Intervista a Gianni Vattimo di Antonio Gnoli, La Repubblica
Fonte: LaVanguardia.com |
Ormai fa coppia
fissa con Sancho. Mentre siamo a tavola davanti a un piatto di involtini primavera
cucinati dalla domestica filippina — una suora laica, scoprirò più avanti —
Sancho scuote pigramente la testa e guarda incuriosito l’intruso, che poi sarei
io. «Non è geloso, glielo assicuro», dice Gianni Vattimo, «è solo che gli piace
essere al centro dell’attenzione. I gatti sono così: un misto di curiosità,
indifferenza e abitudine». La conversazione va avanti già da un po’. Prima
nella penombra del salotto. Poi qui nella stanza dove ceniamo, ricompresa nel
vasto appartamento torinese. C’è un poster colore rosso acido che attira la mia
attenzione: ritrae Vattimo, sotto una frase di Keynes: «La repubblica dei miei
sogni si colloca all'estrema sinistra della volta celeste». «Fu un dono di
certi amici per i miei settant'anni», ricorda il professore.
Si sente anche
lei all'estrema sinistra di qualcosa?
«Sono affetto da
un sinistrismo legato alla mia militanza cattolica. A volte sogno un comunismo
ermeneutico la cui verità si realizzi nel dialogo».
Non è più una
posizione liberale?
«No, il mondo
liberale è stato inghiottito dal liberalismo che ha cancellato ogni forma di
verità e di dialogo. Il comunismo al quale io penso non è quello scientifico,
con pretese positivistiche. Sono convinto che se Stalin avesse letto qualche pagina
sul pensiero debole avrebbe probabilmente ammazzato molta meno gente».
Ho qualche
dubbio.
«Lui ha fatto
quello che da noi eseguono i governi tecnici: ciò che era necessario, in quel
caso, per l’industrializzazione forzata dell’Urss. Bisogna guardarsi da coloro
che si appellano all'oggettività delle cose».
Realismo
uguale repressione?
«Vanno a
braccetto. Forse per questo i governi occidentali a quanto pare acquistano
sempre più armi da antiguerriglia urbana».
Era una
considerazione alla quale giunse parecchi anni fa Michel Foucault.
«Vedeva l’Occidente
sempre più preda dei controlli. Sorvegliare e punire. E non solo nelle cliniche
per matti o nelle carceri. Ma nei centri urbani. Si era invaghito della
rivoluzione iraniana. Lo conobbi nel 1964, o forse era il ’65, in un’abbazia
non lontana da Parigi dove si teneva un convegno su Nietzsche. Era abbastanza scostante,
non cercò neppure di sedurmi».
Allude alla
sua omosessualità?
«Scherzo,
naturalmente. Anche perché allora non si sapeva niente di nessuno. Comunque
arrivai fin lì da Heidelberg — dove studiavo con Löwith e Gadamer — mi
presentai, con la mia faccia da ragazzino, a Gilles Deleuze, che era l’organizzatore.
Mi squadrò sorpreso. Gli sembravo troppo giovane. Volle leggere la relazione
prima, non si fidava».
Com'era Deleuze?
«Aveva certi
unghioni stranissimi, sembrava un vampiro. Anni dopo ho introdotto in Italia
qualche suo libro. Ma le confesso che del suo pensiero ho capito ben poco».
Si creano
equivoche leggende.
«Un giorno fui
invitato a Seattle a un convegno sull'architettura post-moderna. Un tizio mi
introdusse e cominciò a citare i miei libri. Non capivo nulla di cosa stesse
dicendo. Mi sembravano delle
follie».
È l’ermeneutica
quando impazzisce.
«Come la
maionese. La filosofia può essere un bel gioco ma non tutti i giochi sono
filosofici».
Lei con chi ha
studiato filosofia?
«Mi sono laureato
con Luigi Pareyson nel 1959. Mi ero allora invaghito di Adorno e dei
francofortesi. Pareyson mi disse: “Ma perché vuole studiare questi qui? Si
dedichi piuttosto a Nietzsche che è alla base di tutti loro”. Cominciai così.
Poi nel 1960 comparve il libro di Heidegger su Nietzsche. Per leggerlo avrei dovuto
conoscere il tedesco. E allora mi recai a studiare in Germania».
Prima della
filosofia cosa era accaduto nella sua vita?
«Di rilevante il
fatto che avessi lavorato in Rai. Entrai nel 1954 con un concorso. Me ne andai
dopo qualche anno su sollecitazione del mio direttore spirituale che
considerava l’ambiente televisivo un luogo corrotto».
Il direttore
spirituale?
«Monsignor
Caramello, grande studioso di San Tommaso. Sosteneva che la mia vocazione era la filosofia. Naturalmente, sperava che
diventassi un filosofo cristiano».
E lei l’ha
deluso?
«Fino a un certo
punto. Come si dice? Santi in chiesa e fanti in taverna».
Crede nell'aldilà?
«Sarebbe un’affermazione
azzardata. Credo di più nella speranza di una giustizia divina senza la quale
non muoveremmo neanche un dito nella storia. Poi, se l’anima esala e va da
qualche parte, non lo so. Non si può spiegare tutto. Le confesso però che la
sera, prima di dormire, recito delle parti del breviario. È la compieta».
È cosa?
«Nella liturgia
delle ore è l’ultima preghiera della giornata. È molto bella».
Cosa le
trasmette?
«Un senso di
tranquillità. Ho cominciato a recitarla quando si ammalò il mio amico
Giampiero. Mi faceva stare meglio. In fondo, è come se mi figurassi di quando
ero piccolo e avevo più speranze nel futuro. La religione è un’abitudine
infantile che ti porti dentro».
