di Gianni Vattimo
Due fasi nel pensiero del grande intellettuale? No. Leggendo la raccolta degli "Scritti sul pensiero medievale", dice il filosofo, si nota la coerenza del metodo. Tomista.
Dovremo dunque riconoscere che c'è un primo Eco e un secondo Eco, così come si parla comunemente di un primo e secondo Heidegger o di un primo e secondo Wittgenstein? Una questione rilevante, perché è certo che uno degli elementi che tengono viva la ricerca su un autore, e dunque la fortuna delle sue idee, oltre alla mole del suo eventuale "Nachlass" di inediti da scoprire decifrare, pubblicare (Nietzsche, Benjamin come sommi esempi), è anche la questione dell'eventuale evoluzione o trasformazione interna del suo pensiero, con tutti i risvolti biografici e storico-generali (qui soprattutto Heidegger: il secondo Heidegger è nato con la scelta nazista?).
A tutte le ragioni della già stragrande popolarità di Eco se ne aggiunge dunque una che finora non era apparsa, e ciò accade principalmente con la pubblicazione, nella collana Bompiani del Pensiero occidentale diretta da Giovanni Reale, dei suoi "Scritti sul pensiero medievale". Sono 1.332 pagine di testi che, partendo dalla tesi di laurea (uscita nel 1956) su "Il problema estetico in Tommaso d'Aquino" (discussa a Torino sotto la guida di Luigi Pareyson) e fino alla "Intervista (immaginaria) a Tommaso d'Aquino" per il "Corriere della Sera", (2010) includono tutto (o solo probabilmente tutto) l'Eco medievalista, costituendo una sorpresa non solo per i lettori dei suoi scritti più recenti (filosofia, semiotica, romanzi, giornali, enciclopedie e storie della cultura) ma anche per coloro che lo hanno seguito fin dagli inizi della sua carriera di pensatore. (Sia detto tra parentesi, chi scrive fu uno dei primi recensori del libro su San Tommaso e degli studi sull'Estetica medievale negli anni Cinquanta del secolo-millennio scorso. "Quantum mutatus ab illo", dice Enea a Ettore nell'Eneide).
Tommaso d'Aquino |
Più che tentare di raccontare il volume ora in libreria (costa relativamente poco, 35 euro; e si legge come si legge sempre Eco, anche nelle pagine apparentemente più impervie, con vero divertimento e profitto intellettuale), leggere o rileggere questi testi raccolti insieme spinge a tentare di vedervi la filigrana di una biografia intellettuale che, per l'ampiezza della fama raggiunta dall'autore, va ben oltre l'interesse di una vicenda personale e diventa una sorta di documento d'epoca. Come lo stesso Eco racconta di aver proceduto negli studi sui medievali, si tratta di collocare anzitutto i testi nel clima storico in cui sono nati. Gli anni Cinquanta in Italia e in Europa: così la tesi su San Tommaso comincia con il proposito di riconoscere l'estetica medievale liberandola dalle tenebre in cui l'aveva relegata la cultura idealistica dominante, soprattutto Croce. Il seminario di Estetica dell'università di Torino, dove era arrivato da poco Pareyson autore della prima, e forse unica, grande estetica davvero post-crociana, è l'ambiente in cui il lavoro di Eco matura. Pareyson è un cattolico liberale, Eco in quegli anni è anche esponente del movimento studentesco cattolico, ma ciò che hanno in comune è la via "obliqua"dell'estetica più che l'interesse per il discorso religioso.
È certo che senza questo sfondo Eco difficilmente avrebbe scelto San Tommaso come tema del suo studio. (Una scelta, peraltro, rivoluzionaria all'epoca: Jacques Maritain, uno dei suoi autori di allora, era anche il maestro di tutto il cattolicesimo di sinistra del tempo). È interessante leggere qui la premessa alla riedizione, nel 1970, del libro del 1956: nel 1952 Eco aveva cominciato la tesi «in uno spirito di adesione all'universo religioso di Tommaso d'Aquino» e si ritrovava nel 1970 ad aver «regolato i conti da gran tempo con la metafisica tomista e la prospettiva religiosa». Ma curiosamente questo regolamento di conti era avvenuto proprio attraverso l'indagine su Tommaso. Anche nei decenni successivi, la vicinanza di Eco con il suo maestro rimarrà confinata al territorio dell'estetica, mentre Pareyson elaborerà - anche lui in qualche modo partendo da questo territorio originario - la sua religiosissima ontologia della libertà.
