peculiarità. E' il sogno postmoderno.
Gianni
Vattimo enunciò l'idea che la possibilità di possedere molte
televisioni si configurava come un pluralismo inedito, sconosciuto ai
mondi precedenti che si erano fissati sull'unicità della verità. Grazie a
questo passo egli incarnò, agli occhi di una parte consistente
dell'élite culturale, l'immagine di colui che ha cambiato sponda per
unirsi ai vincitori. La polemica contro il pensiero debole divenne così
una polemica contro la cultura dominante da parte di un settore
significativo della casta dominante della cultura. E la cosa è
continuata sino a tempi recentissimi anche grazie al recente dibattito
sul «nuovo realismo».
E'
venuto dunque il momento di fare bilanci equilibrati di una vicenda
filosofica in trasformazione e ancora in atto, che ha attraversato fasi
diverse e anche autocritiche. Proprio Gianni Vattimo ci fornisce questa
occasione grazie al suo libro più recente, Della realtà, pubblicato
ora da Garzanti nel quale raccoglie e rielabora scritti degli ultimi
quindici anni raccolti intorno a due nuclei di lezioni tenute nel 1998 a
Lovanio e nel 2010 a Glasgow (le prestigiosissime «Gifford Lectures»).
Com'è
ben noto, il pensiero di Vattimo fa riferimento a una tesi di
Nietzsche, secondo la quale «non ci sono fatti, solo interpretazioni»,
laddove anche questa «è un'interpretazione». Le obiezioni principali
formulate contro questa tesi sono due. La prima è di natura
epistemologica: su questa via viene messa in questione la verità della
scienza. La seconda è invece di ordine pratico-morale: se tutto è
interpretazione, ogni cosa diviene opinabile. Così diventa lecito negare
l'Olocausto ma anche, perché no?, viaggiare in controsenso
sull'autostrada. Ora, per quanto mi risulta, né Gianni Vattimo né altri
rappresentanti del pensiero ermeneutico hanno mai rifiutato di farsi
visitare dal medico a causa di una sfiducia preconcetta nei confronti
della scienza o, anche tralasciando l'Olocausto, hanno attentato in
automobile, emuli di Marinetti, alla vita propria e a quella altrui. Se
le cose stanno così, ci sarà qualche buon motivo per rivisitare la
questione da un altro punto di vista.
Anche
in questo libro Vattimo afferma che il nichilismo, che si prospetta
con forza nella tradizione Nietzsche-Heidegger, costituisce una
caratteristica saliente della cultura contemporanea (postmoderna e
oltre...). Il nichilismo comporta che l'universo abbia perduto il
proprio cardine, l'idea di Dio come Essere Supremo, certezza ultima
della consistenza del creato, della sua coerenza, garanzia della verità
delle nostre conoscenze, sigillo di un ordine buono e giusto. Quando il
fulcro di quest'ordine grandioso viene meno, quando, per dirla con
Nietzsche, si scopre che «Dio è morto», si spalanca un abisso. Alla
verità ultima sancita dalle salde architetture della metafisica, si
sostituisce un mondo che, in assenza di un fuoco dello sguardo,
moltiplica vorticosamente le proprie prospettive. In questo ambito si
diviene consapevoli della radicale storicità dell'esistenza, dei saperi,
e di tutto il tessuto di concetti che li compongono. E' il mondo
totalmente tecnicizzato che ci è consueto, nel quale tuttavia si
spalanca un'altra volta, grazie alla consapevolezza profonda del
carattere divenuto di noi stessi e del mondo, l'abisso della libertà.
Quali criteri, per scegliere secondo verità e giustizia, vanno adottati
in questo contesto nel quale non siamo confortati da alcuna oggettività
stabile? Probabilmente, per cominciare a sbrogliare la matassa,
dobbiamo ricordarci, come ci insegna molta biologia contemporanea, che
neppure la natura è «oggettiva», ma è attraversata da moti di
autorganizzazione creativa che la rendono molto prossima alla cultura.
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