Cari amici, permettetemi qualche osservazione sull’articolo di Giorgio Fontana uscito il 12 agosto. Sebbene sia citato solo per inciso, si tratta qui del (mio) relativismo. Del quale si dice, come da parte di molti altri critici, che porta ad “assurdità palesi” (ma l’esempio degli scienziati niente affatto disinteressati non mi sembra così palesemente assurdo, anche se l’interesse che li muove può essere un po’meno individuale: sconfiggere il cancro, scoprire una energia rinnovabile e pulita: sempre interesse è, non “amore della verità”). Nel penultimo capoverso dello scritto, poi, Fontana elenca una serie di condizioni per poter tornare alla buona vecchia etica della verità: tra di esse “la responsabilità di fissare dei limiti, di trovare delle basi comuni, di fidarsi di determinati esperti”, ecc. Già, ma questo è proprio ciò che un buon ermeneutico sa di dover fare, dato che niente gli si dà “oggettivamente” e senza mediazioni di schemi e paradigmi. Grazie dell’ospitalità.
domenica 15 agosto 2010
Botta e risposta su verità, relativismo, berlusconismo
Una risposta all'articolo di Giorgio Fontana, uscito il 12 agosto sul Manifesto.
Ecco l'articolo di Fontana:
La verità ai tempi di Berlusconi
«Gli italiani furono spesso accusati, a torto o a ragione, di non rispettare sufficientemente la verità. Va detto che poche persone in qualsiasi paese hanno per la verità un rispetto religioso; gli italiani non sono diversi dagli altri uomini. (...) Tuttavia, collettivamente, sembrano dimenticare, talora, l'importanza unica della verità. Spesso la ignorano, l'abbelliscono, vi ricamano intorno, la negano, a seconda dei casi».
Così Luigi Barzini, nel suo classico Gli italiani. Sono passati cinquant'anni, ma la frase sembra descrivere alla perfezione il presente. Allora lo spregio della verità è in realtà un tratto tipico della nostra storia? Chissà: in ogni caso, non mi pare abbia mai raggiunto forme gravi quanto quelle degli ultimi anni. Non è mai stato così istituzionalizzato e diffuso, reso sistema invece che norma di sopravvivenza quotidiana.
Ricordate il caso Di Bella? I media dicevano che la sua cura contro il cancro era miracolosa, quando in realtà tutti gli oncologi avevano espresso il massimo scetticismo. Ma Di Bella era televisivo, era perfetto, era un padre Pio laico della medicina. L'importante non erano i fatti quanto la comunicabilità di un evento. Era il 1997, e fu un simbolo evidente della tendenza progressiva a equiparare del parere degli esperti a quello di chiunque altro - purché interessante. Un po' come chiedere a Cannavaro cosa ne pensa di Saviano, e prendere la sua opinione per autorevole, perché uscita da una bocca celebre.
In questi casi, la verità non è il fine dell'indagine. Il fine dell'indagine è raccontare una storia.
Cifra di questo atteggiamento è il trionfo della figura dell'opinionista: affondiamo in una quantità di pareri e idee senza una bussola in grado di orientarci correttamente verso i fatti. E mentre l'opinionismo è spacciato come è simbolo della libertà di parola e della democratica espressione dei propri giudizi, in realtà eleva il parere a verità - un arlecchino di giudizi che si scontrano, e fra le quali emerge solo quello più potente.
Poco tempo fa, la filosofa Franca d'Agostini ha pubblicato un saggio dal titolo eloquente: Verità avvelenata (Bollati Boringhieri 2010). L'idea è indagare le forme di argomentazione presenti nel discorso pubblico e mostrare, con esempi tratti per lo più da affermazioni di politici, quanto le fallacie logiche siano presenti ovunque nelle società democratiche, e in Italia oggi: «Qualsiasi verità risulta fin da principio contaminata da uno sfondo di preliminare sospetto». Delegittimare, insultare, avvelenare l'intero pozzo del dibattito.
Perché tutto questo? Ci sono delle ragioni generali (come il fatto, indicato dall'autrice, che le regole stesse del discorso razionale sono incerte), ma nel caso dell'Italia contemporanea ci sono anche ragioni più circostanziate. Contingenze storiche che hanno portato a quello che ritengo il segno più vasto della crisi democratica del Paese: lo spregio per la verità e la razionalità, il disinteresse per la buona argomentazione.
Come sempre, Berlusconi è insieme causa, sintomo e simbolo di questo problema. Nell'ormai classico articolo di Gomez e Travaglio uscito su l'Espresso il 13 maggio 2004, i due autori raccontano quarantaquattro bugie dette dal premier, «escludendo i 115 minuti di deposizione spontanea al processo Sme-Ariosto (durante il quale Berlusconi riuscì a pronunciare ben 85 bugie allo straordinario ritmo di una balla ogni 81 secondi)».
La cosa interessante che questo modo di ragionare - lo spregio totale per l'idea di verità - sembra aver attecchito un po' ovunque. Berlusconi, quando è cosciente di dire il falso, lo dice tranquillamente perché sa che ormai la verità non può sconfiggere più le sue affermazioni: non è, per così dire, attiva nel mondo. Quindi verità e falsità sono concetti che non interessano più - basta dire ciò che serve al momento, magari smentirlo domani, non ha importanza.