Il primo Eco sarebbe dunque un giovane cattolico tomista e il secondo un pensatore laico che ha ormai regolato i suoi conti? Il fatto è che forse la stessa scelta di studiare San Tommaso era già abbondantemente "laica"; nemmeno nel primo Eco ci sono testi intensamente intrisi di religiosità. Anche l'entusiasmo per il Medio Evo, la sua cultura figurativa, il suo modo di vivere intensamente il mondo, era in fondo l'ammirazione per una grande cultura che si poteva incontrare non solo in Tommaso o in Dante, ma anche in Rabelais, non a caso così spesso citato negli scritti qui raccolti. È davvero lo studio di San Tommaso che ha aiutato Eco a chiudere i suoi conti di cui sopra. E per quanto paradossale, la traccia di San Tommaso resta viva in tutto il suo lavoro anche degli anni più recenti.
James Joyce |
Accade a Eco quello che egli acutamente legge in Joyce: il bellissimo saggio joyciano del 1962 , qui pubblicato sotto il titolo "Ritratto del tomista da giovane" porta come epigrafe un'espressione di Joyce: "Seeled in the school of the old Aquinas", rinserrato nella scuola del vecchio Aquinate. Scritto ben prima del 1970, il primo capitolo di questo saggio si apre con la confessione di Stephen Dedalus a Cranly: «Ti voglio dire quello che farò e quello che non farò. Non servirò ciò in cui non credo più, si chiami questo la casa, la patria o la chiesa; tenterò di esprimere me stesso in qualche modo di vita o di arte, quanto più potrò liberamente e integralmente, adoperando per difendermi le sole armi che mi concedo di usare: il silenzio, l'esilio e l'astuzia». Chi parla è il giovane Stephen - Joyce stesso - educato dai gesuiti, che pur rifiutando ormai la sostanza dogmatica del cattolicesimo, ne conserva la forma mentis essenzialmente medievale, un'idea di razionalità complessiva che, paradossalmente (nel caso di Joyce), gli permette l'apertura illimitata alle più audaci avventure del pensiero e del linguaggio ("Finnegans Wake"!) senza lasciarlo mai cadere nel rischio della dissoluzione di ogni forma.
Non saprei se questo sia vero di Joyce, certo a me sembra vero di Eco. Insieme al saggio su Joyce "tomista", l'altro testo incluso nel nostro volume che suggerisco di tenere come filo conduttore per l'esplorazione di questo "Eco 1 e 2" è il saggio (anche questo rielaborazione di uno scritto precedente, del 1981) "Dall'albero di Porfirio al labirinto enciclopedico", che è una vasta escursione sul rapporto tra dizionario ed enciclopedia, quest'ultima emblematizzata dal labirinto, secondo un'immagine che Eco riprende da Rabelais, ma che è diventata corrente in tutta la cultura moderna. Il giovane tomista - Joyce o Eco - si trasforma, regola i suoi conti, passando dall'amore per il dizionario e l'albero di Porfirio, modellato sullo schema aristotelico di genere prossimo e differenza specifica, all'esperienza abissale dell'enciclopedia, non dimenticando mai, però, le proprie convinzioni originarie.
Umberto Eco |
E, nel caso di Eco, non diventa mai un post-moderno. O un pensatore debole (sebbene per un'imprudenza dovuta all'amicizia, accetti di pubblicare un suo "Antiporifirio" nel volume "Il pensiero debole" di Rovatti e Vattimo del 1983), nonostante che sia l'itinerario joyciano sia le avventure enciclopediche - dalla tv al giornalismo alle vere e proprie imprese che sono le sue Summae (cartacee o elettroniche) degli ultimi anni, dove l'amore per la sistemazione dei saperi (le liste!) resiste a stento alla curiosità di tipo borgesiano per le tante stranezze di cui lui stesso dà ampi esempi nell'escursione citata - lo predisponessero, e quasi lo predestinassero alle più rischiose perdite del centro. A quella vicenda insomma in cui, come scrive il nichilista Nietzsche, «l'uomo rotola via dal centro verso la X».