Come è stata
la sua infanzia?
«Erano gli anni
della guerra. Ricordo i fischi delle bombe a Torino in Borgo San Paolo. Distrussero
la casa dei miei genitori. Decidemmo di raggiungere alcuni parenti di mio padre
in Calabria. Mia madre aveva quarant'anni e si adattò a tutto questo
stravolgimento. Restammo lì dal 1942 al 1945. Tornammo a Torino andando incontro
alla povertà più assoluta. La mamma si mise a fare la sarta e io l’aiutavo nel
sopraggitto: è un punto di cucito nel quale divenni particolarmente abile. In
fondo, il mio provvidenzialismo si lega a delle situazioni di assoluta
disperazione».
Disperazione
anche quando scoprì le sue tendenze sessuali?
«Venivo pur
sempre dal mondo cattolico, dove la repressione ha la sua importanza. Dicevo
interi rosari con le mani sul pavimento sotto le ginocchia. Un male tremendo e
avevo diciotto, forse vent'anni Quando compresi la natura
della mia sessualità mi venne l’ulcera. Mi operarono ed ebbi la fortuna di
conoscere un ballerino cubano, con cui sono stato per un paio di mesi».
Fu la
rivelazione?
«No, perché in
realtà già sapevo. Ma fu la liberazione. Era il 1968. Per lungo tempo degli
orientamenti sessuali non ho parlato con i miei amici, con le persone che mi
stavano più vicine».
Le sue scelte
si rivestono, di solito, di un senso di ironia.
«Direi più di
epicureismo. Gratta gratta, sono una persona che non è mai diventata padre. Mi
considero più giovane di quanto in realtà sia e, a volte, mi comporto come un enfant
gâté, che in un signore di quasi ottant'anni suona alquanto ridicolo».
Ha mai
desiderato un figlio?
«Certe volte,
soprattutto in passato. Ma ora non più. E poi credo che uno debba vivere bene l’esperienza
di figlio prima di averne di propri. E io non l’ho vissuta nel migliore dei
modi. Ho sognato una sola volta che sciavo dietro mio padre; ma io mio padre non
l’ho mai visto. Quando è morto avevo un anno e mezzo. Però posso dirle che ho
un sacco di “figli di puttana”, o meglio, di giovani amici di cui sono
diventato una specie di padre. Vengono spesso a mangiare qui, attorno a questa
tavola. Mi spolpano».
Le piace farsi
spolpare?
«Un po’ sì. Ho
sempre pensato che sia più facile dire sì che dire no. Non mi so difendere
abbastanza dai legami che si incrostano e che, come dice un’amica, diventano
delle spese fisse».
Che rapporto
ha con il denaro?
«Per molti anni
non mi sono amministrato da me. Prendevo lo stipendio e lo consegnavo a mia
madre. Era lei a darmi i soldi. Non ho mai fatto preventivi sul denaro. Finché
ce n'è bene, poi si vedrà».
E i suoi
desideri?
«I miei desideri
cosa?»
Come convive
con il loro calo?
«Resta pur sempre
la nostalgia del desiderio».
Accennava alla
malattia di un suo compagno. Poi si è aggiunta quella di un altro amico. Cosa è
stato per lei il dolore di vedere morire due figure così care?
«A volte mi
rimprovero di essere diventato un po’ cinico. Esperto in un genere letterario
un po’ particolare: i necrologi. Ma in certi momenti mi viene il magone. L’altra
settimana viaggiavo in macchina con un giovane amico che aveva messo una
canzonetta in cui c’entrava Fidel Castro. Improvvisamente mi sono messo a
piangere. Non mi era mai accaduto. Almeno non così platealmente. E ho pensato: sto
invecchiando. Poi mi è tornato alla mente che in quel famoso convegno su
Nietzsche, quando fu il mio turno di parlare, Gabriel Marcel si mise a piangere.
E io pensai: ma guarda che discorso commovente che sto facendo. Un collega
guardandomi disse: non ti preoccupare, da quando è vecchio lui piange sempre se
ascolta qualcuno al microfono. Un’amica psicologa dice che vivo di sensi di
colpa. Li ho ormai così estesi che se di notte prendo un taxi mi scuso con il
tassista se il percorso è breve».
Ha mai fatto
analisi?
«No. Tanto tempo
fa, la moglie di Pareyson voleva che entrassi in analisi. Diceva: si sbrighi,
che poi diventa vecchio».
C’è un’età
giusta?
«Come per tutte
le cose, quando è tardi è tardi. Ma non sono un campione degli addii».
Che ne è del
giovane brillante, il primo della classe, che stupiva i professori?
«È una zona del
passato che ogni tanto mi piace rievocare. C’è sempre un tempo in cui il pugile
ha danzato sul ring».
Dà l’impressione
che non gliene freghi più molto della filosofia.
«Da quando ho
scoperto la prassi sono un po’ distante dalla filosofia accademica. Vogliamo
ancora dare un contributo a una nuova lettura di Heidegger? Boh. La verità è
che non mi sento più a mio agio nei convegni troppo tecnici. Sto rileggendo
Spinoza e in particolare il Trattato teologico politico. Aveva intuito e
anticipato che la vera religiosità è postmoderna. La religione non ha niente a
che fare con certe asserzioni, tipo Dio c’è o Gesù è resuscitato. Cosa ne
sappiamo? Ma è la caritas verso gli altri il solo modo di vivere l’amor
dei intellettuale. Finirò col fare il predicatore in qualche comunità
religiosa, magari concedendomi qualche libertà nei costumi».
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