D'Agostini parla di «costruzione di una realtà2» basata sulla comunicazione e non sull'informazione, e il processo di tale costruzione è stato lungo e diabolicamente meticoloso, nel corso degli ultimi vent'anni. Ma la costante emissione di parainformazioni e il continuo vivere in una «realtà2» ha prodotto una risposta coerente da parte di chi ascolta, e la colpa non è limitabile a chi parla. In altri termini: si sta smarrendo l'idea di un pubblico etico, di un pubblico capace di recepire la verità. Credo sia questa la grande differenza marcata dal berlusconismo: l'erosione della verità ora è dolorosamente sociale e diffusa ovunque.
Come scrive Davide Tarizzo in un saggio dell'antologia Forme contemporanee del totalitarismo (Bollati Boringhieri 2007): «La sfera del senso viene completamente integrata e assorbita nella sfera dell'assenso. L'ambiguità è il suo sentimento più veritiero». In una politica dell'applauso, dove la claque sottolinea un fatto accettandolo e mettendolo in ostensorio, il dissenso o la critica perdono di valore. Ma è proprio dalla volontà di dubitare e mettere in discussione - dall'umiltà e l'incertezza - che nasce la ricerca seria.
Ora, questo spregio per la verità come bene non è cosa nuova, e ha un vago sentore democristiano. Nello splendido monologo de Il divo, Sorrentino mette in bocca ad Andreotti un'argomentazione di stampo cattolico: la massima responsabilità è salvare il bene facendo il male, ignorando la questione della verità. Una simile metafisica è la stessa, in fondo, del Grande Inquisitore di Dostoevskij: sacrificando la libertà per la legge, si assicura una pretesa salvezza.
Se questa interpretazione è corretta, potremmo dire che tale politica del falso era in "buona fede" - per quanto carica di molte responsabilità civili e umane. Al contrario, la torsione finale del berlusconismo è lo spregio della verità in quanto tale, per ragioni assolutamente private. Dire il vero non è un elemento pericoloso in una visione delle cose, ma soltanto un dato pratico che va eliminato, perché rischia di compromettere il regno della menzogna - del «fa' come ti pare».
C'è dunque una palese tensione etica del falso, o meglio ancora dell'indifferenza verso la separazione tra vero e falso. Il potere sommerge la verità, la rende inutile: a emergere è la soluzione più forte, più interessante o più supportata - non la più plausibile.
E sempre per questo motivo, la colpa è «dei magistrati» e «dei giornalisti». Perché «fine primario ed ineludibile del processo penale non può che rimanere quello della ricerca della verità» (sentenza n. 255/1992, presidente A. Corasaniti, redattore M. Ferri). E perché «è diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà d'informazione e di critica, limitata dall'osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e della buona fede» (legge n. 69, 3/02/1963, art. 2). Di qui la necessità della legge bavaglio e della sua estensione ai blogger.
Tout se tient: il tema della verità è il filo rosso per comprendere l'inabissarsi della nostra etica pubblica.
Come reagire?
Alcuni pensano sia necessario un esame critico dell'idea di verità. Ad esempio Gianni Vattimo, che nel suo Addio alla verità (Meltemi 2009) propone di abbandonare questo concetto. Il ragionamento suona più o meno così: visto che c'è stato e c'è un uso ampiamente strumentale del vero come corrispondenza ai fatti, e uno svilimento totale del suo valore, la cosa migliore è lasciarlo perdere. Non ci sono verità disinteressate, l'oggettività è sempre schiava di determinati interessi.
Qui Vattimo compie due errori tipici del relativismo: pensare che tutta la verità si riduca a Verità assolute (quelle religiose o di etica generale), e ritenere che in ogni caso ogni affermazione di verità corrisponda all'imposizione di una pretesa di dominio.
Ma questa è una reazione figlia della crisi, e non risolve nulla. Porta anzi ad assurdità palesi, come quando Vattimo parla della ricerca scientifica: «Magari (questi scienziati) cercano solo di vincere il premio Nobel, e anche questo è un interesse» (p. 25). Una conclusione che lascia quantomeno a bocca aperta.
Inoltre, c'è una miriade di verità con la «v» minuscola che sono perfettamente neutrali e sulle quasi ci basiamo ogni giorno: perché trascurarle? Pensare che chiunque dica il vero si arroghi una pretesa di dominio sull'altro - come se non esistesse alcuna verità condivisibile, come se lo stesso concetto uccida qualunque forma di dialogo o scetticismo - è un rimedio peggiore del male.
E allora, non sembra esserci altra prospettiva che quella di tornare alla buona vecchia etica della verità. La comprensione critica e morale del mondo non può che passare da questo concetto: minimale quanto si vuole, ma indispensabile. Che si tratti di comprare un chilo di pesche, o di dibattere attorno ai temi della bioetica.
Si può obiettare che non è affatto un compito facile. Certo: è estremamente delicato e comporta molti problemi: la responsabilità di fissare dei limiti, di trovare delle basi comuni, di argomentare con chiarezza, di fidarsi di determinati esperti, e soprattutto l'eterno rischio di sbagliare o cadere nella presunzione.
Ma questa è la condizione umana. Possiamo divorare il loto dell'egoismo e fregarcene che l'opinione pubblica venga inquinata dalla falsità. Oppure, possiamo accettare che bene e verità siano cose fragili e complesse, ma proprio per questo così bisognose d'attenzione.
La scelta è solo nostra. Compiamola con responsabilità.
Ed ecco la mia risposta:
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