Ecco, se Eco non è mai diventato nietzschiano o heideggeriano o post-moderno è perché è rimasto tomista, non nella sostanza ma nell'impianto fondamentalmente razionalistico del suo pensiero. Come se lo caratterizzasse, già prima di arrivare agli ottanta anni di oggi, una specie di saggezza di fondo, che curiosamente ma non troppo lo accomuna a un altro (mio) maestro novecentesco (ahimè inviso ai "realisti" di oggi), Hans Georg Gadamer, fondatore dell'ermeneutica e spirito enciclopedico e pedagogico così affine a quello di Eco, come lui interessato più ai saperi sulle cose che alle cosa stesse. Anche l'ermeneutica potrebbe contare Eco tra i propri esponenti, come il post-modernismo. Se non ci fosse di mezzo la "school of the old Aquinas". Ma i conti non sono ancora davvero chiusi.
Gianni Vattimo
17 commenti:
Bisogna chiedere ad un filosofo di spiegare un altro filosofo.
Grazie della semplicità, della narrazione, professore
Gentile prof., come si possono distinguere “le cose stesse” di husserliana memoria dai saperi su di esse? La stessa conoscenza empirica, anche nella sua forma più elementare come può essere la semplice sensazione, non è mai priva di un particolare punto di vista (prospettiva), quindi non è forse già per questo essa stessa interpretazione, sapere sulle cose piuttosto che “cosa”? Quando Gadamer scrive “l'essere, che si può comprendere, è linguaggio” non fa forse crollare come un castello di carte la stessa distinzione tra ontologia e gnoseologia, resa già da tempo traballante e malferma dai colpi dell'uomo-dinamite (Nietzsche), e dal dissolversi del soggetto in dasein già da sempre in un mondo? A proposito di Eco, e della riflessione sull'evoluzione del suo pensiero, che traspare in filigrana anche dalla sua produzione di narratore, mi chedo come mai il suo impianto razionalista-tomista, nel “Nome della Rosa”non gli abbia impedito di prendersi come alter ego un perspicace allievo della scuola di Ockham, e di concludere il romanzo con l'ormai proverbiale “stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus” in un generale clima di apoteosi del nominalismo.
Sempre a proposito di Eco (ma anche di altre cose) e del suo originario e mai abbandonato interesse per la filosofia medievale, spesso riflettendo sul dibattito contemporaneo tra realismo ed ermeneutica, ho la sensazione di trovarmi di fronte - pur se in versione meno teologizzante - ad una riedizione della disputa degli universali. Mi sembra di vedere tutti voi filosofi contemporanei, sullo sfondo di qualche aula magna dall'arredamento minimale al posto della goticissima Chartres, Isagoge di Porfirio alla mano, con Ferraris nella parte di Anselmo d'Aosta o di Guglielmo di Champaeaux, che perora a spada tratta le ragioni degli “univeralia ante rem”, allora si trattava dichiaratamente e soprattutto di difendere il dogma trinitario dalle innumerevoli eresie in agguato, oggi quali dogmi si stanno difendendo dalla pericolosa eresia post-moderna?
Ho appena letto, e ne chiedo scusa, il bignami wikipediano della biografia e del pensiero di Pareyson (comprendendo anche di pronunciarlo in malo modo) e dopo aver collegato nella mia mente questa frase (di a me ignoto autore)
"[...] considerava la verità non un dato oggettivo, come avviene nella scienza, ma come interpretazione del singolo, che richiede una responsabilità soggettiva. Chiamava la propria posizione «personalismo ontologico»."
con tutta la questione echiana della verità che non esiste e del lector in fabula...
...per cui in fin dei conti l'allievo ha condotto sulla scienza dei segni (forse di medievale ispirazione per Eco, come lo fu - forse - l'occuparsi del tomista Joyce) la lezione che il maestro andava scoprendo poco prima...
...arrivo su questo post del suo blog e, ma confesso di averne l'indole, ammiro nel suo testo un altro cortocircuito mentale, nel segno della mimesi aristotelica tanto cara al Nostro, perché credo che quel parallelo tracciato con Dedalus (peraltro pseudonimo sempre del Nostro in anni eroici) non sia subito, come pare trasparire da ciò che lei scrive, ossia uno scherzo del destino o un'impostazione psicologica di un testo su di un intelletto, ma faccia parte volutamente di una costruzione di sé operata fino a tardissima adolescenza (cinquanta anni...). :)
Del Medio Evo Umberto Eco conobbe la versione storica fornita dall'ateismo di sinistra, che decise di ridicolizzare e distruggere col suo romanzo "Il nome della Rosa". Della modernità Umberto Eco conosceva anche le alternative, che non accolse sùbito e che encomiò prima di morire, non saprei se aggiungendovi testimonianze scritte appropriate o se lasciando soltanto i suoi lavori a metà. Del postmodernismo Umberto Eco criticò l'anima scettica, non mi risulta che ne avesse infine veramente descritto le costruzioni intellettuali oltre che rifiutato le distruzioni culturali.
