La posta del fegato - Rolling Stone, giugno 2011
Caro Professore, leggo che parte una sua nuova rubrica dedicata all’ira. E ci vedo una contraddizione per una persona che ha fondato l’idea di “pensiero debole”. Cosa resta di quell’idea? Quando non possiamo non dirci incazzati, ha senso parlare di un individuo “indebolito”, fragile. O mai come adesso può tornare utile? Cesare C.
Caro Cesare C., anche nei periodi in cui mi sono sentito più vicino al “debolismo” e alle sue implicazioni etiche ho sempre pensato, e detto, che per diventare deboli ci voleva molta forza. È vero però che non sempre la debolezza del pensiero debole mi è apparsa sotto la medesima luce: alle “origini”, erano gli anni del terrorismo rosso e nero, io pensavo che l’emancipazione a cui guarda la filosofia non potesse in alcun modo confondersi con la presa del potere per mezzo della lotta armata. Il soggetto debole a cui pensavo era piuttosto l’Oltreuomo di Nietzsche, che ha sufficiente spirito di “superiorità” e di distacco per esercitare una certa ironia anche contro se stesso e le proprie pretese di far valere i principi. Del resto, nella debolezza teorizzata era anche inclusa la diffidenza verso ogni forma di assolutismo dei principi, e invece una propensione verso la carità, che allora chiamavo pietas, una sorta di condivisione dei limiti che ci fa guardare agli altri con una certa tenerezza, come verso ogni vivente che è destinato a morire e che, finché è vivo, attraversa tanti momenti di sofferenza legata alla peribilità di tutto; un po’ come suggerisce il detto “sunt lacrimae rerum”, che non so di dove venga ma che esprime una certa mesta accettazione della condizione umana. Anche adesso, del resto, non mi sento di lamentarmi troppo dei miei mali e della mia mortalità, li accetto come atto di solidarietà con gli altri viventi. Noto di passaggio che questo atteggiamento mi ispira anche in rapporto all’eros e al desiderio, alla “carne”: non sei più giovane e attraente, vorrai mica diventare come il Gustav von Aschenbach della Morte a Venezia che, ma forse accade solo nel film, si trucca in vari modi per poter avvicinare il suo amato Tadzio; o, peggio, come qualche ben più vicino e reale mio coetaneo che usa le sue ricchezze per circondarsi di amanti, vere o finte che siano. Mi rendo conto che, messa così, l’etica del pensiero debole scivola nel patetico e nel lamentoso. Dunque lasciamo da parte lamentazioni e compassioni. Che non sono tutte messe fuori gioco per quanto riguarda la (mia) vita privata; ma che certo, almeno sul piano teorico, hanno sempre più lasciato il posto alla indignazione che traspare dal mio testo “inaugurale” uscito nel numero scorso. Che è successo? Direi che sempre più, non per ragioni “filosofiche” (del resto, anche il pensiero debole era profondamente ispirato alla attualità) ma per il corso del mondo, il debolismo ha perso le sue connotazione psicologiche, anche se non etiche, ed è diventato una filosofia della storia, una idea dell’emancipazione umana realizzabile solo attraverso la riduzione della violenza, certo anche accettando quel tanto di violenza che è richiesta per non cedere ai soprusi, per non lasciare che i deboli (noi, anche) siano sempre sopraffatti dai forti come agnelli sacrificali. Debolezza è diventata qui soprattutto il riconoscimento della propria finitezza storica: non sono Dio, non posso pretendere di stare al di sopra delle lotte storiche, sono sempre gettato in un mondo e in una condizione che, ancora una volta, mi obbliga soprattutto alla solidarietà con il mio prossimo. E la solidarietà con il mio prossimo non è dettata puramente e semplicemente dalla mia finitezza storica, per la quale, forse, dovrei solo pensarmi e agire come una parte, un contendente interessato e basta. C’è un elemento di universalità anche nella solidarietà di classe, è come il quantum di universale che riesco a esperire e praticare. Non si ama mai tutta l’umanità, ma se ne ama una parte perché la si vorrebbe amare tutta. Si badi che questo è anche sempre il problema della filosofia: parlo da individua limitato e anche da soggetto “trascendentale”; so che la mia verità è mia, ma la presento, la offro agli altri come l’universale che riesco a pensare; e dunque sempre anche senza nessuna volontà di imposizione. È così, o dovrebbe essere così, la democrazia: prendo il potere se le elezioni me lo danno, ma sempre riconoscendo la possibilità all’opposizione di conquistarlo a sua volta: è il senso della Costituzione, quello che sembra mancare tanto a chi ci governa oggi in Italia. Dunque mi indigno e mi incazzo, e lotto anche con i mezzi di cui dispongo, restando fedele all’ideale di un mondo dove la violenza sia ridotta al minimo… Può un soggetto debole – e cioè consapevole dei propri limiti, ironico anche verso se stesso – essere un buon rivoluzionario (giacché è di questo che si tratta quando mi indigno, in fondo)? Io penso addirittura che solo un soggetto debole, intimamente plurale, niente affatto “cartesiano” (cioè convinto di possedere una verità inconcussa e indubitabile), possa essere un buon rivoluzionario; Stalin non era “debole”, temo nemmeno Lenin. Forse il Che, forse Castro, forse Evo Morales. Non abbiamo prove storiche che un tale tipo di rivoluzionario sia possibile; ma certo, paradossalmente, sarebbe necessario.
3 commenti:
Professore, non crede che il suo Pensiero Debole significhi la fine della filosofia? Il suo più che pensiero debole mi sembra un pensiero "ontico" (per utilizzare un termine heideggeriano). Dov'è finito il legame tra l'Essere e l'uomo? La Verità (con la V maiuscola) forse non la raggiungeremo mai ma deve comunque essere un obiettivo da tenere sempre presente (purché, lo ripeto, irraggiungibile). A mio avviso sbagliano coloro che ritengono di avere una Verità Assoluta (i metafisici) ma sbagliano (in egual misura) coloro che dicono "addio" alla verità. Dire addio alla verità è dire addio alla filosofia.
Saluti,
Mario Lo Conte
ps. Come mai è stata sospesa la pubblicazione della sua opera omnia per Meltemi? Ho comprato con grande gioia i due volumi e non vedevo l'ora di procurarmi gli altri ma sono anni che è ferma...
Ma no, dire addio alla verità è (sempre più) importante, quello che lei chiama verità è in realtà (altrimenti, perché scrivermi?) condivisione, condivisione sociale, ed è (almeno spero) pienamente raggiungibile. A patto, appunto, che si smetta di cercare la verità, chiamandola di volta in volta natura, necessità, ordine. Capitolo opera omnia: una delle tante, spero temporanee, vittime della crisi, che non sembra tollerare progetti di così lunga scadenza. Ma non disperiamo, si riprenderà appena possibile.
Che il pensiero debole significhi la fine della filosofia è ormai una musica che si sente da così tanto che neanche viene più il sospetto che possa essere letteralmente rovesciata. Cosa più di una verità data e definitiva può determinare la fine del pensiero? Mi permetto di citare qualche riflessione che scrissi in questo post poco tempo dopo la lettura di Addio alla verità. L'addio alla verità, intesa come datità con la maiuscola è proprio l'abbraccio delle verità per definizione sfuggenti e non sempre compatibili (non solo con la minuscola ma anche al plurale) che continuamente ci impegna. Solo in questa situazione di perenne movimento il pensiero non può morire.
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