Grazie a Dio, non dipendo da nessuna verità
Filosofi e uomini di cultura si confrontano con i temi della relazione
tenuta da Costantino Esposito all’ultimo Meeting per l’amicizia tra i
popoli, a Rimini, il 23 agosto 2011, dal titolo “E l’esistenza diventa
una immensa certezza”. «L’incertezza ci inquieta proprio perché essa ci
provoca a scoprire che, all’inizio, noi siamo indelebilmente segnati da
una certezza – ecco il colpo di scena che il nostro stesso essere ci
riserva: è solo perché in qualche modo noi la conosciamo già, questa
certezza, che possiamo patirne la mancanza».
Per leggere tutti gli interventi dello speciale “E l’esistenza diventa
una immensa certezza”, cliccate qui.
18 ottobre 2011
“Non si può più pensare che ‘c’è’ una verità; giacché se ci
fosse sarebbe necessariamente la nostra. Grazie a Dio, sono incerto”.
GIANNI VATTIMO interviene nel dibattito sulla certezza
Grazie
a Dio sono incerto, o anche ateo – non idolatra, non
verità-dipendente... E poi, una esistenza tutta certezza, che barba. Un
po’ come il paradiso della tradizione: tota simul ac perfecta possessio.
Ma per favore. Invece, però, che cosa? La storicità aperta, che è il
vero senso del creazionismo. Non siamo manifestazioni di una struttura
geometricamente demonstrata, la razionalità che incontriamo nel
mondo è solo un “fatto”, un prodotto contingente, storico, che per
esser tale – con la nostra esperienza di scelte, di alternative, di
progetti con riuscite e fallimenti – di ex-sistenza, cioè – attesta il
carattere eventuale, libero, della mia provenienza. Chiamo Dio l’atto di
libertà originaria da cui proviene la mia libertà, e che certo non
posso dimostrare con le cinque vie tomiste né con qualche altro metodo
deduttivo. Persino Cartesio non lo dimostra. E Kant riesce a immaginare
solo la vita eterna come una continuazione della lotta per il bene, cioè
come storia.
Luigi Pareyson |
Se storia, se l’esistenza è storia, non è
mai certezza definitivamente raggiunta. Non che si sia sempre nel
dubbio e non si “capisca” mai niente. Ma è la libertà, cioè in fondo
l’anima, che l’uomo non deve-vuole perdere. E la libertà originaria da
cui sento di dipendere non è contenuto di una idea chiara e distinta.
Mi si dà solo come storia, racconto, mito. È l’insegnamento dell’ultimo
Pareyson (Ontologia della libertà, Einaudi, Torino 1995) che
pensa l’esistere come una ermeneutica del mito. La certezza con cui mi
sento “appartenere” al mito, il mio, quello della mia storia, non è la
certezza assoluta della ragione matematica (possibile solo se esistere
significasse derivare logicamente da una struttura immutabile) che
dovrebbe attestarne la “verità”. È per l’appunto una certezza
esistenziale, sempre a cavallo tra la mezza luce dei ricordi d’infanzia
(anche Gesù Bambino, anche Babbo Natale, come ci rinfacciano sempre i
“realisti”) e quella della scommessa pascaliana.
Perché una certezza esistenziale di
questo genere non dovrebbe bastare? Già, chi lo nega, e perché? Una
certezza esistenziale non basta per comandare, molto semplicemente. Se
Hitler avesse solo avuto una profonda insofferenza verso gli ebrei –
magari derivata dalla sua invidia per il piccolo Wittgenstein suo
compagno alla scuola elementare di Linz, come si racconta – non ne
avrebbe probabilmente operato uno sterminio così sistematico; lo ha
fatto perché aveva una “teoria”, con pretese di valore “oggettivo”.
Proprio come oggi si invoca la “legge di natura”, universale e dunque
valida per tutti, che la conoscano o no – per vietare i matrimoni gay,
per non discutere di eutanasia; solo per fortuna non si parla più della
“naturale” superiorità dei bianchi sui neri. Del resto, non perché si
sia riconosciuto, “oggettivamente”, che era una teoria sbagliata, ma
solo perché i neri si sono ribellati...
Mi
si obietta: ma le rivoluzioni, anche quelle dei neri, non si sono forse
ispirate a una qualche verità, anche proprio al diritto “naturale”? Ma
forse che i monarchi ereditari hanno mai accettato di concedere la
costituzione perché avevano “riconosciuto” la verità predicata dai loro
sudditi? Perché anche il diritto “naturale” non dovrebbe essere un
mito-certezza esistenziale – dei neri oppressi dai bianchi, dei poveri
sfruttati dai ricchi, ecc.? Allora, se però è solo lotta di tutti contro
tutti, ha ragione chi vince e basta? Intanto, importa prendere atto che
adesso, e da molto tempo,da quando ci ricordiamo, è proprio così, quasi
la sola “legge di natura” che conosciamo. E, se vogliamo ragionare da
buoni democratici, la “ragione” vera starebbe comunque dalla parte dei
più: dei popoli oppressi, dei proletari sfruttati...
Il punto è che, in corrispondenza o
forse a causa, delle trasformazioni politiche – la rivolta dei popoli
coloniali, la fine obbligata dell’eurocentrismo, anche la vergogna degli
occidentali cristiani per le conversioni forzate e l’appoggio
all’imperialismo nei secoli della modernità – non si può più pensare che
“c’è” una verità; giacché se ci fosse sarebbe necessariamente
la nostra, non si è mai vista una filosofia, o una religione, che
professi l’esistenza della verità che non le appartenga. Ciò di cui ci
rendiamo sempre più conto – ma sarà questa appunto “la verità”, come ci
obiettano i cultori del vacuo argomento antiscettico? – è che la verità
universalmente valida è un’idea inseparabile dal potere. Anche quando
serve ai rivoluzionari, è la base di una rivendicazione di potere, non
certo la soddisfazione di un bisogno “naturale” di sapere come stanno
le cose.
Ma ancora: solo lotta di tutti contro
tutti? No, una volta scoperto questo (strano) vero, siamo finalmente
liberi di negoziare alla pari con gli altri. Non: diciamo che ci siamo
accordati perché abbiamo trovato la verità; ma che abbiamo trovato la
verità perché ci siamo accordati. Ciascuno con i propri miti e le
proprie convinzioni esistenziali: forse è questa versione laica e
democratica della carità il vero messaggio del cristianesimo, Dio è
presente fra noi quando ci amiamo e rispettiamo. E non altrove, nemmeno
nell’alto dei cieli.
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