MAURO PASTORE
Io considero Umberto Eco un uomo dalla esistenza assai molteplice. Fu uno scienziato, studioso di grande valore ma non esente da sopravvalutazioni del ruolo della scienza nella società e nella cultura. Fu pure un professore, a suo modo marxista come tutti i suoi colleghi, che si era avveduto degli errori e in parte degli orrori delle dittature del comunismo-marxismo. Accanto ed assieme a questa ufficialità v'era per lui la segretezza, ovvero il lato oscuro e imprevedibile, l'arte vissuta in prima persona: fu un romanziere davvero sublime, forse nessuno grande come e quanto lui negli ultimi decenni in Italia.
Dove lui visse le convenzioni cattoliche erano state rese delle spoglie vuote delle quali se ne era impadronito il potere comunista. D'altronde questo potere era diventato una insensatezza e niente altro. Per Umberto Eco dunque "Marx ed il marxismo" erano il metodo per filosofare senza doverne dare conto, sfiorando il sofisma ma cogliendo briciole di saggezza e sapere nel far esistere ancora la filosofia come ai tempi della sua preistoria, quando i "magi" di Persia ed Egitto e altrove ne illustravano il pensiero senza che esso esistesse già e senza che vi già fossero i filosofi. Per i contemporanei però nessuna gloria, niente bellezza! Infatti la nullità dell'esercizio filosofico condotto in istituzioni universitarie sottoposte alla dittatura di estrema sinistra serviva a evitare il compiersi della dittatura stessa, la quale usava gli intelletti filosofici per contrabbandare i propri strani e inusitati soprusi, di marca stalinista, ovvero opera dei crimini più esotici, imprevedibili e squallidi mai apparsi al mondo. Parimenti la sopravvivenza della filosofia garantiva agli scienziati la possibilità di darsi dei limiti, di evitare che il positivismo si diffondesse e generasse l'immane conseguente disastro dagli effetti mortali, tra cui lo stesso trionfo del razzismo sociale di stampo comunista e stalinista. In tanta disperante tragedia in atto, l'arte per Eco fu una salvezza. Cominciata quale arte di arrangiarsi, a Napoli di gente ordinaria ma a Bologna di individui non comuni, di espediente in espediente conduceva fatalmente Umberto Eco, in una condizione in parte determinata arbitrariamente, alla contemplazione della vanità di tutto ciò che recava il segno del potere: dottrine cattoliche, filosofemi marxisti, la stessa scienza dei segni, la semiotica, tutto ciò gli si mostrava privo di reale effettività, rispettivamente per formalismo autodistruttivo, per servizio a ragioni o non-ragioni ignote, per mancanza di reale efficacia operativa. Questa l'assenza di verità da lui descritta filosoficamente: dogmi irrimediabilmente incomprensibili, sistemi resi inutili anche per la negazione, studi destinati ai soliloqui o a pubbliche incomprensioni... L'assurdità di una situazione, fino alla paradossalità quasi onirica, da cui originò l'intuizione estetica dell'artista autore di opere, non più solo di espedienti per evitare il peggio. "Il nome della rosa" fu il presentarsi della vera storia, tra i fantasmi delle repressioni cattolico-clericali e gli spettri dei vari comunismi, diventati appunto tanti ma tutti sempre di più uno peggio dell'altro... Così Umberto Eco, onorando anche il suo aulico cognome, fece risuonare la memoria della gioia antica, nella vicenda soltanto in un certo senso inventata di un libro che raccontava di una gioia causa involontaria di odi furibondi ai danni della identica gioia! Un salomonico rifiuto a tutto l'ambiente politico, culturale, religioso cui apparteneva lui stesso.
