mercoledì 28 novembre 2012

Il nuovo realismo e la sfida dell'esistenza


Per concessione dell'autore, sempre in merito al dibattito sul realismo, pubblico qui un contributo molto interessante di Giacomo Pisani apparso qualche giorno fa sul sito filosofia.it

 

Il nuovo realismo e la sfida dell'esistenza

di Giacomo Pisani

L’incalzare della riflessione sul “nuovo realismo”, a livello nazionale, ci pone di fronte a questioni in cui è implicato il nostro stesso stare al mondo, costringendoci a rifuggire qualsiasi riduzionismo.

Il nuovo realismo di Ferraris (da qualche mese è uscito il “Manifesto del nuovo realismo”) sembra voler rilanciare la sfida col reale nella semplicità di uno schema che riduce gli oggetti in tre classi: gli oggetti naturali, esistenti nello spazio e nel tempo indipendentemente dai soggetti; gli oggetti sociali, la cui esistenza nello spazio e nel tempo dipende invece dai soggetti stessi; e gli oggetti ideali, che esistono fuori dello spazio e del tempo indipendentemente dai soggetti. Ora, per Ferraris, il disincanto dall’illusione postmodernista, che affermando che “non ci sono fatti, solo interpretazioni”, ci ha esposti al populismo e al negazionismo, passa attraverso il ritorno all’evidenza degli oggetti naturali. La costituzione di questi ultimi costituisce l’ “inemendabile”, che eccede qualsiasi costruzione categoriale. L’indipendenza dell’oggetto rispetto agli schemi del soggetto e, in generale, della epistemologia, costituisce dunque un criterio di oggettività che resiste a qualsiasi tentativo di interpretazione e di falsificazione.


Sull’ oggettività del mondo reale, a cui è possibile corrispondere in termini veritativi, poggia la giustizia. Dunque, quest’ultima si fonda, in ultima analisi, sulla verità. L’esistenza stessa della scienza e della giustizia deriva, per Ferraris, dalla sussistenza di un mondo reale le cui leggi sono indifferenti alle nostre volizioni e cogitazioni. E a coloro che affermano che la discussione intorno all’esistenza degli oggetti fisici è in fin dei conti superflua rispetto all’esistenza, per la quale contano ben altre cose (i cosiddetti “benaltristi”), Ferraris risponde che le valutazioni hanno ad oggetto i fatti e che i fatti avvengono in un mondo di oggetti. Quindi è impossibile introdurre una discontinuità fra fatti fisici e fatti storici. Ma subito dopo è lo stesso Ferraris ad introdurre una demarcazione di questo genere, affermando che il compito della filosofia è di capire quali oggetti siano costruiti e quali non lo siano, decostruendo la tesi secondo la quale tutto è socialmente costruito.

Ma come è possibile distinguere gli oggetti naturali da tutto ciò che è socialmente costruito? Ogni oggetto è inserito costitutivamente all’interno del progetto del soggetto che lo prende in considerazione, divenendo un elemento essenziale delle possibilità in cui tale progetto consiste. La stessa considerazione che si prefigge di prendere in esame un oggetto nella sua materialità oggettiva, consiste in un determinato progetto in cui viene a collocarsi l’oggetto. Per questo, è impossibile staccare la costituzione di quest’ultimo dalla prospettiva in cui esso si dà in tal modo, pena il ricadere in una visione astratta che ignora il rapporto dialettico in cui soggetto e oggetto si relazionano. Tale argomento non è presente solo nell’idealismo tedesco, in Marx e in Heidegger, ma anche nella tradizione idealista italiana. Illuminanti sono le pagine di Gentile sulla prassi in “La filosofia di Marx”.


Ecco cosa induce Markus Gabriel, il giovane realista introdotto in Italia da Ferraris, a dire che l’oggetto si dà in campi di senso, e che, più in generale, “tutto ciò che esiste, esiste perché c’è un campo di senso”, tornando a far dipendere, come fa notare Ferraris nella prefazione de “Il senso dell’esistenza”, l’ontologia dall’espistemologia.

Ma tale argomento, come quello della fatticità del senso, non contraddice le tesi postmoderniste, che non si rifanno al soggetto trascendentale kantiano o addirittura al soggetto cartesiano, additati da Ferraris per criticare il presunto costruttivismo postmodernista.

