giovedì 13 giugno 2013

Vestivano alla torinese

di Claudio Castellacci, LeiWeb

Via Po a Torino

Via Po sta a Torino, come Broadway sta a New York. No, non in senso di show business, teatri e musical, ma in senso planimetrico. Sì, perché entrambe sono oblique rispetto alla griglia (più o meno) regolare delle strade che caratterizzano entrambe le città. Via Po, la strada dove si trova l’Università, è presa a simbolo della rinascita culturale di Torino, negli anni fra il 1950 e il 1961, da Aldo Cazzullo, inviato e editorialista del Corriere della Sera, in un libro dal titolo I ragazzi di via Po, appunto, uscito qualche anno fa e che oggi, l’editore Mondadori, ristampa nella meritoria collana Oscar (pagg. 304, euro 11).


Aldo Cazzullo
Le città cambiano in fretta, scrive Cazzullo nella nuova introduzione, e Torino ancora di più. «La Torino di oggi è molto diversa non solo da quella degli anni Cinquanta, raccontata in questo libro, ma anche dalla Torino dei primi anni Novanta, quando cominciai a raccogliere le carte e le testimonianze da cui il libro è nato». Una ex capitale in divenire. Lo racconta anche Mimmo Fiorino, l’autista personale di Giulio Einaudi, nelle sue memorie (Alla guida dell’Einaudi, Oscar Mondadori, 2011) che partono dal 1979. Era bella anche allora, dice, ma molte piazze non erano ancora pedonalizzate, molti bei palazzi erano sporchi e malandati e c’era un’intera parte del centro storico in cui non andava mai nessuno da tanto era squallida, con le puttane sedute fuori dai portoni e gli spacciatori ovunque. In quel 1979, ricorda sempre Fiorino, sembrava essere soltanto la città della Fiat e della Juventus. Fabbrica e calcio.

Eppure aveva una grande storia alle spalle: prima capitale del Ducato di Savoia, del Regno di Sardegna, infine d’Italia; e dopo la guerra era stata la città dei “ragazzi di via Po”, il periodo in cui, racconta Cazzullo, Torino ritornò “capitale” grazie alla concentrazione di un gruppo di intellettuali come non si era mai vista che dettero vita a una stagione memorabile della cultura italiana. C’era ancora Norberto Bobbio, c’era ancora Carlo Fruttero («Le sue rughe si mimetizzavano con quelle del cuoio della poltrona su cui sedeva a fumare Gauloises e a raccontare di quando faceva il giostraio nelle Fiandre, girava per Parigi in triciclo a consegnare sidro»), c’era ancora Edgardo Sogno, Giorgio Bocca, Fred Buscaglione, Raf Vallone, Giovanni Arpino, Enzo Tortora, Edoardo Sanguineti, Elémire Zolla, Vittorio Foa, Luciano Foà, Rita Levi Montalcini, Vittorio Valletta, c’erano Gianni e Umberto Agnelli; e poi Umberto Eco, Claudio Magris, Furio Colombo, Gianni Vattimo, Piero Angela, Enza Sampò, Guido Ceronetti, Pietro Citati, Giampaolo Pansa. Praticamente il Gotha della cultura, dell’industria, del giornalismo.

È una Torino sparita quella che Cazzullo racconta in questo libro, così come quella raccontata da Ernesto Ferrero in I migliori anni della nostra vita (Feltrinelli, 2009). «È sparita la Torino dura e viva degli anni Cinquanta e Sessanta, dove si costruiva la modernità italiana: la tecnologia, il design, la pubblicità, la comnicazione, la cultura, l’arte povera; e tutto – il Politecnico, gli atelier di Pininfarina e Giugiaro, lo studio Testa, la Stampa, l’Einaudi, il Partito comunista, la Juventus, l’Università, le sperimentazioni artistiche – tutto era in qualche modo legato, per affinità o contrapposizione, alla grande fabbrica, alla Fiat».

La storia di questo libro ha anche un risvolto personale che coinvolge direttamente l’autore, a cui cambierà la vita. Gianni Agnelli lesse I ragazzi di via Po appena uscito, nel 1997, e ne parlò persino con Gad Lerner nel corso di un’intervista, definendolo «un bellissimo libro sulla Torino degli anni Cinquanta». Poi mandò a chiamare Cazzullo che ricorda: «Passammo due ore insieme in corso Matteotti. Alla fine mi chiese cosa volessi fare. Siccome alla Stampa, dove lavoravo, era vacante la sede di corrispondenza di Bruxelles, risposi – mentendo – che mi sarebbe piaciuto andare lì. Lui capì subito: “Ma no, un posto così noioso… perché non va alla nostra redazione romana?”. Un mese dopo il nuovo direttore, Marcello Sorgi, mi propose di trasferirmi a Roma». E da lì la sua carriera prende il volo.

In un’ultima osservazione, Cazzullo non si dice pessimista sull’avvenire di Torino e dell’Italia, ma, si chiede, se i ragazzi che oggi hanno vent’anni siano predisposti alla fatica e alla speranza come lo furono i loro coetanei del dopoguerra. La sua risposta è: «Non lo so». Forse, nelle loro scelte, può aiutarli la lettura di questo libro. Sempre che sappiano leggere.

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