MAURO PASTORE
Del tesoro veramente scoperto per tramite dell'arte del romanzo lo scopritore, ovvero Umbero Eco, non volle farsi anche possessore. In principio fu, è vero, per terminare il còmpito, liquidare l'intero ambiente, e dopo era, amaramente dovetti constatarlo, per scelleratezza: pubblicamente 1lasciava i pensieri filosofici allo stato di indicazioni senza realizzazione e la scrittura scientifica drammaticamente esposta alle incursioni dei manipolatori del linguaggio, i servitori degli inganni dello scientismo, quelli che, per esempio, nel reperire un segno in uno stemma ne negano sempre ed in tutto il valore simbolico... Ma soprattutto il suo proverbiale acume si trasformò in puntiglio, la giustezza in prepotenza. Dopo che io gli avevo manifestato una protesta contro il credito concesso da tanta parte della cultura letteraria italiana al libro "Gomorra" di Umberto Saviano, in quegli anni in auge nelle cronache giornalistiche e nelle elucubrazioni di intellettuali malviventi o cialtroni, ecco che lo ritrovavo 111in stupefacente accordo verbale proprio con quelle false criminologie che ignorano la solidarietà umana pur presente nonostante tutto anche se ridotta e contraddetta negli stessi progetti e gesti degli assassini! Il mio messaggio contro la stupida fortuna di "Gomorra" non gli era piaciuto evidentemente.
MAURO PASTORE
Nel mio utlimo messaggio sono presenti dei caratteri in cifra numerica che non fanno parte del mio testo ma sono stati inseriti incidentalmente. Il lettore non li consideri.
MAURO PASTORE
Erroneamente nominato nel mio messaggio Umberto Saviano, in realtà intendevo tale Roberto Saviano, appunto autore di "Gomorra". Purtroppo qualche incontro col tale Roberto Saviano fu segnato dalla disperata volontà dello stesso, Roberto Saviano, di suggerirmi con strani stratagemmi un nome diverso da questo dichiarato ufficialmente. Il lettore puntiglioso volendo ìmputi allo stesso Saviano il disagio del nome diverso ed a me soltanto i ringraziamenti per la segnalazione.
MAURO PASTORE
Dell'ultimo romanzo di Umberto Eco, "Il cimitero di Praga", è possibile lettura frammentaria, per racconti separati e con interpretazioni aggiunte, o ridotte, a seconda delle esigenze intuitive. Sembra che il professor Eco abbia, avesse voluto consegnare ad altra destinazione i suoi incompiuti filosofici e la sua scienza senza etica. Una destinazione dove tutto potesse avere un senso compiuto ed una manifestazione decisa. Da quel che ricordo da mio incontro con lui anni addietro e da messaggi a distanza, era suo programma, non moralmente vissuto, ma con prudenza... extra-morale e non a-morale! Io un giorno gli avevo mandato un invito per acquistare un biglietto di evento sportivo, di squadra di calcio giocato, non italiana, dal nome di: Sparta Praga. Accadde dopo che avevo dato occhiata a suoi nuovi testi in una libreria e avevo avvertito tanti positivi esuberi intellettuali e medesimo smarrimento di scopi possibili, non per deliberazioni ma per ambienti impossibili però senza aspirazioni diverse ma neanche con soddisfazione di lui medesimo. Sapendo della violenza terribile che permea gli ambienti positivisti ed ancora dimora nei nostalgici del totalitarismo comunista, sapendo delle difficoltà oggettive di esistenza connesse a positivismo e totalitarismo, fatto conto delle origini della scienza detta "semiotica", io avevo pensato, e ne decisi, di proporre al professor Eco un radicale mutamento di prospettive sociali-esistenziali. Il romanzo ispirato alle memorie di Praga è la autentica e degna e assai discreta continuazione dei ricordi medioevali de "Il nome della rosa". ...
