L'espresso, 6 gennaio 2011
Contro i falsari dell'incantamentoAbbiamo davvero bisogno di un reincantamento del mondo? Cioè di ritrovare l’indicibile che sta sotto, o che sospettiamo stare sotto, alla nostra vita cosciente, alle nostre esperienze quotidiane, banalizzate dai bisogni della sopravvivenza, dall’“insuperabile materialismo” che caratterizza tutto ciò che è “umano troppo umano”? Per soddisfare questo bisogno, è forse vero che – come suona il titolo di un libro di Massimo Cacciari degli anni Novanta, l’angelo è necessario. Se non necessario, è certamente utile, accanto ad altre “entità” non meno volatili, prima fra tutte, forse, la mitologia psicoanalitica. Nel bisogno di reincantare il mondo, contro la secolarizzazione dominante, i pericoli della tecnica (riproduzione assistita, clonazione del vivente, robotizzazione della vita quotidiana, e naturalmente anche l’intensificazione del dominio che una società come la nostra quasi naturalmente porta con sé) risuona la nostalgia per una condizione di esistenza più autentica ma anche più chiusa entro confini sicuri, nella cornice di valori “non negoziabili”, che minacciano e tranquillizzano insieme, come la figura di un padre severo ma giusto che tutti abbiamo sognato di avere e, poi, di essere. Ambigua come la nostalgia per la paternità è anche, e anzitutto, la figura dell’angelo. Il demonio è solo un angelo caduto, una creatura “divina”, che proprio per la sua somiglianza con Dio ha ceduto alla tentazione (chi l’ha tentato, però? Non certo un Ur-demonio, un pre-diavolo) di farsi in tutto uguale a lui, dunque cadendo nel peccato di superbia che lo ha condannato. Ma noi come facciamo esperienza dell’Angelo? L’angelo custode è la figura con cui siamo in relazione fin dall’infanzia, anzi soprattutto nell’infanzia, che ci ha lasciato una sorta di imprinting che del resto spiega anche la nostalgia che sentiamo ancora. Non a caso molte figure di angeli della tradizione pittorica occidentale hanno la fisionomia di bellissimi bambini o di adolescenti molto giovani, di putti. Per molti versi, l’angelo è una faccenda di, e da, bambini. Eppure, soprattutto nell’epoca del (bisogno di) reincanto del mondo, è anche una delle porte attraverso cui è passato nella cultura comune (o più o meno comune: i lettori di Rilke non sono massa) il ritorno di interesse per il mito e più specificamente per il mito biblico, veterotestamentario più che propriamente cristiano. L’Angelus Novus di Benjamin è fratello di tante figure kafkiane: un angelo è certo il messaggero di Klamm del Castello. O forse un tale accostamento rischia di sembrare blasfemo perché troppo vicino all’idea – ci pare di Deleuze – che Il processo kafkiano sia in realtà un romanzo umoristico? Non è forse diventato tema di un bel film comico (Una poltrona per due) la storia di Giobbe, della scommessa di Dio con il diavolo sulla pelle del povero uomo a cui vengono strappati i beni, la famiglia, le greggi, ecc. per metterlo alla prova?
L’enfasi con cui molta cultura contemporanea ha guardato agli Angeli è certamente giustificata, almeno in quanto angelo è anche il messaggero, sinonimo di esperienza puntuale che ci svela qualcosa di essenziale: come in Hoelderlin: “Nur zu Zeiten” – Solo a momenti l’uomo sopporta pienezza divina - Sogno di essi è, dopo, la vita (“Pane e vino”). Ma perché non lasciare gli angeli nella loro ambiguità, invece che costruirci intorno una metafisica neo-biblica, che li prende troppo sul serio, come prende sul serio il Josef K. di Kafka che si aggira senza costrutto nelle miserabili soffitte dove ha sede il suo improbabilissimo tribunale? Il fatto che l’angelo (sia l’Angelus Novus di Benjamin, sia certi angeli di Baudelaire) abbia anche il carattere volatile che è chiaramente significato dalla ali con cui viene rappresentato, non significherà che, appunto, solo a momenti si fa esperienza dell’essenziale, ma che questo è tale proprio nello stesso senso in cui si chiamano essenze quelle dei profumi, che svaniscono nell’aria lasciando solo un ricordo? Lo stesso Hoelderlin, del resto, suggerisce che l’essenziale di cui l’Angelo ci appare annuncio e simbolo vivente appartiene al dominio della poesia – “ciò che dura”, ossia l’essenziale, “lo fondano i poeti”. E ancora: “pieno di meriti, e tuttavia, poeticamente abita l’uomo su questa terra”. La ripresa del mito, l’interesse per l’Angelo e per le tante immagini bibliche che vi si associano, doveva e poteva essere l’occasione di capire che l’essenziale, dell’umano, è “solo” poesia, raffigurazioni artistiche, a cui si riducono (ma è poi una riduzione?) anche le convinzioni religiose. Bonhoeffer: “Un Dio che c’è, non c’è”. Caricando troppo di portata metafisica le storie bibliche, i miti della psicoanalisi e la fantasmagoria di mitologie di cui ci parlano, nel mondo globalizzato, l’etnologia e l’antropologia culturale, facciamo davvero un servizio al ritrovamento del sacro o trasformiamo invece tutto in una canzone da organetto, come direbbe il Nietzsche dello Zarathustra? Sia per i filosofi e critici letterari che non credono più alla rivoluzione, sia per tanti credenti nella Bibbia (Nuovo e Antico Testamento), è forse l’ora di domandarsi se non si debba finalmente secolarizzare la storia di Giobbe, e se l’Angelo dell’Annunciazione di tanti pittori abbia davvero qualcosa a che fare con il dogma della verginità di Maria.
Gianni Vattimo
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