Il soggetto heideggeriano, come il soggetto di Vattimo e di buona parte della tradizione postmodernista, non è il soggetto trascendentale che costruisce la forma oggettiva del mondo esterno per mezzo delle categorie a priori del proprio intelletto. Il soggetto postmoderno è costitutivamente esposto all’essere, è gettato all’interno di un orizzonte storico che costituisce l’apertura di senso del mondo. Quest’ultimo si dà in significati che rimandano essenzialmente all’esistenza, traducendosi in possibilità e articolandosi dunque nelle trame dei nostri progetti. Ecco perché il reale è in rapporto diretto con la storia e, per quanto inaggirabili, le resistenze che esso ci oppone si danno nella nostra apertura al mondo.

La stessa considerazione dei fatti storici, che Ferraris intende come un atteggiamento “neutro”, da premettere comunque a qualsiasi critica, è già sempre una “scelta”, nella vita effettiva, di qualsiasi fatto all’interno di una rete di progetti che costituisce la stoffa della nostra esistenza, come ben spiega Sartre quando parla de “Il mio passato” in “L’essere e il nulla”.

La sfida del reale, allora, è eminentemente dialettica e non ammette riduzioni. Fondare la verità su una determinata visione degli oggetti deriva dalla mancata assunzione della storicità delle possibilità che a tale oggetto ineriscono. Possibilità che non sono infinitamente manipolabili, come l’estetizzazione postmoderna può farci credere, perché si radicano nell’identità di ciascuno, che è in relazione con lo spazio comunitario e con l’orizzonte di senso a cui è legato. Qui la posta in gioco è altissima. L’assorbimento entro le possibilità pre-costituite nel mondo determina infatti l’assolutizzazione del rapporto, essenzialmente dialettico, fra il soggetto e la realtà, annullando la possibilità di farsi carico delle esigenze degli individui oppressi da tale configurazione dell’essente.

L’estetizzazione postmoderna ha sì, come dice Ferraris, disperso i soggetti entro una dimensione pubblica in cui sono divenute impossibili le scelte, e che è spesso divenuta facile preda del populismo mediatico. Ma ciò è derivato proprio dalla neutralizzazione degli spazi, che ha reso impossibile assumere la storicità delle condizioni e ha piuttosto addomesticato nell’indifferenza le soggettività, rinsaldando i rapporti di potere. Ma la sfida che i problemi reali ci oppongono esige che qualsiasi facile riduzionismo venga rifuggito, e che ad essere preso in esame sia il nostro stesso rapporto con gli oggetti. Il nostro stare al mondo, esponendoci fin nel profondo alle cose, è implicato in questa sfida, che è la sfida dell’esistenza.

9 commenti:

Mauro Pastore ha detto...

Cerco d'esser breve. In alcune pagine de "Il mondo come volontà e rappresentazione" Schopenhauer rimprovera (c'è di mezzo anche l'etica...) a Platone e a Kant d'esser rimasti a metà del lavoro, il primo per aver assunto le Idee quali fonti di verità e non semplici tramiti per la verità, il secondo per aver asserito la dipendenza del Noumeno dai fenomeni tentando poi di evitare la ricaduta nel causalismo metafisico con l'altra asserzione dell'inservibilità del Noumeno stesso se non quale indicazione del confine estremo della conoscenza. La duplice smentita permetteva di costruire un soggettivismo estremo il cui esito però era l'approdo a un altrettanto estremo oggettivismo, dato che in quel nulla della volontà e in quella nullità del mondo v'era passaggio all'autentica libertà, anche del volere, e al giusto rapporto proprio col mondo. Voluntas e Noluntas erano due aspetti di quel "Wille", che Schopenhauer pensò in termini di vitalismo onde mostrare la necessità filosofica di prendere atto delle difficoltà dell'esistenza senza vani ottimismi. Invertendo invece il senso del rapporto che Derrida dava ad essere e divenire quando attribuiva a quest'ultimo l'originarietà e non all'essere, viene a mancare al Nuovo Realismo l'apparizione di quell'alterità che tanto pensiero del novecento aveva previsto come soluzione addirittura mesianica. Resta allora un essenzialismo dove all'oblio del carattere storicamente relativo della metafisica segue l'occultamento del valore contestualmente relativo dell'estetica, sicché la convenzionalità, privata di riferimenti a condizioni e situazioni, viene risentita per norma, legge. Ma così la conoscenza si chiude entro una realtà ove un dispotico controllo impedisce la riapertura dei confini e al contempo la rende urgente per evitare disastrosi o disperati isolamenti.

Mauro Pastore

Mauro Pastore ha detto...