MAURO PASTORE
Avevo incontrato Umberto Eco in un locale notturno di Bologna, indicatomi di sua puntuale frequentazione, dopo che pronunciati miei pensieri sulla vita davanti a lui in mia assenza, un testimone ne aveva registrato interesse non comunicato né occultato. Vissi a Bologna breve altresì brevissimo periodo, in compagnia di studentessa da altrove e un poco anche di suo convivente, probabilmente il noto cantautore F. De Gregori in presenza incognita. Costui mi faceva da tramite per gli ambienti culturali di Bologna, lei per quelli universitari. Forse le diedi anche delega per iscrivermi a detta università, ma non ne trassi nulla a riguardo in ogni caso. Ero uno studente del tutto atipico e volontariamente tale ed anche versato in tutti altri studi. Dormendo in stesso letto della compagna del forse F. , io le avevo già dato delega di evitare chiarezza, sì che potessi poi al risveglio avere tutti i dubbi e non-dubbi eventualmente relativi a congiunzioni amorose, mentali, fisiche, in stato di sonno non inerte. F. era, per suo proprio conto che non sapevo, interessato a studiarsi eventuali moti, per assenza e postumi, ed di gelosia o non-gelosia; e nonostante mia surreale timidezza, tanto che lei affidava ad un cane da caccia facoltà di girare anche per stanze da letto per darmi spazi mentali di profondo distacco, io avevo deciso di far domanda al professore e scienziato di semiotica, intorno a: segni fisicamente rilevabili (o fisiologici, ed in che senso?) di amori in stato di profonda incoscienza. F. intendeva domandarne invece di lontananze. Ricordo che al professore e scienziato U. Eco le domande piacquero e tantissimo, stante sua diffidenza per mio mondo, che disse di percepire oltremodo misterioso. Rispose enunciando i principi della sua scienza e illustrandone applicazioni possibili non ordinarie, quali quelle alle espressioni psicofisiche, che lui spiegava erano indagabili solamente quali limiti della conoscenza scientifica della semiotica. Alla ipotesi di un nuovo elemento in vita, Eco ne intese e comunicò dopo lunga riflessione che per studio-limite di semiotica i tempi di gravidanze, senza poterne osservare inizio consapevole in datore-amante, erano lunghi e lacunosi da non bastare per osservazione scientifica. Restò Eco in sorta di terrore, per il mutamento improvviso dei suoi abituali contesti intellettuali, ma decidendo di non chiudersene opzioni, che io non seppi né so né mi riguardarono neppure indirettamente. ...
Riscrivo stesso messaggio cancellata parola inutile e di troppo e aggiuntane altra opportuna:
Avevo incontrato Umberto Eco in un locale notturno di Bologna, indicatomi di sua puntuale frequentazione, dopo che pronunciati miei pensieri sulla vita davanti a lui in mia assenza, un testimone ne aveva registrato interesse non comunicato né occultato. Vissi a Bologna breve altresì brevissimo periodo, in compagnia di studentessa da altrove e un poco anche di suo convivente, probabilmente il noto cantautore F. De Gregori in presenza incognita. Costui mi faceva da tramite per gli ambienti culturali di Bologna, lei per quelli universitari. Forse le diedi anche delega per iscrivermi a detta università, ma non ne trassi nulla a riguardo in ogni caso. Ero uno studente del tutto atipico e volontariamente tale ed anche versato in tutti altri studi. Dormendo in stesso letto della compagna del forse F. , io le avevo già dato delega di evitare chiarezza, sì che potessi poi al risveglio avere tutti i dubbi e non-dubbi eventualmente relativi a congiunzioni amorose, mentali, fisiche, in stato di sonno non inerte. F. era, per suo proprio conto che non sapevo, interessato a studiarsi eventuali moti, per assenza e postumi, sia di gelosia o non-gelosia; e nonostante mia surreale timidezza, tanto che lei affidava ad un cane da caccia facoltà di girare anche per stanze da letto per darmi spazi mentali di profondo distacco, io avevo deciso di far domanda al professore e scienziato di semiotica, intorno a: segni fisicamente rilevabili (o fisiologici, ed in che senso?) di amori in stato di profonda incoscienza. F. intendeva domandarne invece di lontananze. Ricordo che al professore e scienziato U. Eco le domande piacquero e tantissimo, stante sua diffidenza per mio mondo, che disse di percepire oltremodo misterioso. Rispose enunciando i principi della sua scienza e illustrandone applicazioni possibili non ordinarie, quali quelle alle espressioni psicofisiche, che lui spiegava erano indagabili solamente quali limiti della conoscenza scientifica della semiotica. Alla ipotesi di un nuovo elemento in vita, Eco ne intese e comunicò dopo lunga riflessione che per studio-limite di semiotica i tempi di gravidanze, senza poterne osservare inizio consapevole in datore-amante, erano lunghi e lacunosi da non bastare per osservazione scientifica. Restò Eco in sorta di terrore, per il mutamento improvviso dei suoi abituali contesti intellettuali, ma decidendo di non chiudersene opzioni, che io non seppi né so né mi riguardarono neppure indirettamente. ...
