mercoledì 16 marzo 2011

Gheddafi, noi e l'America Latina

Ecco un recente post sul blog che tengo per Il Fatto Quotidiano.

Gheddafi, noi e l'America Latina

Non è certo dall’Italia di Berlusconi che può venire una lezione sul modo politicamente corretto di comportarsi nei confronti di Gheddafi. Abbiamo anche di recente ricevuto il dittatore libico con onori che sono apparsi fin da allora imbarazzanti, anche in un paese abituato alle follie di Berlusconi (il quale si è spinto fino a baciargli l’anello). Mentre persino dopo i sanguinosi massacri dei primi giorni della rivolta, il governo nasconde sempre meno la propria nostalgia per i vantaggi offerti da Gheddafi: petrolio, repressione spietata delle migrazioni clandestine, affari di ogni genere per le ditte italiane.

Ma allora come si spiegano i rapporti privilegiati che Gheddafi sembra intrattenere con i governi “di sinistra” dell’America Latina? La domanda che viene subito in mente a tal proposito è: di dove vengono le armi con cui Gheddafi e i suoi mercenari sterminano oggi gli oppositori del regime nelle piazze delle città libiche? Non sono certo armi venezuelane. Vengono da Inghilterra, Francia, Italia, che le hanno fornite in abbondanza negli anni recenti. Normali rapporti di affari, come ci dicono i governi europei che sembrano scoprire solo oggi il carattere dittatoriale del regime libico. Rapporti che gli Stati Uniti hanno, spesso tacitamente, approvato: una recente intervista di Cesare Romiti, ex amministratore delegato della Fiat, conferma che la Cia era stata consultata in occasione dell’ingresso di capitale libico nella proprietà dell’azienda torinese.

Dovremmo dunque vergognarci, noi che continuiamo a guardare con simpatia e speranza ai governi di sinistra dell’America Latina, per quella che sembra una “amicizia” tra Chavez e Gheddafi? Un po’ paradossalmente ma non troppo, potremmo rispondere che, se una tale amicizia esiste, è ispirata da motivi molto più “nobili” di quelli che hanno motivato fin qui la tolleranza verso Gheddafi dei governi filoamericani come quello italiano. Nel senso che ciò che hanno avuto e ancora hanno in comune Gheddafi e Chavez è l’antiamericanismo, cioè una posizione anzitutto politica e ideologica che appare molto più difendibile delle ragioni di affari che muovono personaggi come Berlusconi. Ragioni di affari che non hanno niente a che fare con il bene dei rispettivi popoli, ma solo con l’arricchimento delle varie oligarchie economiche. Se dunque ci sono eccessi di tolleranza di Chavez, o anche di Cristina Kirchner, verso Gheddafi, essi sono errori ampiamente comprensibili nel quadro della lotta globale tra imperialismo americano e forze anticapitalistiche che lo contrastano.

È un discorso che vale anche nei confronti di governi come quello iraniano: davvero possiamo condannare Lula perché riconosce le buone ragioni di Amadinejad? Possiamo certo deprecare molti comportamenti del regime di Tehran (pena di morte, persecuzione degli omosessuali e di altre minoranze, scarsa o nulla libertà per le voci dell’opposizione, condizione delle donne), ma non per questo dimenticare che siamo di fronte al problema di una scelta di campo tra due blocchi. Con l’aggiunta che proprio dal campo in cui hanno a lungo imperversato (con la tolleranza degli Usa) dittatori come Gheddafi, Mubarak, Ben Ali, vengono oggi segnali di rivolta che non devono essere utilizzati per scopi di restaurazione: per esempio giocando la “amicizia” di Chavez per Gheddafi come strumento per screditare gli sforzi autenticamente progressisti che il governo venezuelano sta facendo per realizzare una società più vicina agli ideali del socialismo. Così, se per fermare le stragi di Gheddafi dovessimo oggi augurarci un intervento degli Usa in Nord Africa, davvero tradiremmo il sacrificio dei tanti giovani libici, e tunisini ed egiziani, che hanno dato la vita per la loro nuova speranza di libertà.

Gianni Vattimo

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