Pareyson, l'uomo è una tragedia di libertà
La Stampa - TuttoLibri, 3 dicembre 2011
La riscoperta. Vent’anni fa moriva il filosofo che ha lasciato un profondo solco nell’esistenzialismo contemporaneo. Si ristampano le sue opere, e lunedì un convegno lo celebra
Gianni Vattimo
Il convegno che si tiene in questi giorni a Torino è
dedicato, nel ventennale della sua morte (e mentre presso l’editore
Mursia si pubblicano le sue opere complete), al pensiero estetico di Luigi Pareyson.
La scelta del tema è certamente giustificata, giacché la teoria della
formatività (così Pareyson aveva intitolato il suo rivoluzionario libro:
Estetica. Teoria della formatività, uscìto nel
1954; oggi in edizione Bompiani, 1988) è stata senz’altro la prima
ragione della sua notorietà nella filosofia italiana dell’epoca (anche
se Pareyson appena ventenne aveva già prima pubblicato il fondamentale
libro su L’esistenzialismo e Karl Jaspers, 1940, riedito da Marietti, 1983), e resta ancora la sua opera più conosciuta in Italia e all’estero.
Luigi Pareyson (1918-1991) |
Ma forse una ragione di opportunità si aggiunge a
questa, per giustificare la scelta del tema del convegno: da un lato
l’estetica è anche la prima formulazione della sua filosofia, con il
centrale concetto di interpretazione che era destinato a divenire un
termine essenziale della filosofia continentale europea degli anni
seguenti; d’altro lato, è nel nocciolo dell’estetica che i discepoli di
Pareyson, che hanno poi preso strade teoriche diverse, si riconoscono
come una scuola. Così, è difficile pensare che il più noto oggi (e anche
ormai il più anziano) dei suoi scolari, Umberto Eco, potesse seguire il
maestro negli sviluppi essenzialmente ermeneutico-religiosi del suo
pensiero successivo. A Eco è affidata la relazione di apertura del
convegno, dunque, non solo per una ragione «pubblicitaria», del resto
legittima; ma come un modo di riprendere Pareyson, per così dire,
dall’origine.
Un’origine che, a prima vista, può sembrare difficile da
collegare con gli esiti «tragicisti» e esplicitamente religiosi del suo
itinerario filosofico: penso soprattutto agli scritti raccolti in Ontologia della libertà, uscito postumo (Einaudi, 1995) che oggi più ancora dell’estetica, e
presso filosofi della generazione più «giovane» (una delle relazioni del
convegno sarà tenuta da Massimo Cacciari) mantiene vivo l’interesse
intorno al maestro torinese.
La diade Eco-Cacciari segna bene i confini estremi della
presenza di Pareyson nella filosofia di oggi. E il convegno torinese,
che nasce come iniziativa della cattedra di Estetica oggi tenuta a
Torino da Federico Vercellone, anche per i non specialisti e gli
studiosi più giovani è una buona occasione per capire come la teoria
della formatività possa aver dato luogo agli sviluppi ultimi del
pensiero tragico. Il quale, non dimentichiamolo, è concentrato intorno
alla problematica, e scandalosa, nozione del «male in Dio», una nozione
inseparabile dalla ontologia della libertà.
Detto sommariamente, se al mondo c’è libertà, e cioè se
la nostra esperienza di esser liberi ha un senso, anche Dio deve essere
pensato come libero; ma dunque come qualcuno che «sceglie» e decide, tra
un positivo e un negativo tra bene e male, qualunque cosa essi
significhino; e non come l’atto puro della metafisica classica che è già
sempre perfetto e compiuto: il problema della predestinazione, e della
stessa creazione, su cui si sono spaccate le teste di tanti teologi
sarebbe insolubile se Dio fosse caratterizzato da questa perfetta
immutabilità.
E l’estetica che c’entra? Pareyson elabora la teoria
della formatività analizzando l’esperienza del fare artistico: che
sebbene non necessitato da niente, non è arbitrario: l’artista si
corregge, rifà, cambia. Guidato da quello che Pareyson chiama «forma
formante». Ma proprio perché non è arbitrio, la forma che nasce nella
creazione artistica, e in qualunque evento legato all’ iniziativa umana,
è manifestazione di una presenza che trascende la pura relazione tra il
soggetto e l’opera.
Vattimo, Eco, Pareyson e Gadamer |
È questa trascendenza, la presenza di una «legalità»
non riducibile alla iniziativa cosciente del soggetto, che avvia alla
riflessione sull’esperienza religiosa. L’essere che accade così nel fare
umano non si lascia spiegare in termini razionali, è affare di libertà:
se si vuole, qui c’è una traccia degli studi pareysoniani sul
romanticismo e l’estetica kantiana del genio. Ma soprattutto, questo è
un modo di render conto della irriducibilità della cultura alla pura
funzionalità vitale: come le opere d’arte, anche se in misure e maniere
diverse tutte le forme culturali sono creazioni non «richieste» né
«spiegate» da ciò che veniva prima, dunque opere della libertà. Ciò che è
libero è imprevedibile e non deducibile dal già dato. Per questo
l’esperienza religiosa ha senso come esperienza mitica: delle origini
può esserci solo racconto (è il senso del termine greco mythos), mai discorso razionale, logico-deduttivo.
I miti non si scelgono, si ereditano: Pareyson è stato
un cristiano credente, e tuttavia è molto probabile che anche la sua
fede cristiana fosse storico-mitica più che metafisicamente certa. Ma
anche nella sua esperienza della religione come mito non c’è
arbitrarietà, come già nell’esperienza estetica. La presenza della
trascendenza (come in tanti dei suoi autori: Jaspers, Barth, Heidegger,
Schelling; fino a Dostoevskij) non si lascia includere nell’orizzonte
tranquillizzante della logica; ha piuttosto i tratti aperti e
problematici della libertà, o se si vuole della vita.
1 commento:
grazie per il bell'intervento , studio arte .R.
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