Interesse del professor Eco, notai, era di porre alla mia sorprendente e sorpresa attenzione il periodo storico del Medio Evo. Lui mi ritenne sorta di extraterrestre venuto direttamente da chissà quale medioevo greco. Mi chiedeva silenziosamente di far qualcosa, purché fosse qualcosa, in Università. A Bologna, non solo in Facoltà di arti e spettacolo, io ritenni di coinvolgere professori ed alunni in interesse per la scienza empirica della enologia, particolare studio biologico applicabile ad oggetti di studio dalla unità complessa evidente, in particolare usatissima per studi su vino ed altri alcolici. Inoltre avevo dato luogo a manifestazioni di noia e di insoddisfazione per gli studi del fenomeno religioso limitati ai soli casi dei capi carismatici, secondari nei monoteismi, non perspicui nei politeismi. Le obiezioni che un poco lo fossero riguardo agli iniziatori dei movimenti religiosi panteisti erano da me astutamente ricercate per dare sèguito accademico agli interessi universitari circa lo studio rigoroso delle religioni. Degli studi sulla enologia e poi eventualmente di enologia specificamente condotti, era mia intenzione poi farne interesse degli studiosi di religione, per poi condurli a consapevolezza di: la identità tra le icone cinematografiche dei capi carismatici nella cinematografia religiosa e i valori simbolici dei culti prestati ai capi carismatici da parte delle masse religiosamente coinvolte. Certo non avevo tanta disposizione di rigore intellettuale quanto ora, ma avevo minimi concetti sufficienti ed inoltre io agivo da iniziatore ma non inoltratore. A questo ultimo scopo, ruolo fondamentale sarebbe stato di nessun individuo, del vino assunto da chi in ambiente od ambienti universitari. In questo quadro politico-culturale io facevo tesoro di quanto avevo potuto capire in locali notturni frequentati da studenti oppure da professori. In tali ambienti mi imbattei finanche in aspiranti terroristi di sinistra ed in gruppi di antipolitica, questi ultimi che si impegnavano perfino a mettere confusioni su persone e corpi di chiunque impegnato anche in politica. La diffidenza professorale fu vinta dalla visione della violenza antipolitica. Il materialismo di matrice marxista imperante in Università di Bologna, fino ad allora a disposizione del potere sovietico ed entro cui imperversava la violenza stalinista, se ne ritrovò del tutto e formalmente neutralizzato, ma restandoci lo stesso senza l'agio di prima. ...
MAURO PASTORE
Nei fatti leggendo i frammenti per così dire anche indipendenti del romanzo "Il cimitero di Praga", se ne ritrova matrice storica chiaramente legata al periodo storico medioevale, ma di fatto il romanzo presenta una modernità del tutto legata alla realtà medioevale, secondo conoscenze evidentemente del mondo medioevale che non sono comprese negli scritti noti e meno noti di Umberto Eco sul Medio Evo e che derivano dal desiderio poi realizzato di Eco stesso di porre sua attenzione intellettuale sulle origini della formazione della scienza semiotica; desiderio che lui mi aveva reso noto a Bologna descrivendomi la sua Università come... diventata strana, senza più prospettive tragiche ma neanche buone... Non ricordo se usasse tali parole ed esattamente tali. Di fatto le istituzioni universitarie di Bologna gli erano diventate inaspettatamente e spaventosamente simili, perché i presupposti materialisti introdottivi dal marxismo-comunismo avevano cambiato a poco a poco funzione, eteronomamente ma senza perdite di autonomie di facoltà. Ritenendo, a mio messaggio via internet e non solo, il professor Eco che io ne fossi, in qualche modo da lui non pensabile, sicuramente più a parte di lui stesso, io notavo che lui era interessato ad inviti sociali e culturali che lo ponessero in grado di discernere gli accaduti non a lui né ad alcuno della istituzione universitaria bolognese noti del tutto nelle cause, ma solo negli effetti; né bastò campionario di vini, alcolici vari e varie e diverse ebbrezze e ubriacature! In verità delle mie trame lui aveva potuto ricostruire ed accogliere tutto con piena approvazione e riconoscenza, restandogli questo utile interrogativo: come è potuto accadere, anche questo?? Al che io non sapevo fare nient'altro che accogliere sue esigenze di comprensioni, definendo anonimamente la origine culturale dei miei metodi di resistenza umana per la vita e la intelligenza della vita e poi, per estrema necessaria cautela comune, dandone informazioni lapidarie ed ermetiche. (Non ricordo se e quando io avevo anche dato invito al professor Umberto Eco per assistere a spettacolo calcistico con squadra così chiamata: Spartac Mosca.) ...