Una breve aggiunta per emendare due errori di scrittura. Verso la fine del mio pèrecedente testo ho scritto "mesianica", in realtà intendevo "messianica". Più su invece preferirei che il lettore non consideri la virgola dopo "Wille".

Mauro Pastore

Anonimo ha detto...

Ho il timore che, al di là delle buone intenzioni dei nuovi realisti, ci troveremo presto, fra gli oggetti della realtà "inemendabile", le "ferree leggi dei mercati" e che si pretenderà che queste legittimino per sempre, al di là di qualsiasi possibile interpretazione, il sistema globalizzato e la lotta con ogni mezzo alle civiltà, ai popoli e ai movimenti "oscurantisti" che non vedono, evidentemente per qualche mistero inesplicabile per i realisti, oppure per pura mala fede, l'evidenza oggettiva di queste leggi, di questi fatti inemendabili.
La domanda è: se ci sono fatti inemendabili che assumono un'incidenza diretta sul giudizio sulle cose e sul mondo, com'è che, nei millenni, singoli uomini, popoli e civiltà questi giudizi li hanno formulati nei modi più differenti senza che fosse mai possibile metterli d'accordo ? E se questi fatti, ammesso che esistano, non sono in grado di fondare un giudizio univoco, perché li si ritiene così importanti? Sbaglio o siamo ad un nuovo tentativo di trovare la "charateristica universalis": se ci sono questi fatti i realisti li mostrino a fondamento della loro teoria e poi potremo dire: "calculemus !"

Mauro Pastore ha detto...

Il rifiuto dell'alterità da parte del Nuovo Realismo è un tentativo conservatore, in quanto l'irrompere dell'altro, sia un Dio o non lo sia, è nei fatti un'incognita, un fattore destabilizzante, un potenziale rivoluzionario; tuttavia esso è in ogni caso previsto e desiderato, auspicato, atteso da molti. Non è l'ignoto ma è pur sempre qualcosa che non consente più la prevedibilità in tante cose della vita, sociale, civile, culturale, religiosa. Il rifiuto dell'altro a suo modo assicura l'esclusione di tutto ciò che testimonia l'altro stesso, se venisse condotto a perfezione renderebbe impossibile un'integrazione che appare necessitata dal fatto che nell'altro c'è una salvezza cui l'ottimismo del Nuovo Realismo non potrebbe accedere. Il potere della filosofia può anche esser distruttivo e diventare causa di danni né è possibile evitare il peggio ripetendo stancamente una proposta che come si è visto non è irresistibile dato che ad ogni debole soggettivismo può opporsi un forte oggettivismo (spero sia chiaro cosa voglio dire). Stavolta a venirmi in mente sono gli ultimi versi di una struggente poesia di Charles Baudelaire, ove la più terribile e pericolosa delle invocazioni pare cadere come una pietra tombale sopra un intero mondo e ad esser invocato è l'ignoto (francese: inconnu). Baudelaire, scontento della filosofia di Schopenhauer, deluso dall'arte di Wagner, sembra qui suggerire il viaggio estremo, lo scarto che rende possibile veramente la novità; ma se il nuovo dev'essere il rimedio per l'incomprensione del vecchio, non è forse tutto ciò un altro male? Dunque, più filosoficamente, essenza ed esistenza non possono essere opposte in eterno l'una di contro all'altra, senza che qualcosa vada perso, o per esaurimento del confronto stesso, o per un improvviso salto nel buio, per così dire, tutt'altro che religioso. Se invece il vecchio non viene frainteso, se vi si trovasse una difesa, entrare nell'ignoto non sarebbe sempre un sommo pericolo. Per questo l'antiessenzialismo non funziona più, non potrebbe funzionare, in verità funzionava poco anche prima e qualche volta neppure prima. (Che questo determini trasformazioni economiche è ovvio ma insistere su questo risvolto assumendolo come oggetto privilegiato lo trovo un compromesso assurdo. Sicuramente nel Nuovo Realismo il Logos si chiude tragicamente nel Nomos, l'ecologia quindi nella economia, così un nomos finisce per restare sempre lo stesso ed essere ingiustamente privilegiato. Faccio un esempio. Se si trovasse in un bazar un oggetto salvifico, esso verrebbe ignorato dai fanatici del supermarket ma inutile sarebbe iniziare una concorrenza in presenza del rifiuto a entrare nel bazar per verificare. Io però inviterei a cogliere l'ampiezza dell'evento in questione, che coinvolge il ruolo della politica, la quale non può esser fatta dall'economia: sarebbe il suicidio della politica.)

Mauro Pastore

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