MAURO PASTORE
L'interesse del professor Eco per la storia della semiotica erano riferibili e riferiti a scansioni storiche atipiche, ma secondo altrui comprensioni ed in parte anche sue scanditi secondo gli evi della storia ufficiale raccontata in Università ed insegnata in Scuole italiane. Eco era restato meravigliato che dovendosi inquadrare Medio Evo e Modernità per lo scopo, non se ne poteva trarre comunque tutto anche con materiale sufficiente, dunque optando per la valutazione di altri, ulteriori parametri storici di stessi periodi di storia. Con tali premesse, fu a Praga e poi altrove, per avventure intellettuali che sono del tutto comprensibili soltanto con il supporto del testo del suo ultimo romanzo.
La genesi dell’Opera mi risulta questa:
Per studi di semiotica residente a Praga, l’Autore si ritrova a decifrare scientificamente segni del passato cittadino che contengono anche messaggi intenzionali, databili soltanto ad epoca precedente alla scienza per la quale erano stati appositamente costruiti. Durante il completamento di tali decifrazioni, è costretto ad abbandonare tutti i filosofemi che ne avevano guidato vita da studioso e di cittadino, rendendosi conto che i messaggeri avevano deliberato di interdire qualunque uso del dato scientifico che fosse privo di saggezza filosofica o che ne pretendesse vanamente potere specifico ed insostituibile. Per ragioni pratiche di esistenza, lo studioso e scienziato, nonché Autore del futuro romanzo, non potendo fare a meno di pensare altra filosofia cui far affidamento, è costretto a prendere appunti sulla vicenda storica cui i messaggi facevano riferimento e da cui provenivano; e stando in città e completando tutti suoi studi, viene a conoscenza di fonti storiche di medesime vicende, avvalorate dalle testimonianze urbane indubitabili.
Le vicende corrispondono alla preistoria dello scandalo provocato dalla diffusione di cronache false riguardanti complotto sionista in Europa ai danni di stessa Europa e per dominio su intero Occidente. Tali falsità crearono vasti risentimenti cui in Russia alcuni cittadini di sole origini giudaiche avevano reagito costruendo un reale intrigo con scopo non di dominio sionista ma di egemonia culturale orientaleggiante in vasti e decisivi ambienti politico-militari della Europa.
Tale preistoria non rappresentava alcunché di determinante per quanto accaduto poi ma di assai significativo per quanto accaduto dopo lo scandalo del falso complotto e con la fine della egemonia culturale degli orientalismi, in arte ed accademie europee ancora durevole in alcuni luoghi e discipline, ai tempi della stessa permanenza di Umberto Eco a Praga.
MAURO PASTORE
Si consideri questa frase scritta nel mio ultimo messaggio: 'L'interesse del professor Eco per la storia della semiotica erano' con tal senso: L'interesse... (gli interessi) del professor Eco per la storia della semiotica erano (...) .
Avevo in mente frase costruita in mia mente non direttamente per scrittura e con allusione implicita a molteplicità dopo pausa della formulazione del pensiero... Ma scrivendo non inserivo puntini sospensivi neppure parentesi. Si tratta di pensiero con paratassi implicita che sostituisce sintassi in apparenza scorretta in realtà interrotta ma con !mancanza di scrittura completa; il lettore si diverta per il mio puntiglio nell'illustrare mio pensiero reale ma... non ne rida perché oltretutto questo forum non è una pubblicazione libresca!!
Queste precisazioni infatti le accludo soprattutto per mostrare quanto a volte erra il giudizio di chi non sa di non pensare a tutto.
MAURO PASTORE
Si consideri questa frase scritta nel mio ultimo messaggio: 'L'interesse del professor Eco per la storia della semiotica erano' con tal senso: L'interesse... (gli interessi) del professor Eco per la storia della semiotica erano (...) .
Avevo in mente frase costruita in mia mente non direttamente per scrittura e con allusione implicita a molteplicità dopo pausa della formulazione del pensiero... Ma scrivendo non inserivo puntini sospensivi neppure parentesi. Si tratta di pensiero con paratassi implicita che sostituisce sintassi in apparenza scorretta in realtà interrotta ma con mancanza di scrittura completa; il lettore che può intendere si diverta pure per il mio puntiglio nell'illustrare mio pensiero reale ma... non ne rida perché oltretutto questo forum non è una pubblicazione libresca!!
Queste precisazioni infatti le accludo soprattutto per mostrare quanto a volte erra il giudizio di chi non sa di non pensare a tutto.
MAURO PASTORE
(Nel Medio Evo non era necessaria coscienza critica per distinguere ovviamente il messaggio di uno scritto dagli eventuali varianti testi a farne da tramite.)
MAURO PASTORE
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